Il linguaggio segreto di Dante e dei «fedeli d’amore» (seconda parte)

Prosegue il nostro speciale “Dante 700”, con la seconda parte dell’ampio estratto dagli articoli dedicati da René Guénon al linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, apparsi su Le Voile d’Isis dal 1929 al 1932, e raccolti poi ne “L’esoterismo cristiano”.

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di René Guénon

Estratti dagli articoli pubblicati su Le Voile d’Isis, febbraio 1929 – luglio 1932

segue dalla prima parte

Abbiamo già parlato dell’importante opera pubblicata nel 1928, con lo stesso titolo, da Luigi Valli; nel 1931 abbiamo appreso della improvvisa e prematura morte dell’autore, dal quale ci aspettavamo altri studi non meno degni di interesse; nel frattempo ci è pervenuto un secondo volume dallo stesso titolo, che contiene, insieme alle risposte alle obiezioni sollevate contro la tesi da lui sostenuta nel primo volume, un certo numero di note complementari (1).

Le obiezioni, che testimoniano una incomprensione di cui non siamo affatto sorpresi, possono essere ricondotte, come facilmente prevedibile, quasi tutte a due categorie: una relativa ai «critici letterari», imbevuti di ogni sorta di pregiudizi scolastici ed universitari; l’altra legata agli ambienti cattolici, ove non si vuole ammettere che Dante sia appartenuto ad una organizzazione iniziatica.

(…) Faremo notare solo due o tre esempi tipici dell’incomprensione dei «critici» universitari: alcuni sono arrivati a pretendere che una poesia, in quanto bella, non può essere simbolica; sono quindi convinti che un’opera d’arte può essere ammirata solo se non significa niente: l’esistenza di un significato profondo ne distruggerebbe il valore artistico! Espressa nel modo più chiaro possibile, ecco dunque la concezione «profana» da noi segnalata ultimamente, a più riprese, sia a proposito dell’arte in generale che della poesia in particolare, concezione del tutto opposta al carattere che le arti e le scienze avevano in origine ed hanno sempre avuto in tutte le civiltà tradizionali. A questo proposito, notiamo una formula molto interessante citata da Valli: in tutta l’arte medioevale, al contrario dell’arte moderna, «si tratta dell’incarnazione di un’idea, non dell’idealizzazione di una realtà»; noi diremmo, di una realtà di ordine sensibile, poiché l’idea è anch’essa una realtà, ed anzi di un grado superiore; questa «incarnazione dell’idea» in una forma non è nient’altro che lo stesso simbolismo.

Altri hanno espresso una obiezione veramente comica: essi pretendono che sarebbe «vile» scrivere in «gergo», cioè in linguaggio convenzionale. Evidentemente essi considerano ciò una sorta di bassezza e di dissimulazione. A onor del vero, forse lo stesso Valli ha insistito troppo unilateralmente, come abbiamo già fatto notare, sulla volontà dei «Fedeli d’Amore» di nascondersi per motivi di prudenza; non è contestabile la reale esistenza di una tale componente, si trattava infatti di una necessità loro imposta dalle circostanze, ma essa non è che la più piccola e la più esteriore delle ragioni che giustificano l’impiego di un linguaggio che non è solo convenzionale ma anche, e soprattutto simbolico. Si ritrovano esempi analoghi in tutt’altre circostanze, ove, se fosse stato possibile parlare chiaramente, questo non avrebbe costituito pericolo alcuno; si può dire invece che, anche in questi casi, era più utile sviare coloro che non erano «qualificati», cosa questa che rivela tutt’altra preoccupazione che la semplice prudenza; ma ciò che occorre notare soprattutto è il fatto che le verità di un certo ordine, per loro stessa natura, possono essere espresse solo simbolicamente.

Infine, ve ne sono altri che ritengono inverosimile l’esistenza della poesia simbolica dei «Fedeli d’Amore», perché si tratterebbe di un «caso unico», mentre Valli si era preoccupato di dimostrare che, proprio nella stessa epoca, la stessa cosa accadeva in Oriente, ed in particolare con la poesia persiana. Si potrebbe anche aggiungere che questo simbolismo dell’amore è stato talvolta impiegato anche in India e, per limitarsi al mondo mussulmano, è assai singolare che, a questo proposito, si parli quasi sempre in modo esclusivo della poesia persiana, mentre invece si possono facilmente trovare degli esempi simili nella poesia araba, di un carattere non meno esoterico, per esempio, in Omar ibn El-Farid. Aggiungiamo anche che nelle espressioni poetiche del Sufismo sono stati impiegati, ugualmente, ben altri «veli» (2), ivi compreso quello dello scetticismo, per il quale si possono citare, a mo’ d’esempio: Omar El-Khayyam e Abu-l-Alà El-Maari; soprattutto per quest’ultimo ben pochi sanno che in realtà era un iniziato d’alto rango; e cosa particolarmente curiosa, dato l’argomento di cui stiamo trattando, è il fatto che finora non abbiamo visto nessuno che abbia segnalato come la sua opera, Risàlatul-Ghufràn, potrebbe essere considerata una delle principali «fonti» islamiche della Divina Commedia.

Per quanto riguarda l’obbligo imposto a tutti i membri di una organizzazione iniziatica di scrivere in versi, esso si accordava perfettamente con il carattere di «lingua sacra» che aveva la poesia, come dice molto giustamente Valli, si trattava di tutt’altra cosa che del «fare della letteratura», scopo questo che non è mai stato quello di Dante e dei suoi contemporanei, i quali, aggiunge Valli ironicamente, «hanno il torto di non aver letto i libri della critica moderna». Ancora in un’epoca molto recente, in certe confraternite esoteriche mussulmane, tutti gli anni ognuno doveva comporre, in occasione del mulid dello Sheikh, un poema in cui si doveva sforzare, anche a scapito della perfezione della forma, di includere un significato dottrinale più o meno profondo.

L’albero dei due Avventi, una delle tavole del Liber Figurarum, opera dell’abate Gioacchino da Fiore (1130-1202)

Per quanto riguarda le nuove annotazioni fatte da Valli, e che aprono la possibilità di nuove ricerche, una di queste riguarda i rapporti fra Gioacchino da Fiore ed i «Fedeli d’Amore»: Fiore è uno dei simboli più usati, nella poesia di quest’ultimi, come sinonimo di Rosa, e con il titolo di Fiore è stato scritto un adattamento italiano del Roman de la Rose, da un fiorentino chiamato Durante, che quasi sicuramente è lo stesso Dante (3). D’altra parte, la denominazione del convento di San Giovanni in Fiore, da cui Gioacchino da Fiore prese il suo nome, non figurava in nessun posto prima di lui; fu lui stesso a dargliela? E perché scelse questo nome? Cosa notevole, Gioacchino da Fiore, nelle sue opere, parla di una «vedova» simbolica, esattamente come Francesco da Barberino e come Boccaccio, che appartenevano entrambi ai «Fedeli d’Amore»; e noi aggiungiamo che, ancor oggi, questa «vedova» è ben conosciuta nel simbolismo massonico. A questo proposito è spiacevole che delle preoccupazioni politiche sembra abbiamo impedito a Valli di fare alcuni accostamenti che, nondimeno, sono alquanto sorprendenti; senza dubbio egli ha ragione quando dice che le organizzazioni iniziatiche di cui si tratta non sono la Massoneria, ma il legame fra quest’ultima e le prime non è per questo meno certo; non è curioso, per esempio, che il «vento», nel linguaggio dei «Fedeli d’Amore», abbia esattamente lo stesso significato che ha la pioggia nel linguaggio della Massoneria?

Un altro punto importante è quello relativo ai rapporti fra i «Fedeli d’Amore» e gli alchimisti: nei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino, si trova un simbolo che, a riguardo, è molto significativo. Si tratta di una figura in cui dodici personaggi disposti simmetricamente e formanti sei coppie, che rappresentano altrettanti gradi iniziatici, convergono verso un unico personaggio posto al centro; questi, che ha in mano la rosa simbolica, ha due teste, una maschile ed una femminile ed è chiaramente identico al Rebis ermetico. La sola differenza che risalta, rispetto alle figure che si trovano nei trattati alchemici, è che mentre in questi ultimi la parte destra è maschile e la parte sinistra è femminile, qui invece la disposizione è rovesciata; questo particolare sembra sia sfuggito a Valli il quale, dimostrando di non essersene accorto, ne dà la spiegazione dicendo che «l’uomo con il suo intelletto passivo è riunito all’Intelligenza attiva rappresentata dalla donna», mentre invece, in genere, è il maschile che simboleggia l’elemento attivo ed il femminile quello passivo. Ciò che è più notevole è il fatto che questa sorta di rovesciamento del rapporto abituale lo si riscontra nel simbolismo impiegato dal tantrismo indù; e l’accostamento si impone a maggior ragione allorché notiamo che Cecco d’Ascoli dice: «onde io son ella», esattamente come gli Shaktas che dicono Sà’ham, «Io sono Lei», invece di dire So’ham, «Io sono Lui» (l’Ana Hoa dell’esoterismo islamico). D’altra parte, Valli fa notare che a fianco del rebis raffigurato nel Rosarium Philosophorum si vede una sorta di albero che porta sei coppie di visi disposti simmetricamente ai lati del fusto ed un unico viso alla sommità, ed egli identifica questi visi con i personaggi della figura di Francesco da Barberino; in effetti sembra che, in entrambi i casi, si tratti di una gerarchia iniziatica di sette gradi, ove l’ultimo grado è caratterizzato dalla ricostruzione dell’Androgine ermetico, vale a dire, quindi, dalla restaurazione dello «stato primordiale»; e questo si accorda con quello che abbiamo avuto occasione di dire a proposito del significato del termine «Rosa-Croce», che indica la perfezione dello stato umano.

A proposito dell’iniziazione in sette gradi, nel nostro studio su L’Esoterismo di Dante, noi abbiamo parlato della scala a sette gradini; è vero che generalmente questi sette gradini sono posti in relazione con i sette cicli planetari, i quali si riferiscono a degli stati sopra-umani, ma, per ragioni d’analogia, in un sistema iniziatico si deve avere una similare ripartizione gerarchica fra «piccoli misteri» e «grandi misteri». D’altra parte, l’essere reintegrato al centro dello stato umano, per ciò stesso, è pronto ad elevarsi agli stati superiori ed egli domina già le condizioni d’esistenza di questo mondo, di cui è divenuto maestro; è per questo che il Rebis del Rosarium Philosophorum ha sotto i suoi piedi la Luna, e quello di Basilio Valentino il drago; questo significato è stato completamente misconosciuto da Valli, il quale vi ha solo scorto dei simboli della dottrina corrotta o dell’«errore che opprime il mondo», mentre in realtà la Luna rappresenta il dominio delle forme (il simbolismo è il medesimo di quello del «camminare sulle acque») ed il drago raffigura il mondo elementare.

Modello di Rebis dai volti “invertiti”, con la luna sotto i piedi e l’albero iniziatico dei sette gradi (illustrazione da Viatorium spagyricum di H. Jamsthaler, Francoforte, 1625)

(…) Un’ultima nota riguarda il nome segreto che i «Fedeli d’Amore» davano a Dio: Francesco da Barberino, nel suo Tractatus Amoris, si è fatto rappresentare in atto di adorare la lettera I; nella Divina Commedia, Adamo dice che il primo nome di Dio fu I (4) ed El fu il nome successivo. Questa lettera I, che Dante chiama la «nona figura» secondo il posto da essa occupato nell’alfabeto latino (e si sa quale importanza simbolica avesse per lui il numero 9), non è altro, evidentemente, che lo iod, benché questo sia la decima lettera dell’alfabeto ebraico; infatti lo iod, oltre ad essere la prima lettera del Tetragramma, costituisce di per sé un nome divino, sia se isolato che se ripetuto tre volte (5). E lo stesso iod che nella Massoneria è diventato la lettera G, per assimilazione con God (poiché fu in Inghilterra che avvenne tale trasformazione); questo senza che vengano pregiudicati gli altri molteplici significati che, in un secondo momento, hanno finito col condensarsi nella stessa lettera G, e che qui non ci proponiamo di esaminare.

Nel deplorare la scomparsa di Luigi Valli, c’è da sperare, vivamente, che in questo campo di ricerche, così vasto e finora così poco esplorato, si trovino dei continuatori; e sembra che sia così, poiché egli stesso ci informa che, in questa direzione, è già stato seguito da Gaetano Scarlata, il quale ha dedicato un’opera (6) allo studio specifico del trattato De Vulgari Eloquentia di Dante, trattato «pieno di misteri», come Rossetti ed Aroux avevano opportunamente notato, e che mentre sembra occuparsi semplicemente dell’idioma italiano, in realtà si riferisce alla lingua segreta; secondo un procedimento ugualmente in uso nell’esoterismo islamico, ove, come abbiamo segnalato in altra occasione, un’opera iniziatica può rivestire l’apparenza di un semplice trattato di grammatica.

Senza dubbio si faranno ancora ben altre scoperte in questa direzione, ed anche se coloro che si dedicheranno a queste ricerche lo faranno solo con una personale mentalità «profana» (a condizione comunque che siano imparziali) e le considereranno solo come oggetto di una sorta di curiosità storica, i risultati ottenuti non saranno per questo, meno suscettibili di contribuire efficacemente ad una restaurazione dello spirito tradizionale, e questo sia per il valore che tali ricerche potranno avere di per sé, sia per mezzo di coloro che ne sapranno comprendere la reale portata: questi lavori, non si riallacciano, foss’anche inconsciamente ed involontariamente, alla «ricerca della Parola perduta», che è poi la stessa cosa della «cerca del Graal»?

Note dell’autore

(1) Il Linguaggio Segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, vol. II (Discussione e note aggiuntive), Roma, Casa Ed. «Optima», 1930.

(2) Feirefiz – La via del cuore – testi dell’esoterismo islamico – Arktos Carmagnola (nota aggiunta dall’editore)

(3) Dante è in realtà una contrazione di Durante, che era il suo vero nome;

(4) Paradiso, XXVI, 133

(5) È una semplice coincidenza che il cuore di Saint-Denis d’Orques, di cui abbiamo appena parlato, porta una ferita (o ciò che sembra tale) a forma di iod? E non vi sarebbe motivo di supporre che le antiche raffigurazioni del «Sacro Cuore», precedenti la sua adozione «ufficiale» da parte della Chiesa, abbiano potuto avere certi rapporti con la dottrina dei «Fedeli d’Amore» o dei loro continuatori?

(6) Le origini della letteratura italiana nel pensiero di Dante, Palermo, 1930

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Nell’immagine in evidenza, Dante e Beatrice del pittore preraffaellita Henry Holiday (1883)



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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