Il Linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore» (prima parte)

Come detto, anche se lo speciale dedicato a René Guénon è formalmente concluso, gli scritti del maestro di Blois continueranno sempre a trovare spazio su RigenerAzione Evola. E già oggi, nell’ambito del nuovo Speciale che anche noi abbiamo voluto dedicare a Dante Alighieri e “dintorni”, per i 700 anni dalla sua dipartita terrena, dopo l’articolo introduttivo di Julius Evola che commentava brevemente il saggio di Luigi Valli sul linguaggio segreto del Sommo Poeta e dei Fedeli d’Amore, passiamo la parola sul tema proprio a Guénon, che approfondì l’argomento in alcuni articoli usciti sulla rivista Le Voile d’Isis tra il 1929 ed il 1932, raccolti nell’antologia “L’esoterismo cristiano”. Di tali articoli proporremo un’ampia epitome, appunto a partire da oggi, alternativamente ad altri scritti di Evola. Buona lettura.

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di René Guénon

Estratti dagli articoli pubblicati su Le Voile d’Isis, febbraio 1929 e marzo 1932

Con il titolo: Il Linguaggio Segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore» [Roma, casa Ed. Optima, 1928], Luigi Valli, a cui si debbono parecchi studi sul significato dell’opera di Dante, ha pubblicato un nuovo lavoro che è troppo importante perché noi ci si accontenti di segnalarlo con una semplice nota bibliografica. La tesi lì sostenuta può essere riassunta brevemente così: le diverse «donne» celebrate dai poeti si riallacciano alla misteriosa organizzazione dei «Fedeli d’Amore», e per Dante, Guido Cavalcanti ed altri loro contemporanei, fino a Boccaccio ed a Petrarca, non sono affatto delle donne realmente vissute su questa terra ma, con i nomi più diversi, sono tutte una sola e medesima «Donna» simbolica, che rappresenta l’Intelligenza trascendente (la Madonna Intelligenza di Dino Compagni) o la Saggezza Divina.

Luigi Valli (1878 –1931), critico letterario e docente universitario.

In appoggio a questa tesi l’autore presenta una documentazione formidabile ed una serie di argomentazioni adattissime a colpire i più scettici: in particolare, egli dimostra che le poesie più (in)intelligibili, dal punto di vista letterale, diventano perfettamente chiare se si accetta l’ipotesi dell’esistenza di un «gergo» o linguaggio convenzionale, del quale egli è riuscito a tradurre i termini principali; e fra altri casi simili egli ricorda quello dei Sufi persiani, i quali dissimulavano ugualmente dei significati similari sotto le apparenze di una semplice poesia amorosa. È impossibile riassumere tutte le argomentazioni, basate su dei dati precisi e che conferiscano al libro tutto il suo valore; a coloro che fossero interessati all’argomento possiamo solo consigliare di riferirsi direttamente al libro.

A dire il vero, tutto questo ci era sempre apparso come un fatto evidente ed incontestabile, tuttavia ci rendiamo conto che una tale tesi ha bisogno di essere solidalmente sostenuta. In effetti, Valli prevede che le sue conclusioni saranno contestate da diverse categorie di avversari: innanzi tutto dalla sedicente critica «positiva» (che egli ha il torto di qualificare come «tradizionale», quando invece essa è all’opposto dello spirito tradizionale); poi dallo spirito di parte, sia cattolico che anticattolico, che non potrà minimamente compiacersene; ed infine dalla critica «estetica» e dalla «retorica romantica» che, in fondo, non sono nient’altro di diverso di quello che si potrebbe chiamare spirito «letterario». Si tratta, insomma, di un ammasso di pregiudizi che si opporranno sempre fortemente alla ricerca del significato profondo di certe opere; ma, in presenza di lavori come questo del Valli, le persone di buona fede e libere da ogni partito preso potranno vedere facilmente da che parte sta la verità.

Da parte nostra dobbiamo solo sollevare delle obiezioni circa alcune interpretazioni, ma esse non intaccano minimamente la tesi generale; del resto, l’autore non ha avuto la pretesa di offrire una soluzione definitiva a tutte le questioni da lui sollevate, ed è il primo a riconoscere che il suo lavoro avrà bisogno di essere corretto o completato su diversi punti particolari. Il principale difetto di Valli, dal quale dipendono quasi tutte le insufficienze che notiamo nel suo lavoro, diciamolo subito molto chiaramente, è costituito dal fatto che egli non possiede la mentalità «iniziatica» necessaria per trattare a fondo un tale argomento. Il suo punto di vista è, in maniera troppo esclusiva, quello dello storico: e non basta «fare della storia» (p. 421) per risolvere certi problemi; d’altronde, ci si può chiedere se, in un certo senso, questo non equivalga ad interpretare le idee medioevali per mezzo della mentalità moderna, cioè la stessa cosa che, molto giustamente, l’autore rimprovera ai critici ufficiali; gli uomini del Medioevo hanno mai fatto «della storia per la storia» (p. 421)? Per queste cose è necessaria una comprensione di un ordine più profondo; se si è mossi da spirito ed intenzioni «profane» non si riuscirà a fare altro che accumulare del materiale che bisognerà sempre mettere a profitto con tutto un altro spirito; e noi non riusciamo a vedere bene che interesse potrebbe avere una ricerca storica che non fosse in grado di esprimere qualche verità dottrinale.

È veramente spiacevole che l’autore difetti di alcuni dati tradizionali: di una conoscenza diretta e, per così dire, «tecnica» delle cose di cui tratta. È questo che gli impedisce, in particolare, di riconoscere la portata propriamente iniziatica del nostro studio su l’Esoterismo di Dante (p.19); ed è per questo che egli non ha compreso che, dal punto di vista in cui noi ci poniamo, poco importa che tali «scoperte» siano dovute a Rossetti, ad Aroux o a chiunque altro, poiché noi li citiamo solo come dei «punti d’appoggio» per delle considerazioni di un ordine ben diverso: per noi si tratta di dottrina iniziatica non di storia letteraria.

(…) il più grave difetto che abbiamo notato nell’opera di Valli (…) consiste nella costante confusione dei due punti di vista, «iniziatico» e «mistico», e nell’assimilazione ad una dottrina «religiosa» delle cose prese in esame, mentre invece l’esoterismo, anche quando prende come punto di partenza delle forme religiose (come nel caso dei Sufi e dei «Fedeli d’Amore»), appartiene in realtà ad un ordine del tutto diverso. Una tradizione veramente iniziatica non può essere «eterodossa», ed il qualificarla così (p. 393) significa invertire il rapporto normale e gerarchico che esiste fra l’interiore e l’esteriore. L’esoterismo non è contrario all’«ortodossia» (p. 104), anche se intesa semplicemente in senso religioso; esso è al di sopra o al di là del punto di vista religioso, e ciò, evidentemente, non è affatto la stessa cosa; ed in effetti, l’accusa ingiustificata di «eresia» fu spesso un comodo mezzo per sbarazzarsi di certa gente che poteva essere imbarazzante per tutt’altri motivi.

Rossetti ed Aroux non hanno torto nel pensare che le espressioni teologiche di Dante nascondono qualcos’altro, ma sono in errore allorché credono che occorra interpretarle «a rovescio» (p. 389); l’esoterismo si sovrappone all’exoterismo, ma non vi si oppone, poiché non si trova al suo stesso piano, ed esso dà alle medesime verità un significato più profondo, trasponendole in un ordine superiore. Certo si constata che Amor è il rovescio di Roma (1), ma non se ne può concludere, come si è voluto fare talvolta, che esso indichi qualcosa che è l’antitesi di Roma, bensì che è qualcosa di cui Roma è solo un riflesso o una immagine visibile, necessariamente invertita, come lo è l’immagine di un oggetto in uno specchio (ed è questa l’occasione per ricordare il «per speculum in aenigmate» di San Paolo).

(…) La confusione fatta da Valli, fra esoterismo ed «eterodossia» è tanto più stupefacente se si pensa che egli ha quantomeno compreso, molto meglio dei suoi predecessori, che la dottrina dei «Fedeli d’Amore» non è affatto «anticattolica» (essa era invece, al pari di quella dei Rosacroce, rigorosamente «cattolica», nel vero senso della parola) e non aveva niente in comune con le correnti profane da cui sarebbe derivata la Riforma (pp. 79-80 e 409). Ma, dove ha visto il Valli che la Chiesa abbia fatto conoscere al volgo il senso profondo dei «misteri» (p. 101)? Al contrario, l’insegna così poco che si può dubitare che ne abbia conservato coscienza Essa stessa; ed è precisamente in questa «perdita dello spirito» che consisterebbe la «corruzione» già denunciata da Dante e dai suoi associati (2).

(…) Ma torniamo alla confusione fra il punto di vista «mistico, e quello «iniziatico»: essa è solidale con la precedente, poiché è proprio la falsa assimilazione delle dottrine esoteriche al misticismo, il quale è relativo al dominio religioso, che conduce fino a porre sullo stesso piano esoterismo ed exoterismo, ed a volerli come in opposizione. Comprendiamo perfettamente, in questo caso, il perché di tale confusione: una tradizione «cavalleresca» (p. 146), per adattarsi alla natura propria degli uomini a cui è particolarmente destinata, comporta sempre la prevalenza di un principio che si configura come femminile (Madonna) (3), così come l’intervento di un elemento affettivo (Amore). L’accostamento fra una tale forma tradizionale e quella rappresentata dai Sufi persiani è del tutto esatta, ma occorre aggiungere che questi due casi sono lontani dall’essere i soli ove è presente il culto della «donna-divinità», cioè dell’aspetto femminile del Divino: lo si ritrova anche nell’India, ove questo aspetto è designato come la Shakti, equivalente per certi aspetti alla Shekinah ebraica, ed è opportuno notare che il culto della Shakti concerne soprattutto gli Kshatriya.

Maria Rosa mystica, incisione dei Fratelli Klauber, dalla serie di incisioni per le Litanie Lauretane (XVIII sec.)

Per l’esattezza, una tradizione «cavalleresca» non è altro che una forma tradizionale ad uso degli Kshatriya, ed è per questo che essa non è una via puramente intellettuale, come quella dei Brahmani; quest’ultima è la «via secca» degli alchimisti, mentre l’altra è la «via umida» (4), ove l’acqua simboleggia il femminile, come il fuoco simboleggia il maschile, corrispondendo, la prima all’emotività e la seconda all’intellettualità, le quali predominano rispettivamente nella natura degli Kshatriya e dei Brahmani. Ecco perché una tale tradizione può sembrare mistica, esteriormente, anche quando in effetti è iniziatica; tanto che si potrebbe anche pensare che il misticismo, nel senso ordinario del termine, è come un vestigio o una «sopravvivenza» di tale tradizione, vestigio rimasto, in una civiltà come l’occidentale, dopo la sparizione di ogni altra organizzazione tradizionale regolare.

Il ruolo del principio femminile in certe forme tradizionali si constata anche nell’exoterismo cattolico, attraverso l’importanza che in esso è data al culto della Vergine. Valli sembra stupirsi nel vedere la Rosa Mystica figurare nelle litanie della Vergine (p. 393); tuttavia, in queste litanie, vi sono ben altri simboli propriamente iniziatici e sembrerebbe che egli non sospetti neanche che la loro applicazione è perfettamente giustificata dalle relazioni esistenti fra la Vergine, la Saggezza e la Shekinah (5). A questo proposito notiamo anche che San Bernardo, di cui si conosce la stretta relazione con i Templari, si presentava come un «cavaliere della Vergine», che egli chiamava «mia donna», ed a lui si attribuisce l’origine stessa del vocabolo «Notre-Dame», che è pure Madonna e che, in uno dei suoi aspetti si identifica con la Saggezza, dunque con la stessa Madonna dei «Fedeli d’Amore»; ecco ancora un accostamento che l’autore non ha sospettato, come sembra non sospettare le ragioni per cui il mese di maggio è consacrato alla Vergine. Vi è una cosa che avrebbe dovuto indurre Valli a pensare che le dottrine in questione non hanno niente a che vedere col «misticismo»: ed è che egli stesso constata l’importanza quasi esclusiva che in esse è data alla «conoscenza» (pp. 421-422), cosa questa che è totalmente estranea al punto di vista mistico. D’altra parte, egli finisce solo col trarne delle conseguenze errate: l’importanza data alla «conoscenza» non è una speciale caratteristica dello «gnosticismo», ma è un carattere comune a tutti gli insegnamenti iniziatici, al di là della forma che essi possano assumere; la conoscenza è sempre lo scopo unico, e tutto il resto è solo un mezzo per pervenire ad essa. Bisogna guardarsi bene dal confondere «Gnosi», che significa «conoscenza», con «gnosticismo», nonostante quest’ultimo termine derivi evidentemente dal primo; d’altronde la denominazione di «gnosticismo» è assai vaga, ed in effetti sembra che sia applicata indistintamente a delle cose molto diverse (6).

Non bisogna lasciarsi imprigionare dalle forme esteriori, qualunque esse siano; i «Fedeli d’Amore» erano in grado di andare al di là di queste forme, ed eccone una prova: in una delle prime novelle del Decamerone di Boccaccio, Melchisedec afferma che tra il Giudaismo, il Cristianesimo e l’Islamismo, «nessuno sa quale sia la vera fede». Valli ha visto giusto interpretando questa affermazione nel senso che «la vera fede è nascosta fra gli aspetti esterni delle diverse credenze» (p. 433); ma quello che è da sottolineare in modo particolare, e che l’autore non ha notato, è che queste parole siano poste in bocca a Melchisedec, che è precisamente il rappresentante della tradizione unica, nascosta sotto tutte queste forme esteriori; e si tratta qui di qualcosa che dimostra a sufficienza come alcuni, in Occidente ed in quell’epoca, sapessero ancora che cos’è il vero «Centro del Mondo».

Comunque sia, l’impiego di un linguaggio «affettivo», come è spesso quello dei «Fedeli d’Amore» è anch’esso qualcosa di esteriore da cui non bisogna farsi ingannare, esso può benissimo nascondere qualcosa di ben più profondo, ed in particolare, la parola «Amore», in virtù della trasposizione analogica, può significare tutt’altra cosa che il sentimento che esso indica ordinariamente. Questo senso profondo dell’«Amore», in connessione con le dottrine degli Ordini cavallereschi, potrebbe risultare, specialmente, dall’accostamento delle seguenti indicazioni: innanzitutto, le parole di San Giovanni: «Dio è Amore»; poi, il grido di guerra dei Templari: «Viva Dio Santo Amore»; ed infine, l’ultimo verso della Divina Commedia: «L’Amor che muove il Sole e l’altre stelle» (7).

Amore e Psiche giacenti (dettaglio, Pietro Canova, 1787-1793)

A questo proposito, un altro punto interessante è quello del rapporto che, nel simbolismo dei «Fedeli d’Amore», esiste fra l’«Amore» e la «Morte»; esso è un rapporto duplice, poiché la parola «Morte» ha essa stessa un duplice significato. Per un verso, fra l’«Amore» e la «Morte» vi è un accostamento e quasi un’associazione (p. 159), la seconda è intesa allora come «morte iniziatica»; e questo accostamento sembra si sia mantenuto in seno a quella corrente da cui sono nate, alla fine del Medioevo, le raffigurazioni della «danza macabra» (8); per l’altro, vi è anche un’antitesi, fissata attraverso un altro punto di vista (p. 166), la quale si può spiegare, in parte, attraverso la stessa costituzione dei due termini: in entrambi è presente la radice mor, ma in a-mor essa è preceduta dalla a privativa, come nel sanscrito a-mara, a-mrita, di modo che «Amore» può interpretarsi come una sorta di equivalente geroglifico di «immortalità». Seguendo allora lo stesso senso, i «morti», in generale, possono essere considerati come i profani, mentre i «viventi», o coloro che hanno ottenuto l’«immortalità», sono gli iniziati; e qui è il caso di ricordare che l’espressione «Terra dei Viventi» è sinonimo di «Terra Santa» o «Terra dei Santi», «Terra Pura», ecc., mentre la stessa opposizione da noi indicata equivale, sotto questo profilo, a quella fra l’Inferno, che è il mondo profano, ed i Cieli, che sono i gradi della gerarchia iniziatica.

Per quanto riguarda la «vera fede», di cui si parla continuamente, è essa che viene designata come Fede Santa, espressione che, al pari della parola Amore, si applica anche alla stessa organizzazione iniziatica. Questa Fede Santa, di cui Dante era Kadosch, è la fede dei «Fedeli d’Amore» ed è anche la Fede dei Santi, cioè l’Emunah dei Kadosch, così come abbiamo spiegato ne L’Esoterismo di Dante. Questa designazione degli iniziati come dei «Santi», di cui Kadosch è l’equivalente ebraico, si comprende perfettamente attraverso il significato dei «Cieli», così come l’abbiamo indicato precedentemente, poiché i Cieli sono, in effetti, descritti come il soggiorno dei santi; e tale designazione dev’essere accostata a molte altre analoghe, come Puri, Perfetti, Catari, Sufi, Ikhwan-es-Safa, ecc., tutte prese nello stesso senso; ciò permette anche di comprendere cosa sia veramente la «Terra Santa» (9).

(…) La questione della «Terra Santa» potrebbe anche fornire la chiave per comprendere i rapporti fra Dante, i «Fedeli d’Amore» ed i Templari; è questo un altro degli argomenti che Valli ha trattato in modo incompleto. Egli considera giustamente che questi rapporti con i Templari (pp. 423-426), ed anche con gli alchimisti (p. 248), siano di una realtà incontestabile, e fornisce alcuni accostamenti interessanti, come, per esempio, quello dei nove anni di probazione dei Templari con l’età simbolica di nove anni nella Vita Nuova (p. 274); ma avrebbe potuto dire ben altre cose sull’argomento. Così, a proposito della residenza centrale dei Templari, stabilita a Cipro (pp. 261 e 425), sarebbe curioso studiare il significato del nome di quest’isola, i suoi rapporti con Venere ed il «terzo cielo», nonché il simbolismo del rame, da cui deriva lo stesso nome; tutte cose sulle quali, per il momento, non possiamo soffermarci e che ci limitiamo a segnalare.

Anche a proposito dell’obbligo imposto ai «Fedeli d’Amore» di impiegare nei loro scritti la forma poetica (p. 155), sarebbe il caso di chiedersi perché gli antichi chiamavano la poesia: la «lingua degli Dei»; perché Vates in latino era sia il poeta che il divinatore o il profeta (d’altronde, gli oracoli erano enunciati in versi); perché in latino i versi erano chiamati carmina (ammaliamenti, incantamenti; termine identico al Karma sanscrito, inteso nel senso tecnico di «atto rituale») (10); e perché di Salomone e di altri saggi è detto, in particolare nella tradizione mussulmana, che comprendessero la «Lingua degli uccelli», la quale, per quanto strano possa sembrare, non è che un altro nome della «lingua degli Dei» (11) .

Dante e Virgilio all’Inferno (1850, particolare) di Adolphe Bouguereau (1825-1905)

(…) Se ci siamo tanto dilungati sul libro di Luigi Valli è perché esso è uno di quelli che merita veramente di essere preso in considerazione, e se noi ne abbiamo soprattutto segnalato le lacune è perché, così facendo, abbiamo avuto modo di indicare, all’autore o ad altri, delle nuove direzioni di ricerca, suscettibili di completare felicemente i risultati già raggiunti. Sembra che sia giunto il tempo in cui finalmente si svelerà il vero significato dell’opera di Dante; se le interpretazioni di Rossetti e di Aroux non furono prese sul serio nella loro epoca, ciò forse non fu dovuto al fatto che gli spiriti fossero meno preparati di adesso, ma piuttosto perché era previsto che il segreto rimanesse nascosto per sei secoli (il Naros caldeo); Valli parla spesso di questi sei secoli durante i quali Dante non è stato compreso, ma evidentemente senza vedervi alcun particolare significato, e ciò prova ancora una volta che per gli studi di questo genere è necessaria una conoscenza delle «leggi cicliche», così del tutto dimenticate dall’Occidente moderno.

Note dell’autore

(1) A titolo di curiosità, se si scrive questa semplice frase: «In Italia è Roma», e la si legge a rovescio, essa diventa: «Amore ai Latini»; il «caso» è talvolta di un’ingegnosità sorprendente!

(2) La testa della Medusa, che trasforma gli uomini in «pietre» (parola che giuoca un ruolo molto importante nel linguaggio dei «Fedeli d’Amore»), rappresenta la corruzione della Saggezza; i suoi capelli (che secondo i Sufi simboleggiano i misteri divini) diventano dei serpenti, intesi naturalmente in senso negativo, poiché nel senso opposto il serpente è anche un simbolo della Saggezza stessa.

(3) L’«intelletto attivo», rappresentato dalla Madonna, è il «raggio celeste» che costituisce il legame fra Dio e l’uomo e che conduce l’uomo a Dio (p. 54): esso è la Buddhi indù. Peraltro, occorre considerare che «Saggezza» e «Intelligenza» non sono esattamente la stessa cosa, si tratta di due aspetti complementari che vanno distinti (Hokmah e Binah nella Kabbala).

(4) In un altro senso e secondo un’altra correlazione, queste due vie potrebbero essere anche quella degli iniziati in generale e quella dei mistici, ma quest’ultima è «irregolare» e non può essere considerata quando ci si attiene strettamente alla norma tradizionale.

(5) Bisogna anche ricordare che, in certi casi, gli stessi simboli rappresentano sia la Vergine che il Cristo; si tratta di un enigma degno di essere proposto alla sagacia dei ricercatori, e la cui soluzione risulterebbe dalla considerazione dei rapporti fra la Shekinah e Metatron.

(6) Valli dice che la «critica» apprezza poco i dati tradizionali degli «gnostici» contemporanei (p. 422); per una volta la «critica» ha ragione, poiché questi «neo-gnostici» non hanno mai ricevuto alcunché a mezzo di una qualunque trasmissione, e si tratta solo di un tentativo di «ricostruzione» fatto sulla base di documenti, d’altronde molto frammentari, che sono alla portata di tutti; si può ben credere alla testimonianza di chi ha avuto l’occasione di osservare queste cose da molto vicino e di conoscere quindi di cosa realmente si tratta.

(7) A proposito degli ordini cavallereschi, la «Chiesa giovannita» indica la riunione di tutti coloro che a qualunque titolo si riallacciano a ciò che nel Medioevo fu chiamato il «Regno del Prete Gianni», al quale abbiamo accennato nel nostro studio su Il Re del Mondo.

(8) In un antico cimitero del XV secolo, abbiamo visto dei capitelli nelle cui sculture sono curiosamente riuniti gli attributi dell’Amore e della Morte.

(9) Non è forse senza interesse segnalare, inoltre, che le iniziali F.S. possono essere anche lette Fides Sapientia, esatta traduzione della Pistis Sophia gnostica.

(10) Rita, in sanscrito, è ciò che è conforme all’ordine, senso che è rimasto nell’avverbio latino rite; l’ordine cosmico è qui rappresentato a mezzo della legge del ritmo.

(11) La stessa cosa si ritrova anche nelle leggende germaniche.

Nell’immagine in evidenza, “Salutation of Beatrice” (I) di Dante Gabriel Rossetti



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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