Il mistero delle «Corti d’Amore»

Oggi un ulteriore approfondimento di Julius Evola che, in quest’articolo uscito sul Corriere Padano nel marzo 1937, sviluppa il tema di Dante, dei Fedeli d’Amore del significato interno, nascosto dell’Amore e dell’erotismo nell’ambito di taluni filoni della poesia e della letteratura medievale, fino a soffermarsi sul simbolismo occulto della Donna, anche in relazione al rapporto con l’Uomo e dal suo significato più profondo. Un piccolo strale alla vigilia del giorno della “Festa della Donna“, ricorrenza dalla valenza notoriamente contro-tradizionale, e che, peraltro, sta ormai diventando pericolosamente funzionale anche alle affermazioni del gender fluid e delle sue aberrazioni.

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di Julius Evola

Tratto dal “Corriere Padano”, 4 marzo 1937

Uno degli avvenimenti culturali più notevoli dell’ultimo quarto di secolo, in Italia, è la «scoperta» del linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore» compiuto dal compianto Luigi Valli sulla base delle tesi già difese da Gabriele Rossetti e, presso una certa tendenziosità, anche dall’Aroux, ma rimaste, al loro tempo, quasi senza eco.

“Beatrice” di Marie Spartali Stillman (1895)

La gran parte dei lettori saprà già, ad un dipresso, di che si tratta. Sia nella letteratura trovadorica provenzale, che nei poeti dello Stil Nuovo italiano, l’elemento poetico ed erotico non sarebbe stato, in larga misura, che di «copertura». I cosiddetti «Fedeli d’Amore», anche se in fila sparse, avrebbero costituito una organizzazione ghibellina segreta, detentrice di una certa dottrina che essi occultavano ai «profani», alla gente grossa incapace di comprenderla, e così pure ai rappresentanti della religione, per cui essi la rivestivano con espressioni poetiche e la ravvolgevano con simboli di carattere stranamente, innaturalmente erotico. Recentemente il Ricolfi ha ripreso le ricerche del Valli, applicandole alle cosiddette «Corti d’Amore» di Francia, nelle quali il carattere simbolico di tale letteratura si fa talvolta ancora più sensibile. Così quando un Giacomo di Baisieux identifica senz’altro l’Amore alla distruzione della morte, basandosi sulla presunta etimologia di Amore come a, particella negativa e mors, morte, donde «senza morte», e quando egli ci presenta gli «Amanti», ossia coloro che hanno ottenuto l’«amore» come coloro che «non muoiono», che «vivranno in un altro secolo di gioia e di gloria», egli ci dà una chiave preziosa per penetrare il contenuto segreto superletterario che è latente in molti testi di tale corrente, i quali si trovano dunque ad avere ben altra portata, che non quella semplicemente artistica.

In connessione a ciò, come l’Amore in una tale letteratura è simbolo, così lo è anche la «Donna». La conclusione del Valli, data con le sue stesse parole, è appunto che le Donne cantate dai «Fedeli d’Amore», qualunque nome esse portino, si chiamino Rosa, o Beatrice, o Giovanna, o Selvaggia, o Blanchefleur, dai primi poeti provenzali fino al Boccaccio e allo stesso Petrarca, son tutte una sola donna simbolica, che rappresenta la «Sapienza Santa», l’«intelligenza trascendente»; l’amore per la quale e, infine il possesso della quale, fine e premio del «Fedele d’Amore», conduce alla distruzione della morte, alla trasformazione spirituale della personalità.

Il Valli, con un serio apparato critico e documentario, ha messo fuor di discussione la necessità di riferirsi a questa veduta in un numero considerevolissimo di presunti «poemi d’amore». Per lui, le fonti di tale simbolismo sarebbero soprattutto gnostiche e arabe. Gnostiche, in quanto nelle varie sette e scuole che pullularono nei primi secoli del Cristianesimo fu frequente figurare la Sapienza e lo stesso Spirito Santo (rusch, che vuol dire spirito, in copto è di genere femminile) con una Donna o Vergine (la Vergine Sophia). Arabe, perché nell’aristotelismo interpretato da Averroè, per l’intelletto trascendente, unico, universale, del quale l’intelletto umano non è che una potenzialità, fu parimenti usato il simbolismo della donna, forse non senza relazione col misticismo persiano, che egualmente amò avvolgere i suoi insegnamenti con un rivestimento erotico.

Quale si sia l’esattezza di una tale derivazione dal punto di vista storico, sta però di fatto che il simbolismo della donna, in sé stesso, ha carattere universale. In secondo luogo, sta parimenti di fatti che esso, nella gran parte dei casi, ha un significato tutto speciale, allude ad una particolare attitudine rispetto allo spirito, diversa da quella semplicemente religiosa: punto, che però è sfuggito del tutto ai ricercatori sopra citati. Sull’una e sull’altra cosa vogliamo svolgere qualche breve considerazione.

Pallade Atena sovrastante l’omonima fontana a Vienna (Athenabrunnen), opera di Carl Kundmann (1898-1902)

Anzitutto la «donna», nelle raffigurazioni tradizionali dei vari popoli, non simboleggiò un elemento trascendente solo come «sapienza» ma altresì come vita in senso superiore, o «supervita», come potenza, come ciò che consacra e trasfigura un eroe e gli conferisce una dignità di «Re». Così nella tradizione ellenica la «donna» ci appare tanto come l’intelligenza olimpica che, sotto forma di Athena, generata dalla mente di Zeus, guida Eracle nelle sue imprese; sia come la «gioventù perenne», Hebe, con cui lo stesso Eracle si congiunge nella sede degli Olimpici, simbolo della sua stessa conquista dell’immortalità. Nella tradizione egizia, sono ricorrentissime le figurazioni di «donne divine» che porgono ai re il «loto», simbolo di resurrezione, e la cosiddetta «chiave di vita». Nella tradizione indù il termine çakti contiene un interessante doppio senso: esso vuol dire sia la «sposa» che la «potenza»; la çakti di un essere divino è quella «sposa» che è la sua «potenza».

Nella tradizione nordica, come abbiamo spiegato in altra occasione, il simbolismo della «donna» si riferisce alle famose walkyrie che, come le fravashi della tradizione irànica, altro non sono che parti misteriose, fatidiche, trascendentali dei guerrieri, che son veramente esse a produrre la vittoria e a «scegliere» quelli, fra gli eroi caduti, che debbono passare a vita immortale. La tradizione celtica è ricca di miti relativi a donne sovrannaturali che rapiscono gli eroi in un’isola misteriosa, per renderli immortali col loro amore, per conferire loro la salute e la gioventù perenne. La tradizione romana conobbe una Venus genitrix, la quale non ha nulla a che fare con la dèa dell’amore volgare ma si identifica ad una dèa della vittoria – Venus victrix – e alla simbolica scaturigine e alla «Fortuna» – potrebbe dirsi – della dinastia giulia. Nell’insieme della letteratura cavalleresca medioevale, traduzioni materializzate di questo motivo sono innumerevoli e, nel riguardo, fanno vedere che la presunta adorazione cavalleresca della donna è solo un malinteso, ovvero la deviazione in cui può essere caduto chi prese alla lettera una tradizione, che in origine aveva un carattere simbolico non più compreso. La donna, morir per la quale è cosa così ricca di frutti sovrannaturali, quanto il morir in nome di Dio nella «guerra santa»; la donna che si consegue attraverso prove eroiche e avventure di ogni genere e che, natura regale, introduce chi ne ha l’amore ad un simbolico regno – una tale donna, motivo ricorrente in tutta la letteratura cavalleresca, è tanto poco, quanto quella dei «Fedeli d’Amore», una donna materiale. E se volessimo procedere in analoghe citazioni spigolate dalle tradizioni e dalle leggende di tutti i popoli, non si finirebbe più. Dunque: simbolismo di carattere universale.

Dopo di che, giova passare al secondo punto, domandandosi: quale è, alla fine, la ragion d’essere di un tale simbolismo? Perché questa raffigurazione femminile per una forza trascendente? Come dicevamo, questo punto è stato generalmente trascurato, eppure è assai importante, in relazione a quanto, dal mondo antico, può parlarci di una visione virile dello spirito. Ogni simbolismo ha la sua ragion d’essere in precisi rapporti di analogia. Perciò dobbiamo considerare i rapporti possibili fra uomo e donna. Sono rapporti, che possono essere normali o anormali.

La dama ed il cavaliere, uno degli archetipi più significativi della potenza del rapporto Uomo-Donna correttamente inquadrato nell’alveo sacro della Tradizione (nell’immagine, “The End of the Quest” di Frank Dicksee, 1921, cliccare per ingrandire)

Il caso anormale è quello in cui l’uomo si trasforma in uno schiavo, quando la donna attraverso la seduzione dei sensi si eleva a dominatrice. Con ciò, noi abbiamo un orientamento del simbolismo della donna, che non è quello cui vogliamo propriamente riferirci, e su cui dunque ci fermeremo: si tratta di tutti quei miti e di quelle leggende, ove la donna vien rappresentata come un pericolo, come una seduzione spirituale e una prova che sia l’eroe che l’asceta debbono superare. Nei casi migliori, si tratta dell’eroe di antiche tradizioni ginecocratiche o matriarcali, cui era proprio spostare la funzione mediatrice fra l’umano e il divino ad un principio femminile.

Il carattere normale dei rapporti si ha invece nella subordinazione della donna all’uomo, nel rapporto dell’una all’altro come del passivo all’attivo e, infine, nella concezione della donna come forza strumentale che porta a sviluppo un germe, che solo l’uomo possiede sia pure senza la facoltà di attuarlo, di conferirgli da sé una vera vita. È qui che si svelano orizzonti spirituali insospettati. Prendere le mosse da una simile analogia significa infatti comprendere, come significato del simbolismo della donna, il seguente: lo spirito, la liberazione, non deve essere l’estasi, il mare panteistico in cui ci si dissolve e in cui la personalità virile è abolita: perfino di fronte alla forza, che può trasfigurarlo, trarlo via dalla condizione umana e mortale, farlo partecipe della «Sapienza Santa», dell’«Intelletto trascendente» e della spiritualità regale, il principio personale deve mantenersi attivo, deve saper conservare la stessa attitudine affermativa, che in ogni rapporto normale l’uomo ha quale maschio signore e sposo della sua donna. Che nel mito e nella leggenda la donna, di solito, non sia conseguita che alla fine dei una serie di lotte e di combattimenti affrontati per un principio ideale, di imprese che alludono ad una preliminare opera di tempra della qualità virile eroica e della qualità di una immateriale «fedeltà», è una conferma di questo significato spirituale. Così con questo simbolismo serpeggiante in quasi tutti i popoli serpeggia anche una tradizione di virile spiritualità (ed è di nuovo significativo che la letteratura in parola è quasi sempre epica, rivolta prevalentemente alle caste guerriere), per trovare l’antitesi più netta della quale basta riferirsi, per esempio, a Lutero. In Lutero la personalità umana non è più l’uomo, ma la donna, che dinanzi allo «sposo divino» appare come «la più contaminata delle creature», come «la prostituta» – e nessuna iniziativa essa deve prendere: come un mulo – testualmente – essa deve andare, senza chiedersi se sia Dio o Satana che la cavalchi.

Per alludere alla tradizione spirituale latente, immanifesta, priva di un adeguato rappresentante, nel Medioevo, per esempio, in un Francesco da Barberino si trova formulato il simbolo della «Vedova» ovvero della «Vergine» assediata o imprigionata. Ciò ci riporta, in fondo, al senso stesso del simbolo notissimo, e parimenti ghibellino, di un imperatore che non è mai morto, ma vive invisibilmente o in uno stato di sonno, in attesa della sua ora per manifestarsi o destarsi. L’arrivo dell’Eroe che libera la «Vergine» ovvero la sposa, la «Vedova» regale ha lo stesso significato. Ora, si pensi che una simile letteratura «fiabesca» nel Medioevo si rivolgeva non tanto ad esteti, quanto ad un Ordine militante universale, quale era la Cavalleria, se non addirittura a uomini di parte, a ghibellini in arme, quali erano la gran parte dei «Fedeli d’Amore», specie italiani.

Si tratta dunque, qui, di riferimenti che non hanno un mero interesse di «curiosità», ma hanno il valore di chiavi per poter trarre da una materia vasta o da un mondo, sotto tale riguardo, quasi inesplorato di antiche tradizioni nostre dei significati, che ancor oggi possono essere intensamente vissuti.

Nell’immagine in evidenza, “La Belle Dame sans Merci” di Frank Dicksee (1901 circa)



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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