(Tratto da da iltalebano.com di lunedì 22 dicembre 2014)
Gentile professore, come si è avvicinato al pensiero di Evola?
“Mi sono avvicinato per caso al pensiero evoliano quando ero ancora un liceale. Mi era stato consigliato di leggere il libro inerente la storia del Santo Graal, che dimostra come l’oggetto di culto tanto cari ai cavalieri templari avesse origini ben più europee di ciò che è fatto credere. In seguito mi procurai gli altri testi, che divorai. Fu così che, con alcuni amici, oramai conclusi gli studi, decidemmo di andare a Roma a trovarlo di persona. Così ebbi l’onore di conoscerlo di persona. Il primo ad approcciarsene seriamente, prima di noi, fu Adriano Romualdi, che fece uscire la sua prima opera proprio su Evola. Recentemente abbiamo anche pubblicato un suo libro in cui sono raccolte le lettere che Romualdi scambiò con Evola”.

Adriano Romualdi
Come fu l’incontro con il filosofo?
“Fu molto sorprendente. Per anni si continuava a posticipare il grande momento perché noi giovani studiosi dell’esoterismo di destra, così detti figli del sole, ci sentivamo indegni a confrontarci con la sua immensa autorità. La descrizione che ne fece Romualdi nel suo testo non corrispondeva alla realtà. Descrisse un Evola austero, aristocratico, distante, difficile da approcciare. Forse io sarei andato a trovarlo anche prima, se avessi saputo che non era così. Ne eravamo intimoriti per nulla. Invece, sorprendentemente, scoprimmo come fosse comunque approcciabile disposto a confrontarsi con le nuove generazioni. Ma non era così con tutti: Mario Merlino, che oggi sembra Gandalf, andò a trovare Evola insieme ad altri sodali. Forse presero la cosa troppo goliardicamente. Ne rimase deluso, perché Evola rispondeva svogliatamente alle loro domande e prima di andare… lasciò loro in eredità un fumetto di Tex Willer”.
Era un lunatico?
“Assolutamente no. Semplicemente si adattava al momento ed alle persone che aveva di fronte. Gaspare Cannizzo, ad esempio, ha avuto con Evola un rapporto ancora diverso. Lui era un pezzo grosso. Era un funzionario del Ministero delle Finanze. Lui era anche il responsabile di una rivista, Vie della Tradizione, ed ammirandolo molto è stato a trovarlo qualche volta a Roma. In un testo, intitolato “Il maestro silenzioso” parla del suo incontro con Evola. Lui era entrato in casa e dopo poche parole di convenevoli si è accomodato al tavolo. Essendo siciliano aveva un approccio molto chiuso. Ed ha passato il tempo in silenzio davanti al maestro silenzioso che lo scrutava. Evola era un po’ come il Re Pescatore descritto nella Saga del Parsifal, aspettava che gli venisse posta la domanda giusta prima di rispondere.
Ed Evola, con le donne, com’era?
“Quando andavo a casa sua c’era solo una donna, che era la domestica. Lui, che era oramai anziano e costretto a letto (per via della paralisi riportata in seguito all’esser stato scaraventato contro ad una staccionata, durante un bombardamento a Vienna, ndr) aveva due piccole gioie segrete che gli davano piacere: una erano il libro di meditazione indiana, la Bhagavadgītā, e l’altra era una bottiglia di White Horse whisky. Che però la domestica gli portava via contrapponendosi al suo amore per la bevanda. Evola comunque era maschilista. In un articolo, apparso nel 1957, disse che era a favore dell’emancipazione della donna, intesa come realizzazione di sé. Il primo Evola era molto misogino. Da giovane aveva avuto tante donne, ma non gli piacevano molto. Ha avuto, si dice, anche un flirt con Sibilla Aleramo. Lei, a Roma, s’è passata tutti gli intellettuali della zona. “Amo dunque sono”, diceva. Poi Evola maturando è cambiato. In “Metafisica del sesso”, che recensii nel ’69 ha un approccio totalmente diverso e più spirituale. Comunque non ha mai avuto una vera compagna, bastava a se stesso”.
E la montagna, il grande amore di Evola?

“Fa sempre ciò che deve essere fatto, senza attaccamento, perchè l’uomo che agisce in un disinteresse attivo consegue il Supremo” – Bhagavad-gita, III, 19
“La Bhagavadgītā è un testo di mistica indù. È un colloquio tra il dio Krishna ed un guerriero che non vuol andare in guerra a combattere. Alla fine del dialogo, il soldato scopre la gioia dell’onore e capisce che l’atto eroico sta proprio nello sforzo della lotta. E così passando attraverso le pene della guerra, riesce a liberarsi dal ciclo di reincarnazioni. Evola portava con sé questo libro durante le faticose scalate sulle cime più impervie. La fatica del scalare le vette era, infatti, metafora della guerra e l’arrivare in cima è la vincita. Mi sentivo molto in sintonia con Evola perché anche io amo molto la montagna. Inoltre, aldilà della bellezza della natura in sé, ad Evola piaceva anche molto il carattere simbolico della montagna, messo in luce da René Guénon. Inoltre, per via del suo carattere angusto e tortuoso, l’alta montagna è estremamente elitaria”.
Lei ha disperso le sue ceneri in montagna, giusto?
“Sì, anche se era illegale farlo. La cremazione di Evola è avvenuta in modo molto teatrale. Il becchino, che era un grottesco nano senza un occhio, ha messo il cadavere su un carretto di metallo sopra ad un pira di legna. Quel cimitero non aveva forni crematori, quindi bruciavano i morti tramite un rogo, come avviene anche in Tibet. Io l’ho visto ardere, ed ho visto il corpo che, venendo divorato dalle fiamme, improvvisamente s’è rizzato come se fosse vivo. È stato incredibile (…) Evola non ha voluto far disperdere le proprie ceneri su una montagna qualsiasi. Ci ha chiesto di sbriciolarle al vento in un luogo preciso: Sul ghiacciaio del Lyskamm. Eugenio David, che era amico di Evola, era un alpinista famoso e ci ha accompagnati nella sacra missione proprio in quel posto preciso”.
Cosa ha il ghiacciaio del Lyskamm di particolare?
“Nel 1778 degli alpinisti andarono sulle Alpi del centro Europa, alla ricerca della città di Felik in una valle bellissima. È un luogo paradisiaco, declamato dai racconti popolari in arpitano degli svizzeri e dei valdostani che ancor se ne sovvengono. Gli alpinisti vagarono per giorni alla ricerca di questa valle incantata ai piedi del Monte Rosa, ma non la trovarono mai. Eppure, l’esistenza di questa valle e del villaggio meraviglioso era testimoniata dai viandanti che ebbero la fortuna di attraversare le Alpi e che, per caso, ci arrivarono. Dal 1778 ad oggi il villaggio di Felik non è ancora stato ritrovato, quindi si suppone che sia stato sommerso da un ghiacciaio, assieme a tutta la valle perduta. È un luogo leggendario, simbolo di un paradiso in terra. È la Shamballa con la torre di cristallo delle nostre latitudini. Evola l’ha raggiunta diventando parte del vento”.
'In vetta con Julius Evola. Intervista a Renato Del Ponte' has no comments
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