Torniamo a parlare di psiche, inconscio, irrazionale, anima e dintorni, argomenti su cui periodicamente ci riaffacciamo. Tematiche evidentemente calde (soprattutto in questi tempi, “ultimi” in tutti i sensi), che Evola, Guénon e tutti gli autori tradizionali hanno approfondito con pagine esemplari e fondamentali, che risultano sempre più tremendamente attuali, man mano che l’uomo contemporaneo viene fatto sprofondare negli abissi più inferi della propria psiche. Oggi proponiamo un articolo che Evola pubblicò su “Il Conciliatore” nel 1970, in cui il barone analizzò a tutto tondo il tema della psicanalisi e della sua infestante propagazione in ogni ambito della vita umana; tema che ritroviamo, oltre che in altri scritti, soprattutto nella celebre opera “Maschera e Volto dello Spiritualismo Moderno” (capitolo III), che, uscita in prima edizione nel 1932, raccogliendo saggi precedentemente usciti, era stata oggetto di riedizioni ed ampliamenti nel 1949 e nel 1971, proprio poco tempo dopo la pubblicazione di quest’articolo (prima dell’ulteriore edizione successiva alla scomparsa del barone, nel 2008). Un affresco impietoso e lucidissimo dell’infezione psicanalitica, dei suoi satanici maestri e dei suoi squallidi epigoni.
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di Julius Evola
tratto da “Il Conciliatore”, novembre 1970
Può sembrare che oggi ogni critica alla psicanalisi sia qualcosa di peregrino e di inconcludente, questa disciplina essendosi ormai affermata e avendo trovato un generale riconoscimento. Ma proprio questo fatto dovrebbe invece spingere chi non intende seguire supinamente le correnti dei nostri giorni, a reagire e rimettere in discussione la psicanalisi: è il fatto che oggi esiste una «infezione psicanalitica» la quale ha investito i domini più vari ed è tale da far apparire come ovvia la visione psicanalitica dell’uomo coi suoi miti, le sue distorsioni e le sue farneticazioni. L’influenza è avvertibile nella letteratura, nel teatro, nel cinema, nella sociologia, nella sessuologia, nella ricerca mitologica e via dicendo. È significativo che ambienti cattolici sembrano senz’altro disposti ad accettare le idee della psicanalisi. Per citare solo un esempio, abbiamo avuto fra le mani una pubblicazione collettiva a cura dell’Università Cattolica di Milano, di quella che già aveva fatto capo a padre Gemelli. Si trattava di scoprire il «fondo» delle moderne pubblicazioni a «fumetti», e simili. Ebbene, tutti i collaboratori hanno messo mano al repertorio delle interpretazioni psicanalitiche con la naturalezza di chi si rifà ad una cosa ovvia e indiscussa. Per altro, si sa che il psicanalista ambirebbe a sostituirsi al confessore e a chi assisteva spiritualmente le anime; e non è escluso che, in clima di «aggiornamento», ci si orienti in questo senso considerando che la psicanalisi in quanto «scienza» (è la solita superstizione della scienza) offra mezzi ben più efficaci di quelli della direzione spirituale delle anime.

Herbert Marcuse (1898-1979)
Quanto all’estensione dell’infezione psicanalitica, nel campo sociologico è degno di nota, per esempio, il fatto che il tanto reclamizzato Marcuse quando, dopo aver stigmatizzato il «sistema», la società consumistica tecnologica coi suoi condizionamenti alienanti, ha cercato di indicare una controparte positiva, ossia ciò che dovrebbe essere una società normale (come in Eros e civiltà), i suoi unici punti di riferimento sono stati quelli del freudismo più vieto e aberrante.
Già dai cenni fatti sarà apparso chiaro che noi abbiamo essenzialmente in vista la psicanalisi come fenomeno culturale, quindi come un segno dei tempi. Non si tratta perciò della psicanalisi come una disciplina strettamente specializzata, applicata alla casuologia clinica delle nevrosi e di altre turbe mentali, che nella misura in cui i metodi applicati in questo campo prendono le mosse da una precisa concezione dell’essere umano, concezione che viene abusivamente generalizzata, ossia ritenuta valida non per una particolare categoria di soggetti ma per l’uomo in genere. Da qui, il rapido sconfinamento della psicanalisi in domini che con la medicina e la psicoterapia non hanno nulla a che fare; da qui lo sforzo di scoprire una fenomenologia più o meno da nevropatici in fenomeni e manifestazioni culturali e sociali di ogni genere, come si è detto dianzi.
Qui possiamo lasciar da parte la psicanalisi come semplice psicoterapia clinica. Si vuole che essa abbia registrato e che registri numerosi successi. Ma fra i psicologi vi è chi si è chiesto se tali successi, a parte ciò che è dovuto alla suggestionabilità (secondo quanto avviene in quasi tutte le psicoterapie), non avrebbero potuto essere ottenuti con procedimenti i quali non abbiano gli stessi presupposti dogmatici della psicanalisi.
Qui dunque a noi non interessa il campo terapeutico ma quello antropologico, ossia la teoria psicanalitica dell’uomo. È da notare che non è per nulla vero che sia stato Freud a scoprire l’«inconscio» (o il «subconscio»). Esso non era stato ignorato da precedenti psicologi, non solo, ma anche da antiche dottrine tradizionali: per citare un solo esempio, da quelle alle quali lo yoga e analoghe discipline si erano riferiti, riconoscendo allo stesso inconscio (meglio sarebbe dire: al subconscio) ben altre, più ampie e profonde dimensioni. Non si tratta, per altro, in via di principio, di criticare l’esigenza o il metodo di una «psicologia del profondo», intesa a gettar luce in zone della psiche che spesso cadono fuor dal campo della coscienza più periferica.
La caratteristica del freudismo sta altrove. Essa sta, in primo luogo, nell’attribuire all’inconscio la forza motrice principale della psiche, in termini meccanici e deterministici: gli impulsi, gli istinti, i complessi del sottosuolo psichico avrebbero una «carica» fatale (il termine tecnico è Besetzungsenergie) la quale deve scaricarsi all’esterno; e se ciò non accade, se sono «repressi» avvelenano la vita dell’uomo, lo nevrotizzano, ovvero giuocano l’Io cosciente soddisfacendosi malgrado tutto in forma mascherata. In secondo luogo, la caratteristica del freudismo sta nel vedere nella libido, nell’impulso al piacere avente la sua manifestazione precipua in quello sessuale il tronco fondamentale dell’inconscio. E qui interviene tutta la mitologia dei «complessi» che ogni uomo più o meno ineluttabilmente, sapendolo o meno, albergherebbe in sé, a partire dal famoso complesso edipico e da tutti gli altri fabbricati con una interpretazione più o meno fantastica della vita sessuale del bambino e anche di certi costumi dei selvaggi.
La posizione caratteristica del freudismo è poi il disconoscimento, nell’uomo, della presenza e del potere di qualsiasi centro spirituale sovrano, insomma dell’Io in quanto tale. Di fronte all’inconscio, l’Io viene desautorato. Nella sua accezione di principio capace di riconoscere veri valori e di darsi norme autonome, esso sarebbe un’illusione. Ciò che generalmente agisce nell’uomo, è invece il cosiddetto «Super-Io», il quale è definito dall’«introiezione», cioè dal far proprie tutte le inibizioni, i tabù, le limitazioni vigenti nell’ambiente, per un’azione di censura, di blocco e di repressione delle istanze dell’inconscio. Quindi una specie di fantoccio conformista e alquanto isterico prende il posto del vero Io. Mentre il binomio Super-Io e inconscio (o libido) starebbe a definire la struttura fondamentale dell’uomo, il contrasto fra l’uno e l’altro darebbe la chiave per l’interpretazione non pure di fatti nevrotici ma anche di gran parte dei comportamenti ritenuti normali.
È da notare che il termine «repressione», slogan degli attuali cosiddetti movimenti «contestatari», viene proprio dalla psicanalisi, in relazione ai fenomeni paralleli, ad un’emergenza dal basso. Infatti la «terapia», per non dire addirittura la «morale», della psicanalisi consiste nell’abolizione della «repressione» esercitata dalla parte cosciente della psiche su quella istintuale, nel riconoscimento e nell’accettazione delle istanze dell’inconscio, cosa che dal punto di vista dell’etica tradizionale equivarrebbe ad una capitolazione. Come si è detto, le «cariche» dell’inconscio debbono scaricarsi, esse non possono venire distrutte. Quindi l’unica alternativa è un compromesso, un modus vivendi, il procurar loro un soddisfacimento trasposto e vicariante che non provochi gravi conflitti con le istanze dell’ambiente e della «realtà», delle quali d’altronde anche il Super-Io si fa vindice: sono le cosiddette «trasposizioni» o «sublimazioni». Ad esempio, chi ha da combattere col complesso incestuoso può «scaricarsi» deviandone la carica «libidinosa» sulla Patria concepita come «Madre». Questi, peraltro, sarebbero processi che avverrebbero già in via spontanea e inavvertita in una grandissima quantità di casi, a render possibile la vita dell’individuo nella società.
Partendo da tali presupposti la psicanalisi trova il modo di procedere a interpretazioni aberranti e contaminatrici (presentate invece come analisi «realistiche» e «in profondità») di una quantità di fenomeni culturali e spirituali, i quali vengono riportati, nelle loro radici, a quei bassifondi dell’inconscio. A ragione vi è chi ha parlato, a tale riguardo, di un «delirio dell’interpretazione»; delirio nel senso psichiatrico di mania, di «fissazione»: quella di supporre e di scoprire dappertutto un retroscena torbido e oscuro: il che vale anche per le analisi individuali si sogni, impulsi, ecc..
Nelle correnti estremiste della psicanalisi non si accetta però la soluzione costituita dagli accennati compromessi. Così un Wilhelm Reich, polemizzando con Freud, già suo maestro, coerentemente ha rilevato che la causa prima della vita nevrotica (di quella vera e propria e di quella che la psicanalisi attribuisce a comportamenti molteplici) essendo la «repressione» esercitata dal «sistema», non si tratterebbe di «menar il can per l’aia» con mezze soluzioni le quali lasciano sussistere la causa prima, sociale, del male, ma di distruggerla nella sua sede propria, cioè proprio nelle strutture e negli ordinamenti del sistema vigente: donde il passaggio alla rivoluzione, come vera radicale terapia. E dalla forma già in atto della cosiddetta «rivoluzione sessuale» di cui appunto il Reich è stato il principale banditore, vi è da passare a ulteriori movimenti sbloccatori anarcoidi a che la società «repressiva» dia sempre più luogo ad una società «permissiva». Il problema di una discriminazione, a che non si proclami il «tutto è permesso», non viene nemmeno sfiorato; sembra che con un’ingenuità quasi rousseauiana si pensi che tutto ciò che può affiorare dal sottosuolo umano e dall’inconscio quando le dighe sono rimosse sia soltanto bello, gradevole, sano.
Vi è un punto importante da sottolineare, e cioè che la psicanalisi freudiana identifica l’inconscio coi «bassifondi» della psiche in senso proprio: impulsi irrazionali, libido, torbidi complessi, anche impulso alla distruzione. Ebbene, una teoria completa dell’essere umano nell’ampliare gli orizzonti interiori non riduce a questo fondo torbido, demonico e subpersonale, a questo vero «mondo infero», tutto ciò che cade fuor dalla zona della coscienza ordinaria più ristretta. Di fronte a questo inconscio essa riconosce il «superconscio» come il mondo non subpersonale ma superpersonale di una luce e di una consapevolezza superiori. L’integrazione in esso dell’Io fu lo scopo di discipline tradizionali che in ciò videro anche la via per conseguire un vero potere sull’inconscio, per controllarlo, per paralizzare l’azione obliqua confermando la sovranità di un Io che è ben lungi dall’essere l’isterico «Super-Io» creatura dell’ambiente, ma un principio libero, l’heghemonikòn, per usare un termine antico, ossia il sovrano interiore.
Invece la psicanalisi è caratterizzata dal guidare in modo ossessivo l’attenzione unicamente sui bassifondi psichici, sulla zona infera, istintuale, portando a una vera e propria regressione. Essa si trova sulla stessa linea di altre correnti moderne caratterizzate da una deduzione del superiore dall’inferiore o da una rivolta dell’inferiore contro il superiore: come nel caso di gran parte dell’irrazionalismo moderno, della esaltazione della «Vita», della concezione dello «spirito» come deleterio antagonista dell’«anima» (questo è il titolo di una nota opera di Ludwig Klages), e via dicendo. Ciò che trascende l’uomo non per essergli inferiore ma superiore viene del tutto ignorato, tanto da ridurre l’uomo ad un troncone privo delle sue possibilità superiori epperò fatalmente aperto verso il basso. Scambiare lo spirito per l’intelletto astratto, per il razionalismo, per il sistema delle norme repressive e dei tabù, questo è il comodo espediente usato dalla psicanalisi e dalle altre analoghe tendenze, per chi sia incapace di discriminazione.

Carl Gustav Jung (1875-1961)
E la situazione non cambia essenzialmente se si passa a forme della psicanalisi diverse da quella «ortodossa» del Freud. Ad esempio, gli orizzonti di C.G. Jung, che per alcuni vale come lo «spiritualista della corrente», non sono sostanzialmente differenti. Per lui, il centro di gravità vien pur sempre fatto cadere nell’inconscio, ora presentato come «inconscio collettivo». Solo che invece di interpretarlo, come Freud, in chiave esclusivamente sessuale, lo Jung lo popola dei cosiddetti «archetipi». Nella filosofia greca, soprattutto in Platone, gli archetipi erano strutture di un «supermondo» luminoso, a cui si volgeva l’alta contemplazione. Lo Jung usa lo stesso termine per designare, invece, strutture dell’inconscio collettivo aventi in fondo la stessa natura oscura dei complessi di Freud. Sono forze irrazionali, in parte riferite al passato atavico e biologico, che urgono dal basso e che vogliono essere riconosciute e realizzate dall’Io, il quale solo accettandole risulterebbe «integrato» mentre in ogni altro caso sarebbe condannato a nevrosi, a scissioni interne, a menomazioni esistenziali. Anche qui, ogni punto trascendente di riferimento manca. Così si possono prevedere quali siano i risultati quando lo Jung si mette ad interpretare strutture e simboli del mondo religioso, sapienziale e iniziatico; con la pretesa di presentare così per la prima volta sotto una luce «scientifica» il corrispondente materiale, mentre le tradizioni anche millenarie di sapienza a cui esso è proprio accuserebbero una mentalità «prescientifica», non ancora illuminata. E l’attacco contro il razionale in nome dell’irrazionale, ignorando anche qui quel che è superiore sia all’uno sia all’altro, come centro vero dell’Io, nello Jung è uguale a quello degli altri esponenti della corrente.
Si può accennare ad un ultimo punto, anche per indicare alcuni istruttivi sviluppi nel campo sociologico. In un secondo tempo, il Freud oltre all’impulso al piacere, alla libido, aveva creduto di scoprire nell’inconscio un altro impulso elementare, l’impulso alla distruzione (o anche «di morte», Todestrieb). Nell’esplicarsi, tale impulso può rivolgersi contro se stessi oppure contro gli altri dando luogo, rispettivamente, alla tendenza masochista e a quella sadista. Fino ad un certo punto, il Freud aveva ritenuto essere, i due impulsi, indipendenti. Ma in seguito si è andati a farli derivare l’uno dall’altro. Così, per il Reich, non vi sarebbe dubbio che solo la «repressione» dell’impulso al piacere dia luogo nevroticamente all’impulso distruttivo, come una specie di rabbia. Dopo di che, si è passati alle applicazioni sociologiche e sociopolitiche. Alla manifestazione sadica di quell’impulso è stata riferita la tendenza all’autorità, al dominio, al comando; a quella masochistica, la tendenza ad obbedire, a seguire, a sacrificarsi. Così in chiave di patologia sessuale e di repressione sono state dedotte le due componenti complementari facenti da fondamento ad ogni sistema autoritario e «fascista». E gli Americani, nel periodo in cui si erano dati al lavaggio democratico dei Tedeschi, avevano al seguito «specialisti» che partivano proprio da tale psicanalisi dei sistemi «autoritari», per un’adeguata terapia.
Una deduzione ulteriore ha un carattere più generale: la stessa scaturigine (cioè la repressione della libido) avrebbe ogni «aggressività» (e soltanto «aggressività» si sa vedere in ogni orientamento guerriero, virile, combattivo). Ecco quindi la chiave per far sorgere nel mondo la pace e l’armonia generale: rimuovere l’ostruzione della libido, offrendole adeguate vie di scarico.
Un’ultima esemplificazione assai edificante la trarremo dal Marcuse, il quale giudica che l’ideale della personalità, fatto valere da alcuni psicanalisti «revisionisti», che si oppongono al freudismo, è quello «di un individuo infranto che ha interiorizzato e utilizzato con successo la repressione e l’aggressione» (sic). L’Hendrich aveva parlato di un’armata che continua a combattere «senza pensare a vittorie o a un futuro piacevole, per un’unica ragione, perché il compito del soldato è combattere e questa è l’unica motivazione che abbia un significato… e un’altra prova della volontà umana».
Ebbene, per il Marcuse si tratterebbe invece del colmo dell’alienazione, della «perdita completa di ogni libertà istintuale e intellettuale», «la repressione divenuta non la seconda natura ma la prima natura dell’uomo», in una parola, una «aberrazione».
Ogni commento è superfluo. A che cosa sia ridotto l’essere umano nel quadro di concezioni del genere, appare dunque ben chiaro. Ogni facoltà di riconoscere e seguire liberamente valori superiori viene contestata, dato che questi valori vengono semplicemente negati e che tutto viene ridotto a dettami assurdi dell’ambiente «indotti» nel singolo al segno che egli con essi si identifica, facendoli valere contro la propria natura «istintuale», che sarebbe la sua vera natura.
Non è il caso, qui, di soffermarsi su altri dettagli. In quanto precede, non abbiamo deformato nulla, abbiamo riprodotto le effettive idee-base della psicanalisi, le quali ne fanno apparire il carattere grottesco. Lasciando da parte il settore clinico, con la sua assai ristretta validità, deve restar per fermo che in qualsiasi modo in un più vasto ambito si accettano le suggestioni, i miti, il gergo della psicanalisi si aderisce implicitamente ad una immagine dell’uomo mutila, distorta, degradata, e se ci si orienta in modo corrispondente si prende la via opposta a quella di ogni vera integrazione della personalità. Per altro l’infezione psicanalitica, il piede che la psicanalisi ha preso nella cultura sono da ritenersi un segno poco confortante dei tempi, di quei tempi che già antiche tradizioni avevano preannunciato nei termini di una «età oscura». E invece di tributare ogni rispetto ai psicanalisti, in loro si dovrebbero vedere delle persone bisognose esse stesse di un trattamento, per essere affette da una vera, più o meno acuta paranoia la quale renderebbe assai opportuno il loro isolamento.
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