Il prossimo 25 novembre, presso la Sala dei Fiorentini, a Roma (Piazza dell’Oro n. 2), si terrà un importante Convegno di Studi organizzato dalla Comunità Militante Raido, da Cinabro Edizioni e da Heliodromos, dedicato alla figura di Guido De Giorgio. Il convegno sarà anche l’occasione per la presentazione del volume “Studi su Dante” edito da Cinabro Edizioni, a cura del dantista e studioso di dottrina tradizionale Alessandro Scali, che raccoglie degli scritti inediti di De Giorgio dedicati all’opera di Dante Alighieri, ed in particolare alla Divina Commedia.
Per l’occasione, Rigenerazionevola è lieta di proporre da qui all’evento alcuni scritti su Dante, Divina Commedia e dintorni, di Julius Evola, René Guénon e dello stesso De Giorgio. Cominciamo oggi con un articolo che rappresenta probabilmente anche un inedito di Evola, in quanto pubblicato originariamente su Il Regime Fascista nel maggio 1939 e presumibilmente non ripreso successivamente in altre pubblicazioni. Evola nel suo articolo recensiva il saggio Dante dello scrittore russo Dmitrij Sergeevic Merejkowsky (dall’autore tra l’altro dedicato a Benito Mussolini), tradotto in italiano da Rinaldo Küfferle nel 1938, accennando con l’occasione alcune brevi ma incisive considerazioni sul significato più “interno” della Divina Commedia, ovviamente da un angolo visuale ben diverso rispetto a quello della vulgata letteraria positivista, ma in linea con la lettura in termini iniziatici dell’opera dantesca, proposta da autori come Luigi Valli, Eugène Aroux, Gabriele Rossetti. L’articolo sarebbe poi riapparso, pochi mesi, dopo su Bibliografia fascista.
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di Julius Evola
tratto da “Il Regime Fascista”, 30 maggio 1939
Chi esaminasse l’opera recentissima del Merejkowsky su «Dante», che ha visto per la prima volta la luce tradotta in italiano da Küfferle (Ed. Zanichelli, Bologna, 1939), ne riceverebbe una impressione opposta a quella che può dare un’altra opera dello stesso scrittore, uscita anch’essa or non è molto in Italia, su «Tolstoj e Dostoevskij».
A legger questa seconda opera, infatti, si poteva esser invogliati unicamente dal nome dell’autore: ma, una volta affrontata la lettura, si è gradevolmente sorpresi nel constatare che Tolstoj e Dostoevskij, come pure i loro personaggi e i loro problemi, al Merejkowsky in fondo non servono che come pretesto, come punti di partenza per affrontare grandi problemi spirituali che certo trascendono il piano della semplice letteratura. Nell’opera su Dante, invece, noi vediamo che l’autore in fondo resta al di sotto dell’argomento da analizzare e da interpretare. Ciò, si può dirlo però da un punto di vista tutto particolare. Se si ha in vista il livello dei cosidetti «studi danteschi», si può senz’altro dire che l’opera del Merejkowsky è «in ordine», è ricca di spunti felici, di efficaci drammatizzazioni, di inquadramenti che si rifanno già a problemi spirituali e religiosi generali. Le cose, però, stanno altrimenti, se si ha di vista non il Dante della comune esegesi letteraria, teologica o psicologica, il Dante dei vari Passerini, D’Ovidio, Papini e compagni, ma quel Dante segreto, che già fu cominciato a presentire da un Aroux, da un Rossetti, poi da un Pascoli e con tratti sempre più chiari da un Guénon e da un Valli. Per quanto riguarda l’interpretazione del Merejkowsky sia «esoterica» di fronte alle comuni valutazioni dantesche, pure essa appare in gran misura profana quando è questo secondo Dante che si ha in vista.
E ciò risulta già da tutta la importanza che nel libro in questione viene data alla parte semplicemente umana e psicologica di Dante, ma ancor più dalla interpretazione della figura di Beatrice e, in genere della Vita nova. Il Merejkowsky inquadra e interpreta il pensiero dantesco essenzialmente sulla base di una concezione generale, che egli ha svolto già in vari altri libri, e forse nel modo migliore nella già indicata opera su Tolstoij e Dostoevskij. Si tratta della cosidetta dottrina del «secondo avvento». Il Merejkowsky interpreta il cristianesimo integrale sulla base di uno sviluppo per epoche. In un primo tempo il cristianesimo è stato essenzialmente ascetico, dualista, trascendentista. E’ così che di contro ad esso, a partir dalla Rinascenza, a poco a poco insorge l’antitesi «pagana», la valorizzazione pagana di tutto ciò che è immanenza, potenza, io, volontà, fino al limite del «superuomo» che, come una specie di Anticristo o di Dio-Uomo, si oppone all’Uomo-Dio.

Dmitrij Sergeevic Merejkowsky (1865-1941)
Ma il vero cristianesimo comprende una ulteriore potenza: quella di sorpassare questa antitesi, di giungere ad una sintesi, adombrata da formule, come quelle della resurrezione della carne, del futuro avvento, del regno dello Spirito Santo, di una volontà, che deve realizzarsi sia sulla terra che nei cieli. Questa è, per Merejkowsky, la religione futura, l’unica via che l’Occidente può prendere per evitare una catastrofe: e fra gli antesignani di tale nuova religione egli annovera anche, per l’appunto, lo stesso Dante. «Il fattore dei miracoli è il tre» – ebbe a scrivere Dante, e questo numero mistico, per il Merejkowsky, è la sigla stessa del «secondo avvento», il superamento della dualità, della divergenza o incomunicabilità fra mondo e supermondo. Il fine della Commedia, scrive Dante, è «rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e di condurli ad uno stato di felicità», che ha evidente relazione con lo stato celeste, con lo stato paradisiaco. È partendo da tali premesse che si svolge, essenzialmente, l’interpretazione dantesca del Merejkowsky.
Interpretazione che, in buona parte, potrebbe essere accettata, però solo come base per un approfondimento ulteriore con relazione ad un ordine di cose, che non è più filosofico o profetico, ma tecnico e, diciamolo pure, iniziatico. Devesi considerare davvero malaugurata la circostanza che il Merejkowsky, a quanto sembra, non ha avuto l’occasione di conoscere i punti di riferimento necessari per questa ulteriore esplorazione del mondo dantesco: infatti egli in altre opere ha dato prova di facoltà davvero di prim’ordine per quel che riguarda l’interpretazione del mito e del simbolo, e queste facoltà, applicate a tutto quel che in Dante, effettivamente, è solo simbolismo, avrebbero potuto dare dei risultati preziosissimi.
Così, malaugurato ci sembra il fatto che il Merejkowsky, il quale di Luigi Valli purtuttavia conosce e cita le opere sulla struttura morale dell’universo dantesco e sulle simmetrie fra Aquila e Croce, sembri ignorare quella, fondamentale, sul linguaggio segreto dei «Fedeli d’amore», ai quali Dante stesso apparteneva, opera che già da per sé stessa sarebbe valsa ad aprirgli tutt’altri orizzonti. E’ così che il Merejkowsky, nei riguardi della Beatrice e della Vita Nova, non sa veder nulla di più di quella applicazione della «magìa dei tre», secondo la quale la donna terrena e quella celeste, e così pure l’amore terreno e quello superterreno, sono condotti ad una sintesi superiore, che fa dell’amore uno strumento di resurrezione. Tutto ciò è troppo poco e la «donna celeste», qui, resta semplicemente un astratto simbolo teologico.

“Beatrice” di Marie Spartali Stillman ( 1895)
Noi sappiamo invece che nel linguaggio segreto dei «Fedeli d’amore» la «donna» aveva un significato non solo simbolico, ma iniziatico, esprimeva la «Sapienza Santa», intesa come una forza effettiva, come una «influenza» trascendente, base di una realizzazione interiore ben diversa da quella dei mistici e dei santi. Il Merejkowsky, è vero, lo presenta, dicendo che Dante fu un santo «in un altro modo», ma egli non ha la possibilità di andare sino in fondo a tale idea: egli sa solo riferirla alla santità propria alla religione futura del «Secondo avvento», cosa assai inesatta, poiché se la realizzazione interiore, di cui si tratta, può, nella sua generalità, aver anche una certa rispondenza a quel che, nella interpretazione della storia e del cristianesimo da parte del Merejkowsky, è il «Secondo avvento», purtuttavia, nella sua essenza, è insuscettibile ad essere unilateralmente connessa ad un qualsiasi periodo storico. Quella «iniziatica» è una possibilità perenne dell’uomo, che ogni civiltà tradizionale conobbe, e che in nessun modo può esser «storicizzata», perché chi la sviluppa procede su di una direzione, che è perpendicolare rispetto a quella della storia, della realtà temporale.
In realtà, proprio un itinerario lungo tale direzione non storica e iniziatica costituisce il vero contenuto della Divina Commedia, o almeno di quel che in essa vi si trova di essenziale, di superletterario, di adeguato alla dichiarata intenzione dantesca, di additare, col suo poema, il modo con cui la condizione umana già da vivi sulla terra può esser rimossa. Alla stessa guisa, il significato essenziale della Vita Nova non è una vicenda erotica più o meno sublimata e mescolata con astrusi simboli teologici, bensì è una allegoria delle esperienze di «contatto» di Dante con la «donna», cioè con la forza sovrannaturale, che nel medioevo sembra esser stata ancora in possesso di certe organizzazioni segrete ghibelline, come quella dei Templari o l’altra che esteriormente si presentava in veste di «Fedeli d’amore» : e una tale forza non solo è la base di una «vita nova», ma la condizione per poter ancor da vivi compiere la discesa negli inferni e realizzare tutti quegli altri stati interiori, di cui le varie tappe del viaggio dantesco sono dei simboli.
Poter ancor da vivi, e tornando vivi sulla terra, compiere tali trasformazioni, è stato esattamente, in tutti i tempi lo ideale della iniziazione, al quale però fa da presupposto quel potere, di «disnodare l’anima dal corpo» e quindi di realizzare una «libertate» in senso superiore, trascendente, che Dante attribuisce proprio a «Beatrice». E che in Dante il «Sole di Beatrice» finisca con l’offuscare quello di Cristo, non è forse, a questa stregua, un simbolo particolarmente significativo, e che ci fa ricordare a quei «cavalieri celesti» del Graal che, staccati da Dio, seguendo invece la «donna», riescono nella loro impresa simbolica, più o meno equivalente al viaggio dantesco?
Un’ultima osservazione. È certo che in Dante l’elemento iniziatico ebbe connessioni con quello politico-sociale in un senso che, in via generale, corrisponde al «miracolo dei tre»: anche in sede politica, in sede di Stato, va superato il «due», l’antitesi fra spiritualità e reggimento politico in qualcosa, come un sacrum imperium. Che però, su tale punto, le idee di Dante fossero interamente chiare e prive di compromessi, si lascia dubitare, e noi lo abbiamo mostrato in una delle nostre opere (Il Mistero del Graal, ed. Laterza). Certo è però, che il Merejkowsky si trovi ancor più lontano dal giusto punto, quando egli addita, per questo futuro regno, la formula: Pace, Pane, Libertà, aggiungendo testualmente: «L’avvento universalmente storico dello Spirito, che Dante presagisce come la folgore dei Tre, fonderà tutti i metalli umani — chiese, Stati, popoli, ceti («classi», come diciamo noi), — in una sola lega, necessaria per il regno di Dio».
Qui fa capolino il lato deteriore del Merejkowsky, che si lascia ravvisare anche nelle altre sue opere. A noi sembra che questa specie di «comunismo bianco» non solo sia l’antitesi di ogni specie di sacrum imperium, ma stia in aperta contraddizione con lo stesso spirito dei «tre», riflettendo invece quel che, sul piano sociale, può esser stato proprio solo alle premesse di un cristianesimo unilaterale e malamente mistico.
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