Come preannunciato qualche tempo fa, vi proponiamo a partire da oggi, a chiusura dello speciale dedicato ai rapporti tra Evola, Gentile e l’idealismo, un’interessante intervista a Luca Leonello Rimbotti. Scrittore, laureato in storia contemporanea, si occupa di mito, filosofia e politica nella cultura europea, soprattutto tedesca. È autore – tra gli altri – dei volumi: Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona (Settimo Sigillo, 1989); Il mito al potere. Le origini pagane del nazionalsocialismo (Settimo Sigillo, 1992); Globalizzazione (Settimo Sigillo, 2003); La rivoluzione pagana. Relativismo etnico e gerarchia delle forme (Ar, 2006); La Profezia del Terzo Regno: dalla Rivoluzione Conservatrice al Nazionalsocialismo (Ritter, 2011); Lebensraum: impero nazionalsocialista e rivoluzione conservatrice (Ritter, 2014); insieme a Federico Prati e Silvano Lorenzoni, Mistica Völkisch – mito del sangue e metafisica della razza nell’etnonazionalismo völkisch (Effepi, 2014).
Ha collaborato con le riviste «Elementi», «Italicum», «Margini», «Linea», «Diorama letterario», «Trasgressioni» ed è autore di svariate prefazioni e introduzioni per le pubblicazioni dell’Editrice Thule.
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1) Dottor Rimbotti, come evidenziato da diversi ricercatori e studiosi, il rapporto tra Julius Evola e Giovanni Gentile fu tutt’altro che uniforme: dal 1922 al 1934, pur avanzando alcune critiche a Gentile, il giovane Evola cercò comunque un contatto diretto con il celebre filosofo, rappresentante italiano del post-hegelismo che di fatto occupava un ruolo importante nel processo di edificazione dello Stato fascista, nel tentativo di verificare quanto e come si potessero rettificare alcuni punti cruciali dell’attualismo, che pure a suo giudizio aveva aggravato gli aspetti più critici della concezione idealista tedesca.

Giovanni Gentile (1875-1944)
Il tentativo di Evola, di fatto, fallì. Gentile non valicò mai l’orizzonte della mera speculazione filosofica, Evola invece lo scavalcò e ruppe ogni schema, innalzando la filosofia alla metafisica, “contaminandola” con elementi tratti dalle dottrine spirituali tradizionali, ed elaborando una sua forma di idealismo, cd. “magico”: le posizioni tra i due rimasero dunque irrimediabilmente distanti. Evola stesso cercò di spiegare le ragioni di questo mancato incontro ne Il Cammino del cinabro.
A suo giudizio, dottor Rimbotti, possiamo dire che tale fallimento si verificò perché per il mondo della filosofia fu di fatto più facile sbarazzarsi di un “pericoloso” contaminatore quale Evola, i cui riferimenti extra-filosofici, bollati puntualmente come “magia” (nel senso deteriore del termine) e “superstizione”, rappresentarono un comodo pretesto per un facile ostracismo? Oppure perché oggettivamente, trattandosi, per usare le parole di Evola, “di una introduzione filosofica ad un mondo non filosofico”, i precedenti filosofici, cioè “l’abito del pensiero astratto discorsivo”, rappresentavano la qualificazione più sfavorevole affinché la crisi esistenziale provocata dalle propaggini liminali della filosofia, nello specifico dall’idealismo post-kantiano, potesse essere superata nel senso di un “passaggio a discipline realizzatrici”?
La cultura italiana in genere ha una scarsa tradizione filosofica. Modernamente, ciò che è venuto a prevalere è in ogni caso una sorta di accademismo, che ha spesso represso il talento innovatore e premiato una sterile dogmatica di scuola. In Germania, al contrario, accanto ad un formidabile livello di ricerca legato alle Università, si sono avuti nella prima metà del secolo XX notevoli casi di pensiero alternativo, per di più seguito da vasta attenzione da parte del pubblico colto. Basta pensare ai “successi” di notorietà registrati da uno Spengler, da uno Steiner o da un Keyserling, impensabili presso di noi. In Italia – eccetto per alcuni casi storici di gran rilievo come il futurismo o l’ambiente di Papini e Prezzolini nel primo anteguerra – nel Novecento l’alta cultura è stata faccenda di istituzioni, quindi di potere ufficiale.
Le smarginature di Evola dal conformismo filosofico dell’epoca (pensiamo al predominio dell’Idealismo neo-kantiano ma, soprattutto, al ben più pernicioso neo-tomismo cattolico) ne garantirono la messa all’angolo. Un approccio “eversivo”, come quello evoliano, a fonti di sapere eterodosso, come il pensiero orientale, il magismo oppure il paganesimo, diversamente da altre realtà europee della prima metà del Novecento, non poteva avere e non ebbe allora in Italia alcuna sanzione di diffusa notorietà e tantomeno di ufficialità, mantenendosi nel circuito marginale di un pensiero alternativo potente, ma fortemente minoritario.

Martin Heidegger (1889 – 1976)
Tuttavia, non credo che Gentile si sia arrestato ad una “mera speculazione filosofica”. Il suo fu il tentativo di potenziare la nazione. Si tratta in ogni caso di filosofia politica. Aggiungo che Gentile – ma anche Evola, sia pure diversamente – rappresentò al meglio ciò che si intende per “intellettuale militante”, giungendo a ricoprire (anche con sconfitte pesanti, ma questo è un altro discorso) il ruolo che Heidegger voleva ricoprire nel Terzo Reich: condizionare il potere a partire dalla propria filosofia. Non è poco. L’attualismo gentiliano, comunque lo si giudichi, avrebbe voluto presentarsi come “disciplina realizzatrice”; la sua predicazione idealistica (alle volte utopistica, altre volte accademica e di antico sapore scolastico) voleva essere formatrice, e l’uomo nuovo fascista immaginato da Gentile avrebbe dovuto avere in sé, in interiore homine come si diceva, la sostanza di uno spirito in lotta con il proprio tempo. Questa didattica, questa etica era – come in Evola – aristocratica e selezionatrice. Pensiamo alla concezione gentiliana di cultura, quando ad esempio affermava che “lo Stato deve bensì aprire una porta verso l’alta cultura, ma piuttosto stretta che larga, perché non vi precipiti dentro una folla…”. Non si trattava più di vecchio elitarismo liberale, ma già di aristocraticismo fascista…
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2) Fallito ogni tentativo di collaborazione, Evola (che pure nel dopoguerra avrebbe riconosciuto a Gentile carattere e coerenza personale nel mantenersi fedele al fascismo fino al sacrificio della propria vita) dalla seconda metà degli anni Trenta accentuerà le divergenze concettuali con il filosofo di Castelvetrano, ed anche i toni della polemica si faranno più accesi ed intransigenti.
Evola ritenne che Gentile, di fatto, fosse sempre rimasto un esponente della borghesia intellettuale erede del Risorgimento e, malgrado certe sfumature nel senso dell’autoritarismo, a suo giudizio il pensiero gentiliano rimase “della stessa sostanza di quello laico-illuminista e antitradizionalista-massonico che cementò la rivoluzione del Terzo stato”.
Anche l’interpretazione gentiliana del fascismo come una specie di continuazione e di integrazione del Risorgimento era particolarmente malvista da Evola, così come da diversi esponenti dell’ala più rivoluzionaria e “movimentista” del fascismo, che guardavano con sospetto certe ambigue oscillazioni del pensiero gentiliano nei confronti del liberalismo e dell’esperienza risorgimentale. Questa interpretazione critica di Evola può considerarsi corretta, ed eventualmente entro quali termini?

Il richiamo alla componente patriottica del Risorgimento italiano, soprattutto con riferimento all’esperienza della Repubblica Romana, fu una delle tante sfaccettature dell’esperienza fascista, in particolare durante la R.S.I.
Il fascismo per primo intese presentare la propria rivoluzione come il completamento del Risorgimento, e la seconda guerra mondiale venne presentata per l’appunto come la definizione delle frontiere marittime, dopo la sistemazione post-risorgimentale (prima guerra mondiale) di quelle terrestri: molte volte Mussolini e i maggiori intellettuali fascisti si dissero gli eredi e i continuatori dell’opera risorgimentale. In lotta, però, non più contro la vecchia Reazione (Austria), ma contro la nuova (Francia e Gran Bretagna). Non occorre insistere su questo. Sappiamo bene che evidentemente non c’era in costoro – Mussolini e i fascisti – un equivalente elogio della “borghesia illuminista”; c’era anzi il convincimento di rappresentarne il nemico più convinto. Si tratta di sapere di quale borghesia si parla. Se di quella reazionaria e massonica legata al mondo liberal-giacobino franco-inglese, oppure di quella ribellistica e innovatrice che era stata il nerbo dell’interventismo prima e del fascismo poi, squadrismo, futurismo, arditismo e fiumanesimo compresi. E’ evidente che Evola vide in Gentile il rappresentante più della prima borghesia che della seconda. A torto, a mio modo di vedere, poiché il Gentile, se pure veicolava certe attitudini pedagogico-paternaliste giudicate (a ragione) intollerabili da Evola, e se pure fu artefice di un reticolo di potere culturale e politico che raccolse adesioni anche nel vecchio liberalismo (pensiamo alle collaborazioni all’Enciclopedia Italiana), d’altro canto formulò alla fine un pensiero che con la vecchia “destra” liberale si pose in piena rottura: umanesimo del lavoro, Stato etico comunitarista e anti-individualista, corporativismo come partecipazione al totalitarismo di popolo furono le tappe gentiliane di avvicinamento alla “sinistra” rivoluzionaria fascista. E non importerà ricordare la provenienza di Gentile dagli studi sul marxismo. Da questi temi forti, piuttosto che dall’asserita appartenenza di Gentile ai residui liberal-borghesi, derivò secondo me l’ostilità di Evola nei confronti del pensiero gentiliano. Senza contare che proprio nei valori del Gentile per così dire “di sinistra” Evola non ravvisò mai elementi a lui vicini. E’ nota la sua pesante perplessità nei confronti di tutto quanto sapesse di “socialismo” e mobilitazione delle masse, avendo in antipatia squadrismo, corporativismo e tutto quanto di modernizzatore vi fosse nel Regime.
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3) Sicuramente il fronte principale di critica di Evola nei confronti di Gentile, da cui derivarono come corollari tutti gli altri, fu quello filosofico.
Con l’esacerbarsi dei toni della polemica, Evola attaccò senza remore in modo frontale l’attualismo gentiliano, da lui visto come una pura estremizzazione, una “riduzione all’assurdo” dell’idealismo tedesco, da cui non si sarebbe mai potuta dedurre né una dottrina politica funzionale alla visione di vita che il fascismo avrebbe dovuto avere, né un impianto dottrinario da mettere alla base di uno Stato antimoderno ed antirazionalista.
Evola sottolineò in particolare come l’attualismo, ancor più dell’idealismo stesso, sancisse il tramonto definitivo della civiltà dell’essere – cioè della stabilità e della forma, con aderenza a principi supertemporali – a beneficio della civiltà del divenire, fondata sul mutamento, sul fluire, sulla contingenza, diretta conseguenza del “divenirismo dialettico” in cui si traduceva l’attualismo gentiliano, definito senza mezzi termini da Evola come una “varietà spuria della mistica moderna del divenire” in cui, “su di uno sfondo cosmico”, si rifletteva “la mentalità del self-made man e dell’homo faber di oggi”.
Possiamo in effetti ritenere, dottor Rimbotti, che l’abbandono da parte di Gentile della dialettica del pensato presente nel sistema hegeliano sancì in modo radicale tale degenerazione, tant’è che, osservava ancora Evola, in Gentile la civiltà antica viene liquidata col verdetto di civiltà dell’“essere”, in senso deteriore, ove il soggetto avrebbe sviluppato una mera e sterile “filosofia del pensato” e sarebbe stato incapace di pervenire alla coscienza di sé come “pensante”?

“Gentile, partito da Marx, di costui reinterpretò la dialettica fra idea e materia, riformulandola nel senso hegeliano di un costante rapporto fra idea e prassi. Gentile (…) corregge Marx con Hegel, tornando alla supremazia dell’Idea”
Possiamo dire senz’altro che Evola e Gentile erano su terreni diversi. Quindi la medesima cosa la pensavano in modo non necessariamente opposto, ma diverso. Per questo, non è detto che debbano essere misurati con lo stesso metro. Le loro ragioni, ognuno nel suo campo, rimangono secondo me ugualmente valide. Nelle loro fasi mature e definitive, i due filosofi si collocarono su due salienti differenti: metafisico-sacrale il primo, politico-comunitario il secondo. Gentile, partito da Marx, di costui reinterpretò la dialettica fra idea e materia, riformulandola nel senso hegeliano di un costante rapporto fra idea e prassi. Gentile, che non è un materialista ma è a sua volta un metafisico, corregge Marx con Hegel, tornando alla supremazia dell’Idea e spostando la materia (economia, rivoluzione) nel regno della semplice fattibilità storica.
L’Idea, per Gentile come per Hegel, è non meno reale della stessa realtà di fatto. Di qui la nota “ontologia della prassi”, ripresa da Fichte, che permette secondo Gentile di attualizzare l’idea traducendola in fatto storico. Certamente qui prevale il regno del divenire: la storia “si fa”, diviene, inserendo l’idea secondo le possibilità date da un certo clima storico. Il “pensato” diventa il luogo dell’immobilità data, quindi della “morte”, il pensare, invece, assurge in questo modo a luogo del mutevole, quindi della “vita”, che è ininterrotto fluire. L’essere, secondo Gentile, diventa legge del procedimento storico, calandovisi. L’attualismo, in fondo, non è che una spiegazione circa l’incessante opera di miglioramento dello spirito. E il famoso “atto in atto” può essere letto a ragione come nulla di meno che l’idea in azione, con una vocazione cioè attivizzante. Di qui l’apprezzamento gentiliano per lo “storicismo”.

Oswald Spengler (1880-1936)
Evola, tempra diversa di pensatore, fedele alle stelle fisse rilucenti nel cielo della Tradizione, lesse lo storicismo come scheggia evoluzionista-progressista e anche su questa base contestò Gentile. Ma, a mio modesto modo di vedere, lo storicismo classico novecentesco (Weber, Simmel, Spengler…) non è tanto evoluzionista, quando evolutivo: legge lo sviluppo, poiché uno sviluppo (progressivo o regressivo) effettivamente esiste e per tale va registrato. Lo stesso Evola conobbe un interiore sviluppo evolutivo (lo racconta assai bene ne Il cammino del cinabro). Non conosco la critica di Gentile alla civiltà antica su queste basi, conosco però il suo insistito richiamo al fatto che la storia la fa lo spirito, essendo questo il veicolo dell’idea, pertanto la storia è la storia dello spirito in azione. Da qualche parte Gentile ha scritto che “il progresso dello spirito è azione” e che la ragione da sola è sterile. In ogni caso, nulla è fuori dallo spirito, neppure la realtà, che esiste solo in quanto rientrante nella nostra facoltà di comprenderla. Lo diremmo un protagonismo assoluto dell’Io pensante.
Tra le due posizioni – di Evola e di Gentile – non vedo contraddizione alcuna. L’essere va benissimo quando si è raggiunta la vetta. Ma per raggiungerla bisogna muoversi, agire quindi nel divenire. Trovo che l’esortazione gentiliana: “bisogna modificare se stessi, muoversi, salire”, non abbia nulla di modernista-progressista in senso deteriore, ma molto di eroico e mobilitante, poiché si tratta di muoversi per realizzare appunto l’Idea. Il divenire e l’essere non sono a parer mio due opposizioni ontologiche, ma due condizioni in successione tra loro, due stadi della vita. Le acque di Eraclito sono mutevoli, certamente, anche se il fiume è sempre lo stesso. Del resto, ricordo che Mussolini giovane – si era verso il 1909 – insieme ai “vociani” esortava all’azione proprio come momento di rottura della contemplazione passivante: “basta studiare il mondo, bisogna trasformarlo…”.
Segue nella seconda parte
'Evola e Gentile: Intervista a L. L. Rimbotti (prima parte)' has no comments
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