Intervista: Oswald Spengler e i tempi ultimi (prima parte)

Proponiamo a partire da oggi, in più puntate, una originale intervista su Oswald Spengler, che toccherà peraltro anche temi di attualità geopolitica ed “escatologica”, con un nostro amico e collaboratore, Elio Della Torre, che ospitiamo con grande piacere. Elio, cultore di materie classiche e tradizionali, è uno dei fondatori di Cinabro Edizioni, di cui anima le pubblicazioni, curandone in particolare la direzione editoriale. E’ altresì, tra gli altri, membro della redazione della rivista trimestrale “FUOCO – informazione che accende”, una delle più interessanti realtà dell’editoria alternativa. Elio ha avuto modo di studiare anche il variegato mondo della cd. Rivoluzione Conservatrice, e, tra gli altri, si è occupato anche di Oswald Spengler. Al quale, ricordiamolo, RigenerAzione Evola ha già dedicato uno speciale con diversi articoli, cui rinviamo. Riprendiamo a partire da oggi il filo di questo discorso, dato che i tempi sono assai propizi per commentare e riproporre alcune importanti intuizioni dello scrittore tedesco.

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Caro Elio, ti salutiamo, ti ringraziamo per la disponibilità e con piacere iniziamo questa chiacchierata con te su Oswald Spengler e dintorni, cercando di inquadrare i vari temi anche dall’angolo visuale con cui li analizzò Julius Evola, che, lo ricordiamo, ha tradotto per primo “Il Tramonto dell’Occidente” in italiano e che ha analizzato e descritto con cura pregi e difetti dello scrittore tedesco.

Quando si parla di Spengler, inevitabilmente ci si ritrova a dover commentare la celebre antinomia tra Kultur e Zivilitation che caratterizzerebbe ogni ciclo delle singole civiltà, elaborata dallo scrittore tedesco, ed anche noi non possiamo esimerci dal farlo.

Carissimi, ho risposto con molto piacere alla vostra chiamata, e con altrettanto piacere cercherò di approfondire con voi questi temi così interessanti e così attuali, sempre nei limiti delle mie possibilità.

La storica prima edizione de “Il Tramonto dell’Occidente” tradotta da Evola

Vorrei iniziare dal secondo dei due termini di questa celebre antinomia, Kultur e Zivilitation. Julius Evola, partendo da un’ottica rigorosamente tradizionale, espresse un giudizio positivo proprio sulla pars destruens della visione di Spengler, che abbatteva il mito evoluzionistico e progressistico, poneva un processo ciclico alla base della storia di popoli e civiltà ed evidenziava in modo appropriato le caratteristiche tipiche della decadenza delle “civiltà crepuscolari”, caratterizzate appunto dalla Zivilitation, la “civilizzazione”: dominio della quantità, del denaro, del capitalismo, delle grandi masse amorfe, della demagogia dalla politica partitica, del livellamento che scalza gerarchie e differenziazioni, della vita vuota, apatica, asettica delle grandi metropoli e del cemento. Questa ricostruzione spengleriana della decadenza mi sembra assai convincente e centrata.

Inoltre dobbiamo ricordare che, secondo Spengler, la situazione dell’occidente moderno sarebbe caratterizzata da due rivoluzioni mondiali: una interna, una “rivoluzione sociale”, caratterizzata dall’emergere dell’elemento massa che finisce per compenetrare di sé tutti gli aspetti della vita moderna, ed una rivoluzione esterna, di natura etnica, che avrebbe visto per protagoniste le razze di colore, che, europeizzandosi, e quindi assimilando nei propri contesti la “civilizzazione” e gli strumenti di potenza delle razze bianche, e contando su una prolificità – già a quei tempi, figuriamoci oggi – ben superiore a quella della occidentale, si sarebbero emancipate definitivamente per travolgere l’occidente in declino.

Anche queste due interpretazioni profetiche mi sembrano calzanti. Sulla progressiva massificazione delle società moderne, col ritrarsi di qualunque principio di gerarchia ed autorità di natura superiore, non ci sono dubbi; allo stesso modo, direi che in una società ormai decadente, dove si sta rovesciando ogni principio di normalità, le mescolanze etniche, soprattutto forzate, rappresentino un ulteriore fattore negativo, soprattutto laddove vadano ad aggravare in senso babelico la confusione religiosa, sociale e culturale di un mondo che ormai è arrivato al capolinea.

Peraltro si potrebbe aggiungere una terza rivoluzione, sempre esterna, e direi globale: quella antropologica. Ormai il tentativo, che si appoggia anche sulla dottrina perversa del genderismo, di modificare dalle fondamenta la natura stessa dell’uomo, trasformandolo in un’entità anonima, priva di radici e di identità (sessuale, religiosa, etnica, culturale, ecc.), prevale sul semplice melting pot etnico. Certamente su tutto domina ora una cappa mefitica: l’influenza di certe oligarchie (i famosi “poteri forti”, espressione che ormai è talmente abusata e screditata, anche e soprattutto per via delle tecniche dialettiche da “guerra occulta” del nemico, da dover essere a mio giudizio accantonata), che segretamente dirigono le sorti finali dell’umanità, dando anima al satanico tentativo del cd. Grande Reset. Una controrivoluzione culturale, antropologica, economica, sociale, dalla portata spaventosa, che probabilmente porterà alla fine di questa fase storica. Ma tutto questo Spengler non poteva di certo concepirlo né ipotizzarlo compiutamente.

Una delle critiche spesso rivolte a Spengler, e non solo da Julius Evola, è quella di aver posto in evidenza diverse problematiche, alle quali non avrebbe però saputo dare delle risposte adeguate. Lo stesso Mussolini, nella sua recensione agli “Anni della decisione”, scrisse: “si pone, quindi, per noi, europei del XX secolo, la domanda: Che fare? Spengler non risponde molto chiaramente a questo angoscioso interrogativo”. Dinnanzi all’impietoso affresco della civilizzazione ed alla descrizione così precisa ed efficace delle sue caratteristiche, nonché dinnanzi al pericolo delle due rivoluzioni mondiali di cui abbiamo parlato, Spengler non sembrò convincente nell’individuare delle soluzioni, delle vie d’uscita. Da una parte, la via del cesarismo, dall’altra parte, la messa in evidenza, quale elemento di riscossa, del prussianesimo, inteso non tanto come un carattere nazionale, ma come un modo di essere. Puoi dirci qualcosa in più al riguardo?

Quanto al cesarismo, Spengler in sostanza sosteneva che dei nuovi “Cesari” avrebbero dovuto inquadrare e dominare le masse, guidandole in giganteschi scontri tra imperi e continenti, per l’imperium mundi. Come osservato da Evola, tali cesari dei tempi ultimi sarebbero guidati però dall’istinto vitale e non da una vera autorità trascendente proveniente dall’alto, e pertanto, osservava il barone, ben diversi dai veri Cesari romani.

La I° Garde-Division (I° Divisione della Guardia), facente parte del Gardekorps, una delle più importanti unità in forza all’Esercito prussiano e dal 1871 all’Esercito imperiale tedesco (Dipinto di Carl Röchling, 1894)

Circa il prussianesimo, si è spesso equivocato sul significato di tale concetto: non si tratta né di un’espressione geografica, né, tanto meno, di un concetto socio-laburistico, come vorrebbero i moderni esegeti di sinistra, quando parlano a sproposito del cosiddetto “socialismo prussiano” (che è invece il comunitarismo gerarchico mitteleuropeo). Si tratta di un riferimento ad una visione, ad un modo di essere, come hai giustamente detto: un senso di disciplinata dedizione, di interna libertà nell’adempimento del dovere, dominio di sé, in qualche modo schematizzato nel dualismo concettuale, più che geografico, tra Prussia ed Inghilterra, e, più precisamente tra quel malinteso “socialismo prussiano” e l’individualismo mercantilistico inglese.

Al riguardo, col tempo mi sono convinto che la seconda guerra mondiale possa essere stata l’esempio paradigmatico di uno di questi scontri “cosmici” in qualche modo profetizzato da Spengler, in cui alcune grandi “masse”, europee ed extraeuropee, guidate da regimi totalitari fascisti o filo-fascisti, si sono contrapposte ad altre “masse”, guidate da regimi demo-liberali e comunisti. Per semplificare, alcuni “Cesari” come Hitler e Mussolini (al di là del fatto che solo il Duce, per Spengler, aveva l’impronta del vero “Cesare”, essendo invece Hitler, a suo giudizio, un mero capo-popolo), si sono contrapposti ad altri “Cesari”, almeno in senso figurato, quali Stalin, Roosevelt, Churchill. Questo scontro ha in qualche modo rappresentato l’incarnazione della battaglia tra uno “spirito prussiano”, come sopra inteso, ed uno “spirito inglese”, la famosa guerra (per semplificare) del sangue contro l’oro, dello spirito contro la materia, che ha consegnato l’imperium mundi nelle mani di una parte ben precisa. Al di là degli errori, delle contaminazioni modernistiche e non solo, e delle incongruenze che, purtroppo ed inevitabilmente, c’erano anche dall’altra parte.

Ora, in verità, vista la delicatissima situazione geopolitica in atto, ho l’impressione che ci stiamo avvicinando ad un altro di questi scontri cosmici (che potrebbe, chissà, condurci verso prospettive da Armageddon…). Da una parte il polo dell’Occidente ormai deviato e traviato, a guida “atlantista”, come piace dire tanto oggi (espressione che a me, personalmente, non piace, dato che quando penso all’atlantismo mi viene in mente la stirpe atlantidea, Platone, ecc.: quindi direi a guida angloamericana), dove l’Europa è ridotta a piccola, insignificante appendice coloniale del Commonwealth a stelle e strisce; un Occidente guidato da mediocri (e pericolosi) burattini, personaggi come Joe Biden, Boris Johnson, Rishi Sunak, Emmanuel Macron, Ursula Von der Leyen ecc.., “cesari” (e “cesaresse”, se mi è consentita l’espressione…) che in realtà rappresentano solo piccoli uomini (e donne) di paglia dietro ai quali si muovono notoriamente altre entità. Dall’altra parte, il gigantesco polo russo-sino-asiatico, guidato da Cesari (ben più credibili) quali Vladimir Putin, Xi Jinping, o lo stesso Ayatollah Ali Khamenei, che potrebbero incarnare, anche insospettabilmente, il katechon di questi tempi ultimi. Vedremo cosa accadrà…

Più avanti torneremo su questo argomento assai delicato … intanto, parlando del secondo termine dell’antinomia spengleriana, la Kultur, la questione è forse più complessa: qui occorre individuare quale fosse la fase aurorale, primigenia, delle varie “anime” che caratterizzano, secondo Spengler, le singole civiltà. Il termine “anima” non è casuale, dato che, come sottolineato da Julius Evola, Spengler non seppe scorgere la natura metafisica delle leggi cicliche delle civiltà, fermandosi al dato naturalistico e deterministico. Possiamo, al riguardo, sostenere che la visione di Spengler rientri a pieno titolo in quel complesso ma per certi versi affascinante contesto immanentistico-vitalistico così tipico della sensibilità nordica, in cui piano psichico, razionalità e spiritualità tendono a confondersi?

Oswald Spengler

E’ una domanda molto interessante, che richiederebbe un’analisi approfondita … provo a fissare alcuni concetti basilari. In effetti, è vero che nella visione di Spengler domina l’elemento psichico, l’elemento animico: lo scrittore tedesco parla sempre di anima di una civiltà, che si distaccherebbe dall’Urseelentum, cioè dall’anima primordiale, la matrice unica da cui promanerebbero le singole anime delle singole civiltà. La matrice non sarebbe dunque lo Spirito, il Logos, “Dio”, ma una sorta di “Grande Anima” primigenia. Spengler concepiva il mondo e la storia come un organismo vivente, applicandone le leggi ed i richiami, con evidenti agganci a Goethe e ad una visione effettivamente immanentistica, vitalistica, dominata da un’incessante metamorfosi della forma. Evola osservava infatti come simboli e miti venivano sempre ricondotti da Spengler quasi all’istinto ed all’inconscio. Non c’è spazio, nella costruzione spengleriana, per una metafisica della storia: la sua appare più come una psicologia della storia. Se Ferdinand Clauss elaborò una perfetta psicoantropologia, potremmo dire che Spengler sembra aver elaborato una psicomorfologia della storia.

Anche in Spengler sembra emergere con chiarezza il contrasto tra una spiritualità metafisica, trascendente, sovrarazionale, ed una spiritualità immanentistica ed a tratti irrazionalistica, panteistica, vitalistica, così tipica, come giustamente dicevi, della sensibilità nordica e mitteleuropea, che ritroviamo nel Romanticismo nord-europeo ed in tanti scrittori ed ambienti “culturali” (passami il termine) di quell’area: pensiamo, tra i tanti, ad un Knut Hamsun, o ad alcune correnti della rivoluzione conservatrice, come i Wandervögel, i Bünde giovanili e l’ideale bündisch, le cd. “utopie germaniche” con le loro colonie, gli Artamanen, ecc. che fornirono, tra l’altro, la base al naturalismo nazionalsocialista.

In effetti, secondo questa visione immanentistica mitteleuropea, nel mondo moderno emergerebbe un’opposizione diretta tra l’elemento “vita”, legato inscindibilmente all’anima (Seele), e lo “spirito”, che, ora indicato come Vernunft, ora come Geist, si confonde con l’elemento ragione/razionalità. Si potrebbero citare in tal senso altri autori come Ziegler o Klages. Peraltro la confusione nel mondo filosofico germanico tra Vernunft (ragione) e Verstand (intelletto) è cosa notoria, pensando ad esempio ad Hegel o a Kant.

Un tipico esempio di quella confusione tra anima e spirito, cioè tra sfera psichica o sottile e sfera spirituale, da cui tante volte soprattutto René Guénon ma anche lo stesso Evola hanno messo in guardia, come una delle più pericolose trappole della modernità. Evola stesso notò che nel lessico di Spengler termini di difficile traduzione come Erleben, erlebnis, che indicano l’esperienza vissuta, si incontrano con grande frequenza. A ciò fa da contraltare proprio l’uso anomalo delle parole Geist e geistig, cioè “spirito” e “spirituale”, per lo più usate per designare l’opposto dell’Erleben, ossia tutto ciò che è intellettualistico, razionalistico, astratto, cerebrale.

Uno degli aspetti più peculiari del sistema spengleriano, è sicuramente quello della assoluta incomunicabilità e chiusura di ogni civiltà, con la rispettiva anima, secondo quanto dicevamo: ognuna è un ciclo conchiuso, destinata a seguire fatalisticamente il proprio processo organico. Quali sono le conseguenze più significative di questa concezione?

Sì, un altro punto rilevante di quella psicomorfologia della storia, come l’ho voluta chiamare, di Spengler, è la concezione delle varie civiltà come compartimenti stagni. Sicuramente sono varie le conseguenze che ne derivano. Tra esse, vorrei soffermarmi in particolare su due.

La prima, è l’impossibilità di trasmissioni culturali tra le varie civiltà. Ciò che una civiltà può riprendere da un’altra, verrebbe assunto in una diversa funzione, in funzione di una diversa idea, cioè dell’anima specifica di quella data civiltà, assumendo pertanto un significato, una qualità diversa. Si pensi al Cristianesimo, che, in effetti, lo stesso Spengler prese come termine di paragone. Il Cristianesimo originario, nato in Palestina, sarebbe a suo giudizio ben differente da quello che poi si sviluppò nelle varie civiltà in cui si è diffuso: pensiamo al cattolicesimo romano, al luteranesimo germanico, all’anglicanesimo, al cristianesimo nordico, alle derive neo-protestanti americane. Ma pensiamo anche al cristianesimo ortodosso, sia pur frammentato nelle varie chiese acefale, che è sicuramente il più “metafisico” di tutti, risentendo molto dell’impronta spirituale orientale.

L’altra conseguenza del sistema conchiuso di Spengler, è quello della sincronicità, simultaneità, contemporaneità concettuale e non cronologica, tra le varie fasi della “regressione organica” delle singole civiltà, indicata nel lessico spengleriano con il termine Gleichzeit.

Evola scrisse che tale termine indicava “fenomeni o figure che occupano lo stesso «luogo» nel ciclo di diverse civiltà”; Rita Calabrese Cottone parlò di un’espressione che, nel sistema spengleriano, indica “l’unico tipo di confronto o rapporto che può essere instaurato tra le diverse civiltà”. Nel confronto tra la fase della Zivilitation nella civiltà classica greco-romana e nella nostra civiltà da Spengler chiamata gotico-occidentale, ad esempio, è particolare l’accostamento che lui fa tra la Roma del periodo dei Gracchi, di Catilina e dell’Impero, con la fase attuale della nostra decadenza occidentale. Il Colosseo o comunque i grandi stadi e anfiteatri romani, per le masse che chiedevano panem et circenses, sarebbero il corrispettivo “sincronico” degli odierni maxistadi per i grandi eventi sportivi di massa, e le grandi opere architettoniche ed ingegneristiche della Roma imperiale sarebbero equiparabili, mutatis mutandis, al moderno trionfo della ipertecnologia e delle metropoli. La stessa politica sempre più decadente della Roma imperiale rispetto a quella sacrale del mos maiorum delle origini, sarebbe l’equivalente della odierna politica degradata delle partitocrazie, dei grandi gruppi di potere, delle oligarchie finanziarie, e così via.

A mio giudizio questa sincronicità “concettuale” tra diverse civiltà è un elemento che meriterebbe uno studio e un’attenzione particolare: troppo spesso la si è bollata come una bizzarria, un eccesso, quando invece mi sembra un’intuizione di notevole portata. Anche questo accostamento “concettuale” tra tarda romanità ed occidente moderno (che lo stesso Adriano Romualdi non apprezzò) sempre con i dovuti adattamenti, ha un suo perché. La romanità tardo-imperiale, caotica, ellenizzata e sfaldata, era un magma informe che faceva rabbrividire rispetto al rigore della Roma prisca e catoniana, del mos maiorum e delle origini. Se già Cicerone poteva esclamare “o tempora o mores” contro Verre e Catilina, figuriamoci cosa avrebbe potuto dire se avesse visto cosa sarebbe diventata Roma due o tre secoli dopo…

Segue nella seconda parte

Nell’immagine in evidenza, La caduta dell’Impero Romano d’Occidente dipinta da Thomas Cole (1836) 



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