Intervista: Oswald Spengler e i tempi ultimi (seconda parte)

Seconda parte dell’intervista su Oswald Spengler, in cui non mancano anche risvolti di attualità geopolitica ed “escatologica”, con Elio Della Torre, nostro amico e collaboratore, cultore di materie classiche e tradizionali, uno dei fondatori di Cinabro Edizioni, di cui cura, in particolare, la direzione editoriale. Elio è altresì membro della redazione della rivista trimestrale “FUOCO – informazione che accende”, una delle più interessanti realtà dell’editoria alternativa. In questa seconda parte dell’intervista, si analizzano in particolare le caratteristiche dell’anima apollinea antica e dell’anima faustiana secondo l’elaborazione di Spengler, soffermandosi sulle implicazioni legate all’elemento volontaristico e attivistico, così determinante e caratteristico, per lo scrittore tedesco, dell’anima occidentale.

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Segue dalla prima parte

Abbiamo visto che il sistema spengleriano ruota intorno al concetto di “anima”, dai significati problematici per quanto ci dicevi. In particolare, puoi spiegarci i termini della dicotomia tra anima c.d faustiana o gotica e anima apollinea?

Questo è sicuramente uno dei punti fondamentali del sistema elaborato da Spengler ne Il Tramonto, e anche uno dei più complessi e per molti versi sfuggente aspetti della sua gigantesca morfologia della storia. Innanzitutto, riagganciandoci a quanto dicevamo poc’anzi sulla impossibilità di trasmissioni culturali tra le varie civiltà, Spengler ci ricorda che l’immagine dell’anima è sempre e soltanto l’immagine di una determinata anima. Nessun osservatore potrà mai emanciparsi dalle condizioni del suo tempo e del suo ambiente, e quando qualcuno crede di conoscere l’anima di civiltà straniere in base alle manifestazioni di essa, egli di fatto inserisce in tale anima la particolare immagine che a lui e propria.

Apollo vincitore del serpente Pitone, di François Gaspard Adam

Spengler distingue nettamente tra l’anima antica, quella che chiama apollinea, da quella dell’occidente moderno, faustiana o gotica. L’anima apollinea, che caratterizzò l’antichità greco-romana, sarebbe statica, passiva, monistica, somatica, legata al presente, senza propensione verso l’avvenire, quindi antistorica, senza dinamicità, cristallizzata. L’anima faustiana o gotica, che caratterizzerebbe l’uomo occidentale, sarebbe invece dinamica, attiva, orientata sempre al futuro, “storica”, dominata dal divenire, dualistica, in quanto legata al dualismo tra ragione e volontà, che sarebbe seguito al dualismo iniziale tra anima e spirito. Tutti termini in qualche modo equivoci, come osservavamo poc’anzi. In particolare, il concetto di volontà è quello che caratterizzerebbe l’anima faustiana (“Il fatto che la civiltà faustiana é una civiltà della volontà è solo una diversa espressione dell’orientamento eminentemente storico della sua anima”).

All’anima apollinea sta, staticamente, il corpo, all’anima faustiana sta lo spazio, entro cui si sviluppa la dinamicità, tanto che Spengler sostiene che per la prima si può parlare di un corpo dell’anima, e nella seconda di uno spazio dell’anima. “Il corpo ha delle parti, nello spazio si svolgono invece dei processi”, scrive.

Le nature faustiane, secondo Spengler, sarebbero abituate a considerare le persone riferendosi non al loro modo di apparire plastico e statico, ma a quello attivo, giudicando ciò che un uomo è in base alla sua attività, rivolta verso l’esterno o verso l’interno: solo a questa stregua si valuterebbero i propositi, le ragioni, le forze, le convinzioni, le abitudini delle persone. “La parola che riassume questo aspetto di un essere è: carattere”, poiché per i “faustiani”, che Spengler espressamente ricollega agli “Euro-occidentali”, “ciò che è la volontà nell’imagine dell’anima, lo è il carattere nell’imagine della vita”, e “la pretesa fondamentale di tutti i nostri sistemi etici, di là dalla diversità delle loro formule metafisiche o pratiche, è che l’uomo abbia un carattere. Il carattere — quello che si forma nella corrente del mondo, la personalità, il rapporto fra vita e azione — è un’impressione faustiana dell’uomo”. Da notare che secondo Spengler questo “sentimento estremamente attivistico della vita della civiltà faustiana è più vicino a quello cinese ed egiziano, mentre il sentimento rigorosamente passivo del mondo classico fu più vicino a quello indù”. E’ tipico della mentalità germanica concepire lo spirito contemplativo nel senso di passività; ricordo, ad esempio, che anche Rosenberg, nel suo celebre Mythus, parlando delle civiltà orientali, e, nello specifico, del precetto taoista del wu wei, lo interpretò molto semplicisticamente nel senso di un mero non agire materialisticamente inteso, e quindi di una piatta passività: un’interpretazione del tutto errata e fuorviante.

Circa l’anima faustiana, ci hai parlato poc’anzi di un dualismo tra ragione e volontà, che sarebbe seguito al dualismo iniziale tra anima e spirito, da cui l’uomo antico sarebbe stato estraneo: puoi spiegarci meglio questo aspetto?

Sì, si tratta di aspetti molto complessi e di non facile decifrazione. Proviamo. Secondo Spengler l’anima apollinea si sarebbe già sbiadita nel tardo stoicismo, per poi sparire a partire dal primo periodo imperiale nella stessa letteratura romana; storicamente avrebbe fatto da ponte tra anima apollinea e anima faustiana “l’animità magica della civiltà araba”, come la chiama lo scrittore tedesco: nella “metafisica arabo-cristiana” si sarebbe affacciato un primo “rigoroso dualismo fra due misteriose entità, fra spirito e anima. Esse stanno fra loro in una relazione che non e né quella antica, statica, ne quella occidentale, funzionale, ma di una forma tutta diversa che, appunto, si può solo chiamare magica”. Attraverso passaggi intermedi si sarebbe giunti all’emersione del contrasto tra forze funzionali dell’anima, ed alla disputa circa il primato della volontà o della ragione, considerato da Spengler il problema fondamentale della filosofia gotica, problema che si cercò di risolvere ora nel senso “antico arabo” (dualità spirito-anima, Geist-Seele) ora nel “senso nuovo occidentale” (dualità volontà-ragione, Wille-Vernunft). Questo stesso mito concettuale avrebbe determinato, in formulazioni sempre varie, il corso di tutta la nostra filosofia. E’ molto interessante questo aspetto, perché sembrerebbe far intendere che ad una contrapposizione più “trascendente”, legata ad un senso “religioso” e sacro della vita, ne sia seguita una molto più “immanente”, legata ad un senso molto più profano: ciò che un tempo era spirito, degradò poi in volontà; ciò che era anima, divenne ragione. Sempre con tutte le attenzioni del caso, per via del lessico particolare usato da Spengler.

Spengler utilizza metafore spazio-temporali per rappresentare la volontà ed il pensiero. Scrive infatti che “nell’immagine dell’anima il volere e il pensare sono l’equivalente di quel che direzione e estensione, storia e natura, destino e causalità sono nell’imagine del mondo esteriore”. A suo giudizio il simbolo elementare dell’anima faustiana sarebbe l’estensione infinita, che si manifesterebbe nei tratti fondamentali sia della volontà che del pensiero: la volontà collegherebbe il futuro al presente, il pensiero collegherebbe l’illimitato al “qui”. “Il futuro storico è il lontano in divenire, l’orizzonte cosmico illimitato è il lontano divenuto”.

Il sentimento della direzione viene rappresentato sotto specie di “volontà” (Wille), il sentimento dello spazio sotto specie di “intelletto” (Verstand), inteso come equivalente di ragione (Vernunft), pensiero, e non certo in senso guénoniano e, più in generale, metafisico (nel senso stretto del termine). Fra lo spazio inteso come profondità e la volontà non vi è, per Spengler, differenza alcuna. Il puro spazio dell’immagine faustiana del mondo non è la semplice estensione, ma l’estendersi verso una lontananza come azione, come superamento di ciò che è soltanto sensibile, come tensione e tendenza, come “spirituale volontà di potenza”. Il concetto fisico dell’energia spaziale secondo cui la distanza spaziale è la forma primordiale di ogni energia, chiarisce per Spengler anche il rapporto con cui la volontà sta con lo spazio immaginario dell’anima.

Quest’energia spaziale, scriveva Spengler, è un “concetto assolutamente non-antico”: l’uomo antico, infatti, secondo quanto dicevamo poc’anzi, appartenne per lo scrittore tedesco “tutto al presente”, essendo privo di quell’energia di direzione che domina nella nostra immagine del mondo e dell’anima, che raccoglie tutte le impressioni dei sensi in funzione del lontano, e tutte le esperienze interiori in funzione del futuro. L’uomo antico sarebbe stato quindi “senza volontà” (in tal senso, l’idea antica dell’ineluttabilità del destino sarebbe significativa), un corpo fra corpi, e la sua conoscenza sarebbe stata sempre passiva, “un passar di qualcosa dal conosciuto al conoscente”, senza che l’uomo antico avesse una qualche parte attiva nelle percezioni sensibili: “Platone non sente mai l’io come il centro di una sfera trascendente di azione”, sostiene Spengler. Inutile dire che ci sarebbe assai da ridire su questa visione riduzionistica dell’uomo antico, classico, greco-romano, da tutti i punti di vista. Non abbiamo la possibilità di farlo in questa sede, ma credo sia evidente: uno dei punti più deboli del sistema spengleriano, anche considerando che, come vedremo, questa “staticità” e “antistoricità”, come la intende lo scrittore tedesco, non è di certo neppure accostabile all’immutabilità metafisica dell’Essere.

Dato che l’anima faustiana è incentrata sul concetto di volontà, possiamo dedurne che tra i due termini di quella dicotomia essa, per Spengler, sia superiore, o comunque abbia prevalso sulla ragione? Inoltre, questo spirito attivistico fondato sulla volontà, farebbe pensare all’idealismo, soprattutto a quello più qualitativamente significativo, come riconobbe anche Julius Evola, cioè quello germanico, rispetto alle sue derivazioni successive, molto meno apprezzate dal barone: ci riferiamo al neo-idealismo “all’italiana”, quello di Croce e, soprattutto, di Gentile, che pure in molti negli ambienti della destra identitaria viene apprezzato, proprio come base filosofica per una visione propositiva e attiva verso il mondo, una disciplina realizzatrice, la sostanza di uno spirito in lotta con il proprio tempo.

Circa il primo punto, sì, la Volontà per Spengler è l’elemento caratterizzante dell’anima occidentale, in qualche modo prevalente su quello “razionale”. Lo scrittore tedesco ha sottolineato che con il razionalismo ed il giacobinismo si tentò di far prevalere la “dea ragione” sulla volontà, ma che quest’ultima avrebbe comunque ripreso il sopravvento: “già il diciottesimo secolo, soprattutto con Nietzsche, doveva scegliere la più forte formula voluntas superior intellectu che noi tutti abbiamo nel sangue” (“intelletto” da intendersi sempre in senso profano quale sinonimo di ragione). Nietzsche: non a caso Spengler ha parlato anche di volontà di potenza, come abbiamo visto poc’anzi parlando dell’estendersi verso una lontananza come azione. E ancora, Spengler cita anche Schopenauer: “Schopenhauer, l’ultimo grande filosofo sistematico, l’ha riportata alla formula: Il mondo come volontà e come rappresentazione, e non è stata la sua metafisica, ma soltanto la sua etica a dichiararsi contro la volontà”.

Kant, Fichte, Schelling, Hegel: la lunga marcia dell’Idealismo tedesco

Va precisato anche per il concetto di “Volontà”, Spengler si mantiene fedele al principio di “relatività concettuale” di cui parlavamo: “Se psicologi arabi, come per esempio Murtada, parlano della possibilità di diverse «volontà», di una «volontà» che è connessa all’agire, di un’altra «volontà» che è autonoma e che la precede, di una «volontà» priva di qualsiasi relazione con l’azione e che essa sola genera la «volontà», e via dicendo, per il che devesi considerare il senso più profondo della parola araba — con ciò ci troviamo evidentemente dinanzi a una imagine dell’anima di struttura affatto diversa da quella faustiana”.

Quanto all’accostamento con l’Idealismo (frutto d’altronde, nella sua migliore configurazione, come giustamente dicevi, della filosofia germanica), mi sembra molto calzante: credo che il senso ultimo che Spengler attribuiva all’elemento volontaristico dell’uomo faustiano sia rapportabile a quello della filosofia idealistica: superamento, dialettica (peraltro, anche il rapporto dialettico tra volontà e ragione può vedersi in questa ottica). Al riguardo Spengler ha scritto dei passi chiarissimi, come questo: “Attività, decisione, autoaffermazione — ecco che cosa si esige; la lotta contro le comode superficialità della vita, contro le impressioni del momento, del vicino, dell’afferrabile, del facile, la realizzazione di ciò che ha una universalità e una durata, che collega spiritualmente passato e avvenire, è il contenuto di ogni imperativo faustiano, dai primissimi giorni del goticismo fino a Kant e a Fichte e, di là da questi pensatori, fino all’ethos delle gigantesche manifestazioni di potenza e di volontà dei nostri Stati, delle nostre economie e della nostra tecnica. Il carpe diem, l’essere sazio del punto di vista antico è l’antitesi completa di ciò che Goethe, Kant, Pascal e gli stessi liberi pensatori riconobbero come valore: l’essere attivo che lotta, che supera”. Il riferimento a Fichte, e all’essere attivo che lotta, che supera, sono segnali chiari di una visione dialettica, idealistica, con basi anche in Nietzsche stesso, come abbiamo visto. Altrove, Spengler ha parlato di una “tendenza costante della metafisica (termine sempre da intendersi cum grano salis) a far dipendere funzionalmente le cose dallo spirito per mezzo di opposizioni di concetti come quelle fra fenomeno e cosa in sé, fra volontà e rappresentazione, fra Io e non-Io, in deciso contrasto con la dottrina protagorea dell’uomo non come creatore, ma solo come misura di tutte le cose”: opposizioni di concetti (quindi il dualismo di cui si parlava) e uomo come “creatore” (contrariamente a quello antico) sono altre espressioni significative.

Sembra, in effetti, trattarsi di quell’ontologia della prassi che, per Gentile, attualizzava l’idea traducendola in fatto storico. E’ il trionfo del divenire, della storia che “si fa”, dello storicismo (e, d’altronde, Spengler è annoverato tra i rappresentanti principali dello storicismo classico novecentesco, insieme ad autori quali Weber o Simmel), del “pensare” che vince sul “pensato”, dell’energia che plasma la materia inerte, e quindi anche del fluire della vita, della metamorfosi incessante.

Da notare che per Spengler l’anima apollinea sarebbe sintetizzata dal carpe diem oraziano, e tutto questo è un riduzionismo molto semplicistico: torniamo a quanto dicevamo prima sull’interpretazione limitante del mondo antico. E cosa ne è della via dell’azione rappresentata ad esempio dall’animus pugnandi, tipica di tutta l’antichità indoeuropea, Grecia compresa? E lo spirito di Sparta? E il facere tipico della mentalità romana, che mi sembra fosse molto più “attiva”, propositiva, creativa che contemplativa, e non soltanto nella Roma imperiale delle opere architettoniche ed ingegneristiche (nella quale, come abbiamo visto, l’anima apollinea si sarebbe secondo Spengler già offuscata) ma anche nella Roma delle origini, che non restò di certo confinata nelle proprie terre, ma si spinse negli spazi, animata da una forza metastorica che la animava?

Quindi abbiamo capito che nel sistema spengleriano l’attivismo dell’anima cd. faustiana o gotica era visto come “motore” della civiltà occidentale, anziché come causa prima della sua decadenza, e questo è un tratto saliente. Ma qual è il rapporto corretto tra l’anima faustiana e l’occidente? Quell’anima è l’essenza della vera civiltà occidentale, come reputava Spengler, o rappresenta l’essenza del suo tratto decadente?

Questo è, secondo me, un altro dei punti problematici dell’analisi spengleriana. Un conto è parlare di un accesso alla trascendenza tramite una via dell’azione, più tipica delle civiltà occidentali, europee (soprattutto antiche, contrariamente all’interpretazione spengleriana), o tramite una via della contemplazione, più propria alle civiltà orientali (dove peraltro l’elemento dell’azione, tramite ad esempio la guerra, il combattimento, non è di certo assente, come dicevamo).

Faust e Mefistofele, di Anton Kaulbach

Altro è, invece, confondere questo concetto, cioè quello dell’azione come via dello spirito, con l’anima faustiana, che Evola e gli altri autori della Tradizione considerano, notoriamente, come una degenerazione proprio di quella via: l’azione impersonale tipica della spiritualità europea delle origini diventa nel mondo moderno e contemporaneo sterile attivismo individualistico, frenesia, velocità, incostanza, un moto continuo senza contenuto né meta, se non entro i ristretti orizzonti della vita biologica, istintuale, materiale, comprese le sue accezioni laburistiche. Quest’impulso incostante, irrazionale, quest’attivismo frenetico, sono uno dei segnali della decadenza dell’occidente, in cui si sostanzia il concetto di anima faustiana, almeno per come lo intendiamo noi. In effetti, se pensiamo poi al personaggio “luciferino” e dannato da cui Spengler ricava la denominazione dell’anima occidentale, il dottor Faust, che di fatto vende l’anima al Diavolo, la connotazione in senso negativo sembra in re ipsa; anche l’aggettivazione “gotica” è intesa da Spengler, come vedremo, per analogia con le caratteristiche dell’architettura gotica, con un riferimento allo slancio verso l’alto dell’ “Io”, da considerare quasi come una sfida al cielo in senso babelico che come un’aspirazione al divino (nel significato effettivo che ebbe quello straordinario filone artistico-architettonico medievale).

Ciò non toglie che Spengler intendesse l’attivismo e quindi l’anima faustiana in modo diverso, come abbiamo visto, in quel senso più “costruttivo” e “formativo” tipico dell’idealismo e dello storicismo (anche se non di certo in modo impersonale, come vedremo), anche se tutto questo si pone in termini assai problematici, anche per via di quanto dicevano sulla confusione tutta nordica in materia di anima, spirito, ragione, ecc., e delle implicazioni che ciò può avere anche in termini concezioni evoluzionistiche e simili.

A proposito di questo discorso, connesso al fluire della vita, al divenire, alla metamorfosi incessante, possiamo dire che tutto questo ci riporta in buona parte a quanto dicevamo a proposito dell’aspetto naturalistico e panteistico della sensibilità nordica, elemento che si sposa alla perfezione col concetto di metamorfosi delle forme. Al riguardo, Stefano Zecchi, nella sua famosa introduzione al “Tramonto”, ha scritto: “Un meraviglioso apparire e scomparire di forme organiche, un inesauribile formarsi e trasformarsi, come il movimento eterno che gli (a Spengler, n.d.r.) suggerivano le Madri, divinità della metamorfosi del tutto, evocate da Goethe nella celebre scena del Faust”. Questo mi consente anche di ricordare che alla base del panteismo, del concetto di terra e sangue, di metamorfosi, incessante trasformazione, ecc. c’è il substrato materno della vita, la civiltà delle Madri, il Matriarcato, come scriveva Zecchi e come ci ha ben spiegato Julius Evola, richiamando Bachofen.

segue nella terza parte

Nell’immagine in evidenza, una celebre foto di Oswald Spengler rielaborata da Antonio Pires



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