Pochi giorni fa abbiamo annunciato la pubblicazione de “L’epica dei cieli e dei mari“, antologia di scritti di Julius Evola sul significato superiore dell’esperienza del volo e della navigazione, curata direttamente da RigenerAzione Evola per Cinabro Edizioni .
Nella sezione del libro riservata alle esperienze personali di Evola, campeggia una piccola “perla”, Visione di Capri (pubblicata su L’Italia Marinara del dicembre 1932 e poi riproposta su Il Corriere Padano, nell’aprile dell’anno successivo, con l’intitolazione Sosta a Capri), per il cui contenuto, veramente particolare, rinviamo i lettori direttamente all’acquisto del libro. Però, è interessante proporre altri due articoli che rappresentano, di fatto, il seguito ed il completamento dell’articolo sopra citato, e che furono ospitati sempre su Il Corriere Padano. Si tratta di Isola pagana (settembre 1933) e Mito e realtà a Capri (ottobre 1933). Articoli dove Evola non si sofferma in particolare sul tema del significato superiore e delle implicazioni spirituali del navigare e dell’affrontare il mare aperto, ma in cui presenta altre interessanti riflessioni a latere.
Evidentemente l’atmosfera e le caratteristiche di Capri, dove Evola soggiornò dopo essere stato a lungo sulle Alpi tirolesi, come lui stesso scrive (anche se non sappiamo se ebbe modo di tornare più volte sulla celebre isola), lo colpirono particolarmente, stimolando in lui delle fondamentali riflessioni in termini di dottrina tradizionale, in particolare nel contrapporre “il polo maschile e il polo femminile della natura, l’ascendere e l’evadere; la voluttà dell’«essere» e la voluttà del «soffrire»; il Nord e il Sud, in senso non geografico ma interiore, metafisico“. Anche se, osservava, anche ironicamente, Evola, l’atteggiamento ormai totalmente indifferente, egoistico, cieco ed autoreferenziale proprio dell’edonismo turistico, faceva sì, già all’epoca (e parliamo degli anni Trenta), che neppure il richiamo estenuato, “patetico”, dionisiaco-panteistico, tipico di certo naturalismo prettamente sensuale e tellurico – non escludendo la presenza di residui psichici e influenze erranti legati ai precedenti culti misterici matriarcali – riuscisse più ad esercitare alcun effetto sui visitatori dell’isola.
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di Julius Evola
tratto da “Il Corriere Padano”, XI, 28 settembre 1933
È una sensazione personale contingente di chi, come me, viene di colpo a Capri dopo mesi passati fra i ghiacciai dell’Alto Tirolo, ovvero è qualcosa di più oggettivo e di più reale?
Nell’isola dell’«amore meraviglioso» ancora una volta mi vien da assistere ad una strana liquidazione di ogni romanticismo, non per una posa, ma nella constatazione di un effettivo stato di fatto interiore.

Capri al tramonto (immagine tratta liberamente e modificata ritagliando una porzione della parte inferiore da pixabay.com – free simplified pixabay license; author: andi_peh)
Dinanzi agli incanti di ogni genere di questa natura mediterranea si ha una sensazione curiosa: quella del trucco. Si direbbe che il tutto — uomini e cose — sia «truccato», cioè obbedisca ad una intenzione, all’intenzione di commuovere ad ogni costo, e sia disposto così per gabbare l’ingenuo, per prendere in giro, insomma, chi vi crede e chi vi cade. Con infinitamente più finezza, certo, – ma quasi come in un equivalente di quelle canzonette napoletane o di quei pezzi d’opera italiana ultrapatetici ammanniti «con sentimento» per le corde tenere di qualche bestione d’Oltralpe.
E ciò non vale soltanto per quel che qui — sia pure naturalmente — sa di convenzionale dalle mille miglia: il chiaro di luna sul mare che rabbrividisce e trasmuta come una cosa viva fra rocce pallide e argentee — le strettissime viuzze di un villaggio algerino che lasciano vedere solo il cielo stellato, percorse da zaffate di profumi violenti, con prospettive di giardini e di verande illuminate attraverso misteriosità di griglie e cancelli — le ore azzurre vespertine fra le alture presso il Castello di Barbarossa, Anacapri o il Salto di Tiberio, con voci sparse, perdute, appassionate, con echi lontani di mandolini o di grammofoni e con la lenta stanchezza di grandi nubi grigio-dorate sull’orizzonte. Non è solo di questo che si tratta: anche là dove la natura caprese ha la maggiore «purità» — massimamente in quella generale, espressionistica «mattutinità» e «aerità» che dà il senso dell’incorporeo e del senza-peso, soprattutto nelle prime ore dell’alba, sul mare latteo e vaporoso all’orizzonte e, vicino, immoto, terso e trasparente fino all’inverosimile — anche in ciò si ha la sensazione di una «intenzione», di qualcosa che, nel rendere estatica l’anima, finisce con l’attentare allo spirito.
Le Alpi e Capri — potremmo dire: il polo maschile e il polo femminile della natura, l’ascendere e l’evadere; la voluttà dell’«essere» e la voluttà del «soffrire»; il Nord e il Sud, in senso non geografico ma interiore, metafisico.
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La purità della natura alpestre, ciò che ce la fa amare, e la sua indifferenza rispetto all’umano, è la sua grandezza senza voce e senza intenzione, fatta soltanto di potenza. Essa non vuole nulla da noi, non ci parla ma, semplicemente, è. Sui ghiacciai, nelle notti siderali vissute dai rifugi alti del Monte Rosa, del Cervino o del Gross-Glockner vi è ugualmente «contemplazione», oblio di sé, incapaci di sentirsi come quella piccola e spesso sudicetta cosa che è l’«Io», ma ciò non è fuga, bensì ritrovamento, non è sentimentalità, ma contatto col primordiale. Si trova naturale non essere sé stessi, ma al fondo di questa esperienza vi è una sensazione di stabilità, di semplicità, di pura, libera affermazione. L’aderenza del «fuori» al «dentro» non altera, non intride di pathos, ma libera. Lo spirito riconosce sé stesso nei due grandi simboli costituiti dalle altezze gelate e dalle distanze stellari.
Il clima del Sud, e specificamente questa famosa mediterranea «aria di Capri», tanto spesso di una immobilità stupefatta e di un calore subdolo direi quasi animale, è invece il clima di una contemplazione che significa soprattutto rilasciamento e che in ogni modo propizia, o vorrebbe propiziare, il sopravvento dell’eros sull’ethos, dell’elemento anima sull’elemento spirito, destando una irrequietezza, un desiderio confuso e irresistibile di godere, di rispendersi in qualche modo: un desiderio di «passione», nel senso originario di questo termine.

Ninfeo della Grotta di Matermania (Metramagna) a Capri (immagine sotto licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 3.0 Unported, ripresa, nel rispetto della normativa vigente, senza modifiche rispetto alla versione originale)
Oltre Tragara, uno dei punti panoramici classici di Capri, congiuntovi da un sentiero dirupato che si porta avanti per scalette, paretine di rocce pallide, quasi dolomitiche con pini e ginepri su insenature di un cobalto intenso, purissimo, lucente come smalto, vi è la cosidetta grotta di Metramagna (1). Il nome, probabilmente, è una corruzione di Meter Magna, cioè, in greco, Grande Madre. Si tratta di un grande antro sul libero mare ove, nell’epoca della paganità, si celebravano originariamente i Misteri della Grande Madre, della grande Dea pelasgica della Vita. Seduto sul limitare dell’antro presso ad un residuo di arcaica gradinata semicircolare, il mio pensiero – più che alla femminilità delle mie accopagnatrici, le quali visibilmente trovavano l’antro assai propizio – si riportava appunto al senso di quell’opposizione primordiale fra Nord e Sud, dell’elemento iperboreo e dell’elemento dionisiaco nella natura e nell’uomo, quali la stessa civiltà mediterranea antica la conobbe.
Ricordavo perciò la geniale intuizione di Bachofen circa lo scontro e la lotta, dietro le quinte della storia dall’antica Ellade, di due religioni, di due verità, di due morali: il culto tellurico, pelasgico-meridionale, delle Madri e il culto uranico, nordico-dorico, degli Eroi. Da una parte, la visione tellurica della vita, per la quale il principio supremo veniva concepito all’immagine di una madre – l’Alma Mater, la Madre della Vita – e secondo la quale tutto ciò chi è individuale è illusione, limite da dissolvere nell’émpito dionisiaco, nell’estasi della carne, nella promiscua dei sessi, nell’abbandono panteistico che restituisce lo spirito alle cose, gli uomini all’oscuro mistero della Terra, delle «Madri», ove la differenziazione più non esiste. D’altra parte, contro questo arcaico, forse atlantico culto mediterraneo, il nuovo culto dei conquistatori dorico-achei, degli Ariani discesi dal Nord, dalla favolosa terra degli Iperborei: il culto, che per principio non ha più la terra oscura, ma la virilità incorporea della luce solare; che per ideale non ha più l’estasi ma l’affermazione eroica, non la promiscuità, ma la differenza, non il ritorno nostalgico alla Madre natura, ma l’ethos di una calma insufficienza, di un dominio olimpico dei sensi e dell’anima: Nord contro Sud.
Spesso alle cose restan legate delle latenti «presenze». Forse l’anima pelasgica evocata a Capri dagli antichi Misteri della Madre nella grotta di Metramagna intride ancora questa chiara natura e fomenta le sue insidie. E forse un oscuro contatto con essa, compiutosi traverso le vie misteriose della subcoscienza, ha determinato fino a ieri quell’atmosfera di «paganità» che si raccolse nella celebrazione – in ville solitarie di esteti e pervertiti – di orge che ancora volevano conservare i caratteri di un’antica evocazione demonico-mistica.
Les dieux s’en vont (2). E gli uomini, del resto, ormai si son resi impassibili: sentono il trucco, son staccati e distanti, non si fanno più prendere, pensano ad altro. E tutta questa natura ha proprio l’aria di una amante liquidata che moltiplica disperatamente ogni risorsa per tentar di fascinare e trattenere ancora l’uomo. Ma è pena perduta, ed essa – quella natura – se ne accora.
Almeno, essa vorrebbe ancora anime romantiche che giuochino al Tristano e Isotta dinanzi ai suoi chiari di luna melliflui e modulati; essa vorrebbe che queste canzoni accorate, sperdute a mezz’aria, questi profumi, questi lunghi languori dei cieli pomeridiani valessero ancora a smodernizzare ed a spossare fino all’intimo dell’anima. Fra l’aerità delle sue alture, essa vorrebbe certamente degli Oscar Wilde in edizione aggiornata o delle ritmiche fanciulle semisvestite e infiorate in evocazioni estetico-simboliste su tema «Après-midi d’un faune» o «La Mer» (3), in veste di ondine fra gli scogli e gli sciacquii delle acque tersissime. Essa – questa natura di Capri – vorrebbe insomma che la si prendesse sul serio, che si badasse a lei, che ci si perdesse un poco e si amasse la voluttà del perdersi e del trapassare: per via di estasi, o almeno di amore o, infine – faute de mieux (4)– di vino.
Macché. Nichts zu Machen (5). Donne in calzoni e in unghie scarlatte, uomini in maglietta o in sandali pensano a tutt’altro. Nelle grotte più recondite han fatto dei bei passaggi in cemento armato con solide balaustre di ferro. Alcune, le han messe sottochiave. In altre, vi è un bravo funzionario in uniforme ad esigere il diritto d’ingresso. Le due «Marine» brulicano di sandolini e di ragazze in cerca di marito. Appaiono spesso dei bull-dogs e dei pechinesi meravigliosi. Dei motoscafi ritagliano scoppiettando le acque perlacee, ben coscienti di quel che essi vogliono. La coreografia dei costumi, in piazza, è il centro. In seconda linea, le gare di ballo e di tennis al Gran Hotel Quisisana.
E vi è chi si annoia. Vi è chi, tanto per fare qualcosa, ama. Vi è chi fa delle fotografie e chi beve al Tip-Tap. Vi è chi, con molta compostezza, passeggia e pranza, e un residuo di bohème russa che si ostina ad esser tale, che produce acquerelli locali e decorazioni, ma che non interessa più nessuno.
E gli spiriti pagani incorporei dell’«aria di Capri» non sanno proprio che cosa fare. Si sentono tristi e disoccupati e sanno bene che, d’altronde, altrove non troverebbero che di peggio.
Note redazionali
(1) La grotta di cui parla Evola, situata sul versante sudorientale di Capri, è meglio nota come Grotta di Matermania.
(2) trad. dal francese: “Gli déi se ne vanno”.
(3) trad. dal francese: “pomeriggio di un fauno” e “il mare”. Evola si riferisce, ironicamente, a due componimenti sinfonici di Claude Debussy (1862-1918), rispettivamente “Prélude à l’après-midi d’un faune” (“Preludio al pomeriggio di un fauno”) e “La Mer, trois esquisses symphoniques pour orchestre” (“Il mare, tre abbozzi sinfonici per orchestra”) o semplicemente, appunto, “La Mer“.
(4) trad. dal francese: “mancanza di meglio”.
(5) trad. dal tedesco: “niente da fare”.
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