Torniamo agli articoli di Julius Evola in materia di concezione dello Stato, pubblicati dal barone sul finire degli Anni Cinquanta, dopo gli approfondimenti degli Anni Trenta e gli articoli di stimolo politico del primo dopoguerra. Con questo scritto pubblicato nell’aprile 1959 su “Il Conciliatore”, Evola evidenziava brevemente da una parte gli aspetti più corretti, dal punto di vista tradizionale, della concezione dello Stato emersa durante l’esperienza fascista, e, dall’altra, quelli che, in quell’ottica, assumevano invece un carattere deviato. In tal senso, Evola spiega sinteticamente in che termini lo Stato totalitario e lo Stato Etico di matrice gentiliana non siano compatibili con il modello dello Stato organico, al pari di talune derive di tipo “naturalistico” e “prepolitico”, come le idee di “popolo”, “nazione” o “razza”, se non supportate e incanalate verso l’alto da principi d’ordine superiore.
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di Julius Evola
Tratto da Il Conciliatore, aprile 1959
Riprendendo il proposito, espresso nel nostro articolo pubblicato nel numero di febbraio, di precisare quelle idee essenziali che, affiorate nel fascismo, potrebbero essere assunte da una vera Destra, una volta rettificate e opportunamente integrate, vogliamo cominciare col considerare quel punto fondamentale che riguarda la concezione stessa dello Stato.
Il fascismo nacque notoriamente da una reazione, alimentata soprattutto dal migliore elemento combattentistico di fronte ad una crisi che era essenzialmente una crisi dell’idea stessa dello Stato, dell’autorità e del potere centrale.
L’Italia si trovava ancora sotto l’influenza delle ideologie, tutt’altro che ineccepibili, del periodo risorgimentale. Si presentava come uno Stato laico in cui l’influenza massonica era considerevole, con un mediocre governo demo-liberale, con una Monarchia depotenziata, cioè costituzionale e parlamentare, come uno Stato che nel complesso era privo di un «mito» nel senso positivo, cioè di una superiore idea animatrice e formatrice. Che una nazione in simili condizioni non fosse in grado di far fronte ai gravi problemi che le forze messe in moto dalla guerra e dal dopoguerra imponevano e di contrapporsi alle suggestioni sociali rivoluzionarie diffuse nel popolo dai movimenti sovvertitori di sinistra, ciò appariva ogni giorno più evidente.
Il merito del fascismo è stato anzitutto di aver rialzato, in Italia, l’idea di Stato, di aver creato la base per un governo forte, affermando il puro principio dell’autorità e della sovranità politica. In linea di principio, nella dottrina fascista ogni ideologia sia romantica che societaria e democratica fu superata; allo Stato fu riconosciuta una preminenza di fronte a popolo e nazione, cioè la dignità di un potere, solo in funzione del quale la nazione ha una consapevolezza, una forma e una volontà, e partecipa ad un ordine supernaturalistico. Il trionfo nel fascismo del trinomio «Autorità, Ordine e Giustizia» riprende indiscutibilmente la tradizione politica che formò ogni più grande Stato europeo. In più, il fascismo rievocò l’idea romana come superiore integrazione del «mito» del nuovo organismo politico, oltre che come ideale per la formazione del nuovo tipo di quell’uomo italiano, che avrebbe dovuto avere nelle sue mani il potere.
Tutto ciò, nel fascismo, è positivo, e il suo messaggio, ove un moto di ricostruzione nazionale si renda possibile da noi o in Europa, non ha bisogno di essere modificato. Si tratta solo di separare le deviazioni dal sistema.

Othmar Spann
La prima di queste deviazioni, dal punto di vista non già di una informe democrazia ma di una vera Destra, è il totalitarismo. Il principio di un autorità centrale inoppugnabile degenera, quando lo si affermi in un sistema che tutto controlla e che in tutto interviene, secondo la formula «Tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato». Tale formula può essere proclamata nel quadro di uno statalismo totalitario di tipo sovietico, date le premesse materialistiche, meccanicistiche e collettivistiche di esso: non in un sistema di spirito tradizionale, che si basa sui valori spirituali. Lo Stato tradizionale è organico, ma non totalitario. È differenziato e articolato, ammette zone di parziale autonomia. Coordina e fa partecipare ad una unità superiore forze di cui però riconosce la libertà.
Appunto perché forte, non ha bisogno di una meccanica centralizzazione. Per usare una felice formula di Walter Heinrich, omnia potens, non omnia facies, cioè detiene un potere assoluto al centro, che può e deve far valere senza intralci in caso di necessità – ma non si intromette dappertutto, non si sostituisce a tutto, non vuole un irregimentamento da caserma né un conformismo livellatore al luogo di libero riconoscimento e di lealismo; non procede a impertinenti e ottusi interventi del pubblico nel privato. L’imagine tradizionale è quella di un naturale gravitare di parti, o unità parziali, intorno ad un centro il quale comanda senza costringere, agisce per prestigio e per una autorità che può, sì, ricorrere anche alla forza, ma che se ne astiene il più possibile.
Chi, a differenza di quei giovani elementi i quali del fascismo conoscono solo il mito, ha vissuto nel periodo fascista, sa la distanza che purtroppo è esistita fra la prassi del regime e questo ideale del vero Stato. Così deve considerarsi come una aberrazione del sistema anche la concezione del cosidetto Stato etico, con la quale il clima di uno Stato si riduce a quello di un educatorio o riformatorio, e l’ideale del capo a quello di un antipatico e invadente pedagogo. I rapporti che esistono fra sovrani e sudditi, e anche fra capi e gregari su di un piano virile e combattentistico, rapporti basati sulla adesione libera e sul rispetto reciproco, con non-ingerenza in ciò che è soltanto personale di là da quanto è oggettivamente richiesto dai fini dell’azione comune, danno bene il senso della direzione opposta, cioè di quella positiva.
Così tutto ciò che nel fascismo ha avuto il carattere di un pedagogismo di Stato e di una pressione sul piano, non politico e oggettivo, ma della vita morale personale, va respinto. Esempio tipico fra tutti: quello della cosiddetta «campagna demografica» fascista, odiosa anche quando non si fosse basata su di un principio assurdo, come quello che «il numero è potenza»; principio contraddetto da tutta la storia a noi nota, il «numero» essendo sempre stato assoggettato da piccolo gruppi di popoli dominatori, gli imperi essendo stati creati da questi gruppi e non già dal traboccare demografico di masse di paria e di diseredati riversantisi sui territori dei più ricchi, non avendo altro diritto al di fuori della loro indigenza e della incontinenza procreativa.
Altre distorsioni nello stesso senso potrebbero essere facilmente indicate, nella prassi fascista: comprendendovi certe preoccupazioni di «piccola morale» (di sapore non diverso da quelle attuali democristiane) prendenti il posto di quelle della «grande morale», di cui tuttavia, in pari tempo, non mancarono gli esempi.
Diciamo dunque che dal punto di vista di una vera Destra né l’idea «totalitaria», né quella dello «Stato etico» (nei termini dianzi indicati), né il controllo della vita puramente personale, né – passando ad un altro dominio, in ordine al quale nell’attuale democrazia le cose non stanno in modo molto diverso – quello risolventesi in una ingerenza statale ipertrofica nei processi economici in casi non giustificati oggettivamente da fenomeni di disordine, di pirateria e di inefficienza, possono essere ripresi dal retaggio del fascismo: mentre mantengono tutto il loro valore la concezione organica, il puro, distaccato principio dell’autorità, quella certa «liturgia del potere» che però, in via normale, s’incontra soprattutto nel simbolo monarchico.
Su questo punto specifico – e sul problema della «diarchia costituzionale» nel periodo fascista – torneremo nel nostro prossimo articolo. Per ora, aggiungeremo solo che, a nostro avviso, è ulteriore elemento positivo quel che nel fascismo si era annunciato come tendenziale distanza nei riguardi della ideologia di un nazionalismo facente appello a semplici sentimenti di patria e di popolo. In realtà, in una rigorosa dottrina politica di Destra si deve tener fermo al carattere naturalistico e, in un certo modo, prepolitico che hanno gli stessi sentimenti di patria e di nazione (carattere prepolitico non diverso da quello del sentimento di famiglia) di fronte a ciò che, invece, unisce in base a una idea e ad un simbolo di sovranità. Benché solo accennato, questo orientamento, derivato dall’idea della realtà e della trascendenza dello Stato, esisteva nel fascismo, tanto è vero che esso in Germania fu sentito spessissimo come l’elemento distintivo di fronte alla ideologia nazionalsocialista, nella quale l’accento cadeva piuttosto sul popolo-razza e sulla cosiddetta Volksgemeinschaft. Queste considerazioni appaiono poi tanto più opportune in regime democratico, ove si consideri quanto sia facile abusare dell’appello a «patria» e a «nazione» mettendo mano ad una retorica parolaia e mendace: lo si vede oggi nel patriottismo ostentato, a fini tattici e elettorali, perfino da partiti di Sinistra che nella loro essenza tendono non solo all’anti-Stato ma anche ad una negazione dell’eventuale contenuto superiore raccoglibile in un purificato nazionalismo.
Ma un simile ordine di idee è tanto evidente per chi abbia una mentalità tradizionale, quanto è arduo andare, su tale direzione, di là dalle stesse posizioni del fascismo, integrativamente, nel senso di una pura idea di Destra, considerando il clima generale di demagogia e di disfacimento nato dalla catastrofe militare dell’ultima guerra.
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