Dopo aver esposto le obiezioni di Evola all’idealismo classico di matrice tedesca, ed aver illustrato i punti salienti della ricostruzione evoliana del cd. Individuo Assoluto, il dominus che incarna i princìpi dell’Idealismo Magico, veniamo ora a riassumere i punti fondamentali della critica di Evola all’attualismo, vale a dire la variante all’idealismo tedesco elaborata da Giovanni Gentile, il principale esponente del neo-hegelismo italiano insieme a Benedetto Croce. Per una esposizione completa della critica evoliana all’elaborazione del filosofo di Castelvetrano, rimandiamo al mini-saggio che Evola pubblicò su “Ordine Nuovo” nel luglio-agosto 1955, da noi ripubblicato a puntate, “Perchè Gentile non è il nostro filosofo“.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)
Il giudizio di Evola sull’impianto filosofico gentiliano fu, com’è noto, fu assolutamente negativo: l’attualismo, infatti, avrebbe accentuato ed aggravato in modo irreparabile e dannoso i difetti congeniti dell’idealismo tedesco. Rispetto alla complessità ed alla ricchezza sostanziale di quest’ultimo, in particolare, le derive proprie all’attualismo gentiliano fecero sì che quest’ultimo apparisse agli occhi di Evola come una vera e propria follia: “Bisogna non aver studiato direttamente (come noi l’abbiamo fatto) i grandi sistemi dell’idealismo trascendentale tedesco, bisogna non averne conosciuto i problemi immanenti che condussero, ad esempio, di là da Hegel, al ‘secondo’ Fichte e al ‘secondo’ Schelling, a Schopenhauer e allo stesso von Hartmann, per non rendersi conto che Croce e Gentile non sono che due sparuti epigoni, il cui unico merito è di aver condotto all’assurdo le posizioni dell’idealismo assoluto, fino ad un vero e proprio collasso speculativo” commentava Evola [1].
Evola parlò dell’attualismo come di una “riduzione all’assurdo” dell’idealismo tedesco, poiché nel sistema gentiliano l’Io, da soggetto conoscente o pensante, punto centrale di riferimento dell’idealismo, diventava, come “Logo” o “autoconcetto” o “atto puro”, il soggetto creatore della realtà e di ogni contenuto dell’esperienza umana. Infatti, osservava Evola, “dall’idea abbastanza banale, che ci si trova chiusi nel cerchio di ciò che, in un modo o nell’altro, io penso, sperimento o suppongo, ecco che si passa all’idea che l’Io, quasi come un Dio, è il libero, volontario creatore di ogni contenuto di una tale esperienza”[2].
Un conto è dire, come sostanzialmente avviene nell’idealismo classico, che il percepito o il rappresentato non esiste fuori dall’atto del percepirlo o rappresentarlo da parte del soggetto agente (“il mondo è la mia rappresentazione”), e quindi identificare oggetto conosciuto ed oggetto esistente, altro conto è invece dire che quel che il soggetto percepisce l’ha anche “posto”, liberamente e volontariamente, come avviene nella ricostruzione gentiliana: l’Io da soggetto conoscente diventa il soggetto che ha liberamente posto, e quindi creato, non soltanto quel che percepisce ma anche sé medesimo (“autoctisi”), attraverso un oggetto che è condizione necessaria della sua attività e non può essere separato da essa. In effetti per Gentile la coscienza è “sintesi di soggetto e oggetto”, nella quale è il primo termine-concetto che “pone” il secondo.
Con Gentile veniva quindi soppressa la dialettica hegeliana del pensato (il cui presupposto fondamentale, ricordava Gentile, “è la realtà o verità tutta quanta ab aeterno determinata in guisa che non sia più concepibile una determinazione nuova, come determinazione attuale della realtà”), a beneficio esclusivo della dialettica del pensare, quella del pensiero attivo e “vitale”, in cui ogni componente oggettivistica, statica, inerte (come ad esempio le strutture per categorie fissate in modo universale e rigido-astratto) andava eliminata, per lasciare un’assoluta libertà al vivente “dialettismo” del concreto atto del pensiero, che per Gentile costituiva la ricca, vera e inesauribile “inquietezza del pensare”. Tutto questo avrebbe comportato di fatto, come osservava Evola, lo svilimento della civiltà dell’Essere e l’esaltazione delle società dell’indefinito divenire, in cui tutto sarebbe affidato ad un “divenirismo” ad oltranza, fondato su continui incessanti superamenti dialettici, senza una meta definita né definibile.

Benedetto Croce e Giovanni Gentile, teorici del neoidealismo italiano
Evola osservava ulteriormente come vi sono una infinità di cose che accadono, ma che il soggetto agente non vuole né desidera: come potrebbe essere giustificato tutto ciò nell’ottica gentiliana? Per queste ipotesi, Gentile sostenne che il soggetto non vuole determinate cose in quanto “soggetto empirico” e “volontà astratta”; invece le vorrebbe perfettamente in quanto Io-atto-puro, nella cui “volontà concreta” e nella cui “storicità” il reale e il voluto, l’atto e il fatto farebbero tutt’uno. Celebre è l’esempio proposto da Evola circa il gentiliano “messo alla tortura”: egli “dovrebbe riconoscere che la sua ‘volontà concreta’ è quella di chi lo tormenta, mentre la sua volontà che si ribella e patisce sarebbe solo del suo io empirico e ‘astratto’, solo per il quale la realtà può esser diversa dalla volontà” [3].
Alla luce di quanto esposto, per Evola l’attualismo gentiliano sarebbe sfociato in un creazionismo solipsistico, conchiuso, surreale, fondato su un soggettivismo diveniristico ad oltranza e su un rigetto quasi patologico verso ogni forma avente anche soltanto lontanamente un carattere oggettivo, statico, immutabile. In quanto tale, si trattava di una costruzione da rigettare totalmente: anziché correggere le problematiche connesse all’idealismo, essa le avrebbe infatti condotte alle estreme, irreparabili conseguenze.
Come commentò Evola, anziché innalzare l’individuo e condurlo a superare i propri limiti, l’attualismo gentiliano avrebbe pertanto, al contrario, “derealizzato l’Io”, proponendo solo un cieco attivismo, un confuso panteismo, “un’idolatria che non esita a vilipendiare tutto ciò che può avere valore di virile autonomia e di aristocratica tenuta dell’anima”.
Note
[1] J. Evola, “Gentile non è il nostro filosofo”, in Ordine Nuovo, a. I, n. 4-5, luglio-agosto 1955.
[2] J. Evola, cit..
[3] J. Evola, cit..
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