In linea con le tematiche di recente affrontate circa esoterismo, essoterismo e religiosità indoeuropea, dopo alcuni contributi sul monoteismo a firma di Schuon e Guénon, presentiamo, a partire da oggi, un importante approfondimento del professor Claudio Mutti, diviso in due parti, che dapprima affronta il tema dal punto di vista della filosofia greca, per poi passare all’ambito mitologico, prima di concludere con un’analisi del cosiddetto “monoteismo solare”. Il tutto, con alcuni significativi agganci alla Tradizione Islamica.
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di Claudio Mutti
prima parte
“Che il Dio sommo sia unico, senza inizio né prole naturale in quanto Padre grande e magnifico, chi potrebbe essere tanto stolto e dissennato da negare che sia cosa certissima? Le manifestazioni della sua potenza, diffuse nell’universo creato, noi le invochiamo con molti nomi, poiché tutti evidentemente ignoriamo il vero nome di Lui”
(Massimo di Madaura)
Se per “mondo antico” intendiamo quello di cultura greca, in che misura si può parlare, se non proprio di “dottrina dell’unità divina”, di una visione tendenzialmente unitaria del divino? Noi infatti siamo abituati ad attribuire ai Greci una forma religiosa che, essendo caratterizzata dal culto di più divinità, viene definita come politeista. Questo termine, che risale al greco di Filone d’Alessandria[1] (30 a.C. – 45 d.C.), fu introdotto in francese da Jean Bodin nel XVI secolo[2], all’inizio di un periodo in cui si formarono termini come politeismo, monoteismo, panteismo, ateismo, teismo, deismo.

Ex pluribus Unus (immagine tratta liberamente e senza modifiche da pixabay.com (free simplified pixabay license; author: geralt)
Considerando i concetti di monoteismo e politeismo da una prospettiva più metafisica che religiosa, René Guénon ha sostenuto che “la dottrina dell’Unità, cioè l’affermazione secondo cui il Principio d’ogni esistenza è essenzialmente Uno, è un punto fondamentale comune a tutte le tradizioni ortodosse”[3]. Secondo tale argomentazione, “qualunque vera tradizione è essenzialmente monoteista; per usare un linguaggio più preciso, ogni tradizione afferma innanzitutto l’unità del Principio Supremo, da cui tutto deriva e da cui tutto dipende integralmente; questa affermazione, nell’espressione che riveste specialmente nelle tradizioni a forma religiosa, costituisce il monoteismo propriamente detto”[4].
Pertanto, proseguiva Guénon, il politeismo costituisce la “conseguenza di un’incomprensione di talune verità tradizionali, e precisamente di quelle che si riferiscono agli aspetti, o attributi, divini”[5]; e continuava dicendo che “simile incomprensione è sempre possibile in individui isolati e più o meno numerosi, ma la sua generalizzazione, che corrisponde allo stato di degenerazione estrema di una forma tradizionale in procinto di scomparire, è stata senza dubbio più rara di quanto abitualmente si crede”[6].
D’altronde si è potuto parlare, usando il termine “monoteismo” lato sensu, di un “monoteismo dei filosofi” (soprattutto in relazione a filosofi platonici e neoplatonici, ma anche stoici) ed anche di un “monoteismo pagano”. Pagan Monotheism in Late Antiquity [7] si intitola, ad esempio, il libro di due eminenti studiosi del Tardoantico che una ventina d’anni fa ha riaperto il dibattito sulla nozione di “monoteismo”, proponendo di applicarla ad ogni forma di pensiero filosofico o religioso fondato sull’idea dell’unicità del principio primo.
Orbene, tutti sappiamo che nel mondo di cultura greca questa idea è presente fin dagli esordi del pensiero filosofico. Nel VI sec. a.C., a Mileto, i filosofi della scuola ionica avvertirono l’esigenza fondamentale di individuare una realtà costante sotto i mutamenti e il divenire delle cose, per ridurre così il molteplice a unità. Per dirla con una parola greca che è entrata nel nostro lessico, si posero il problema di identificare l’ἀρχή, vale a dire il principio di tutto ciò che esiste.

Talete di Mileto in un volume di Diogene Laerzio (1761) (free image from wikipedia, author Flappiefh, licenza Creative Commons CC0 1.0 Universal)
Come è noto, Talete identificò l’ἀρχή con l’acqua e ritenne che il dio sia la mente che dall’acqua plasma tutte le cose. Secondo una testimonianza di Cicerone, “aquam dixit esse initium rerum, deum autem eam mentem, quae ex aqua cuncta fingeret”[8]. Una tesi, questa, che trova perfetto riscontro nel versetto coranico in cui Dio dichiara: “Wa ja‘alnā min al mā’i kulla shay’in hayy” (“E dall’acqua abbiamo tratto ogni cosa vivente”)[9].
Anassimandro, secondo quanto ci testimonia Teofrasto, sostenne che “principio ed elemento (ἀρχήν τε καὶ στοιχεῖον) degli enti è l’infinito (τὸ ἄπειρον), introducendo per primo questo nome di ‘principio’ (ἀρχή); ed affermò che questo non è né l’acqua né alcun altro dei cosiddetti elementi, ma una certa natura infinita (τινὰ φύσιν ἄπειρον), altra da essi, dalla quale nascono tutti i cieli e i mondi che in essi sono”[10].
L’aggettivo usato da Anassimandro, ἀπείρων, ἄπειρον, può essere messo in relazione con πέρας, “estremità, limite”, per cui si applica a ciò che è “privo di limiti”; anche facendolo derivare dalla radice dei verbi πείρω e περάω (“attraversare”), si ha il significato di “non attraversabile, inesauribile”, cosicché l’ἄπειρον è l’infinito.
Anassimene individuò l’ἀρχή in un principio da lui chiamato ἀήρ o πνεῦμα (aria, soffio, spirito), dal quale derivano “tutte le cose che furono, che sono e che saranno, ed anche gli dèi e le cose divine”[11].
Senofane di Colofone (565-457), l’aedo vagante al quale Aristotele attribuisce la fondazione della scuola eleatica, non solo rigettò la concezione antropomorfica degli dèi, ma affermò esplicitamente l’unicità del dio supremo: “Un solo dio (εἷς θεός), il più grande tra dèi e uomini, / né per la figura né per il pensiero simile ai mortali”[12].

Busto di Parmenide (freee image from wikipedia commons, author Sergio Spolti, Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license)
Per quanto riguarda Parmenide, l’interpretazione teologica, proposta e riproposta in forme diverse[13], ha identificato col divino Uno l’Essere parmenideo, che è eterno, immutabile, indivisibile, perfetto, senza principio né fine. In un frammento del poema di Parmenide infatti si legge: “Vi sono segni / moltissimi che l’essere è ingenerato (ἀγένητον) e imperituro (ἀνόλεθρον); / è infatti integro (οὐλομελές), immobile (ἀτρεμές) e senza un termine a cui tenda (ἀτέλεστον); non era e non sarà mai [con l’esclusione del passato e del futuro l’assoluta presenza dell’essere, che si esprime nella forma verbale ἔστι (‘è’), viene liberata da ogni aspetto temporale, perché è ora [nell’eterno presente], tutto insieme (ὁμοῦ πᾶν), uno solo (μοῦνον), / continuo (οὐλοφυές)”[14]. Secondo una testimonianza del filosofo bizantino Simplicio (490-560 circa), Parmenide avrebbe indicato come “unica causa efficiente, comune a tutte le cose, ‘la dea che sta in mezzo al tutto’ e che è causa di ogni generazione”[15].
In seguito Eraclito di Efeso individuò il principio eterno della molteplicità nel Logos: Pensiero regolatore del divenire universale, Legge che tutto penetra e governa. Alcuni frammenti eraclitei presentano il fuoco come principio divino animatore del cosmo; questo fuoco è simbolo del Logos, nonché principio di creazione e distruzione.
La concezione eraclitea verrà successivamente rinnovata dagli Stoici, per i quali il Logos è la divina Ragione che compenetra il mondo, lo anima e lo dirige.
Se volessimo proseguire questa sintetica rassegna, dovremmo citare la nozione platonica di Sommo Bene, quella aristotelica di Motore immobile e così via, per mostrare come l’unità e unicità del Principio di tutto ciò che esiste sia stata affermata, in termini e forme diverse, dalla filosofia greca, la quale a sua volta ha trasmesso tale concetto in ambito romano.
Infatti Cicerone definisce la Causa prima come “ille princeps deus, qui omnem mundum regit”, ossia “il Dio sovrano, che regge tutto il mondo”[16]; dove l’epiteto princeps, attribuito a deus, non indica il “primo” di una serie, ma la guida sovrana del mondo.
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È interessante verificare se un punto di vista analogo non sia per caso rintracciabile anche in ambiti della cultura greca diversi da quello propriamente filosofico. A prima vista appare improbabile che forme culturali come la poesia epica o la tragedia, o la stessa teologia di Stato, abbiano potuto consentire l’espressione di una visione difficilmente riducibile ai termini di un politeismo puro e semplice.
Prendiamo in considerazione l’Iliade, dove compaiono tutti gli dèi e le dee dell’Olimpo, spesso in lotta fra loro, perché alcuni sono schierati a fianco degli Achei, altri a fianco dei Troiani; tuttavia non mancano, nell’Iliade, episodi che manifestano una visione in cui la molteplicità delle figure divine viene ricondotta ad un superiore principio unitario. Ad esempio, nel libro VIII troviamo un brano che costituisce il più antico documento greco relativo all’argomento di cui ci stiamo occupando. Sulla più alta cima dell’Olimpo Zeus convoca il concilio degli déi ed enuncia solennemente il divieto di partecipare alla battaglia, divieto al quale tutti dovranno sottostare. Oltre a formulare una terribile minaccia di ritorsione nei confronti dell’eventuale trasgressore (che verrebbe scagliato nelle profondità del Tartaro), Zeus lancia una sfida con cui intende mettere in evidenza la sua schiacciante superiorità su tutti gli dèi:
“Orsù dunque, provatevi, dèi, perché tutti possiate vedere;
fate pendere dal cielo una catena d’oro
e tutti quanti attaccatevi, dèi e dee:
ma non potrete tirare dal cielo sulla terra
Zeus, ispiratore supremo (ὕπατος μήστωρ), neppure se vi affaticaste moltissimo.
Invece, qualora io volessi tirare sul serio,
vi tirerei su con la terra e col mare,
e poi legherei la catena a una cima d’Olimpo
e tutto rimarrebbe sospeso.
Tanto io sono al di sopra degli dèi e sono al di sopra degli uomini” (τόσσον ἐγὼ περί τ’ εἰμὶ θεῶν περί τ’ εἴμ’ ἀνθρώπων) [17].
Qui viene affermato, nei termini tipici del linguaggio mitologico, il carattere assoluto della potenza di Zeus, la quale non può essere superata e sopraffatta nemmeno da tutta quanta la potenza di cui dispongono dèi e dee messi insieme.

L’Agamennone di Eschilo in una stampa di Adolfo De Carolis (da “Le tragedie” di Eschilo) (free from wikipedia commons)
Un’altra esplicita affermazione della potenza assoluta di Zeus è presente nell’Agamennone di Eschilo, dove il Coro, dopo avere rievocato l’inizio della spedizione contro la città di Priamo, innalza un inno solenne:
“Zeus, chiunque mai sia, se con tal nome
gli è caro esser chiamato,
con questo lo invoco.
Non posso paragonargli nulla,
tutto ponderando,
tranne Zeus (πλὴν Διός), se il vano peso derivante dall’angoscia
bisogna veramente gettar via”[18].
Il Coro dice che, per liberarsi dall’angoscia causata dalla predizione di Calcante – secondo cui grande sarebbe stato l’odio di Artemide verso gli Atridi – è necessario ricorrere a Zeus, soltanto a Zeus, perché non c’è nulla e nessuno che possa stare alla pari con lui: οὐκ ἔχω προσεικάσαι (…) πλὴν Διός. Ed anche qui viene spontaneo constatare che non sono molto diverse le parole di un passo coranico: “wa lam yakun laHu kufuwan ahad” (“e non c’è nessuno pari a Lui”)[19] si legge infatti nella Sūrat al-ikhlāṣ.
Al periodo in cui Eschilo svolse la sua attività di poeta tragico risale un celebre frammento di Pindaro, citato da Platone nel Gorgia [20], che inizia così: “Nomos, il re di tutti gli esseri (Νόμος ὁ πάντων βασιλεύς), / dei mortali e degli immortali, / giustificando la violenza estrema, guida / con potentissima mano. Lo stabilisco / in base alle azioni di Eracle”[21]. Pindaro dunque proclama l’assoluto predominio del νόμος, ossia della Legge divina, sulla totalità degli esseri esistenti. Il poeta argomenta questa affermazione richiamando le fatiche di Eracle, il quale compì la sua azione di eroe civilizzatore sottomettendo completamente la propria volontà individuale alla sovrana Volontà di Zeus. Perciò anche i suoi atti di violenza estrema e di apparente ingiustizia (come il furto dei buoi di Gerione e delle cavalle di Diomede) rispondevano alla necessità di attuare il νόμος divino. “Dominatori del mondo, della storia umana – commenta uno studioso dell’opera pindarica – non sono gli dèi, né gli eroi; dominatrice della vicenda tutt’intera dell’universo è la divinità, Dio, principio e dominio, norma, guida, magistero: νόμος o anche Ζεύς o νόμος di Zeus”[22].
Prima di Pindaro, il più antico teologo dei Greci, Esiodo, aveva affermato che il νόμος è “la norma che il Cronide ha disposto per gli uomini”[23].
E ad uno θεῖος νόμος, ad una Legge divina, anche Eraclito aveva ricondotto le leggi degli uomini, le quali traggono il loro nutrimento da tale supremo νόμος: “Tutte le leggi umane, infatti, – aveva detto il Maestro di Efeso – vengono nutrite da una sola legge, quella divina; essa domina tanto quanto vuole, e basta per tutto e per tutti, ed è superiore”[24].
Quanto agli Stoici, è Zeus il nome divino di cui essi si servono per designare il Logos che plasma ogni essere dando ad esso anima e vita. Espressione della religiosità stoica è l’Inno a Zeus composto da Cleante di Asso (IV-III sec.), successore di Zenone nella direzione della Stoa di Atene. L’inno esordisce invocando Zeus ed esaltandolo come origine e sovrano di tutto ciò che esiste:
“Gloriosissimo tra gl’immortali, dio dai molti nomi (πολυώνυμε), onnipotente in eterno (παγκρατὴς αἰεί),
Zeus, principio della natura (φύσεως ἀρχηγέ), Tu che governi tutto con la legge (νόμου μέτα πάντα κυβερνῶν),
salve!”[25]
Appena il filosofo poeta – commenta Max Pohlenz – “invoca Zeus ‘dai molti nomi’, i fedeli sentono che Zeus, Logos, Physis, Pronoia, Heimarmene non sono se non i nomi diversi dell’unica divinità universale”[26]. Infatti la εἱμαρμένη (termine genericamente inteso come “fato, destino”) è definita da un altro esponente dello stoicismo antico, Crisippo di Soli (III sec. a.C.), come “la legge razionale in base alla quale nel mondo tutto viene disposto dalla pronoia”[27], ossia dalla Provvidenza. Se ne deduce che la πρόνοια, “come forza che plasma e conserva in modo conforme a ragione, (…) è identica al logos e alla physis: è la divinità considerata sotto un aspetto particolare”[28]. Insomma, la εἱμαρμένη “può essere equiparata alla provvidenza e anche al nous di Zeus, anzi a Zeus stesso”[29].
Anche Arato di Soli (320-250), nel solenne esordio dei Phaenomena designa col nome di Zeus il principio che dà origine alla manifestazione universale, concepito come spirito onnipresente in ogni angolo del mondo. L’esortazione di Arato “Cominciamo da Zeus!” (Έκ Διὸς ἀρχώμεσθα) riecheggerà nell’emistichio virgiliano “Ab Iove principium”[30], che ancor oggi viene usato come citazione dotta per riportare ogni evento alla divinità come sua causa prima.
“Cominciamo da Zeus! Lui, in quanto mortali, noi non tralasciamo mai
di nominare. Piene di Zeus sono tutte le vie,
tutte le piazze degli uomini, pieno ne è il mare
e i porti; ed a Zeus in ogni circostanza tutti facciamo ricorso”[31].
Il verso successivo è quello citato da San Paolo[32] nel discorso dell’Areopago: “Di Lui infatti noi siamo progenie” (τοῦ γὰρ καὶ γένος εἰμέν). “Lui” per Arato è Zeus; per Paolo “Lui” è lo θεὸς ἄγνωστος del quale ad Atene ha visto l’altare.

Apollo del Belvedere
Non alla figura divina di Zeus, ma a quella di Apollo ricorre invece Plutarco per simboleggiare l’unità e unicità divina. Nel dialogo Sulla E di Delfi, dove vengono proposte alcune interpretazioni della lettera E (epsilon) raffigurata all’ingresso del tempio delfico di Apollo, la spiegazione decisiva è quella di Ammonio, maestro di Plutarco. Secondo Ammonio la lettera E, letta eî, coincide con la seconda persona singolare del presente di εἰμί e quindi significa “tu sei”. Detto come risposta al dio che esorta l’uomo a conoscere se stesso (γνῶθι σαυτόν era appunto una frase incisa sulla facciata del santuario delfico), “tu sei” è un riconoscimento del dio quale Essere.
“Bisogna dunque rivolgersi a Lui e salutarlo, quando Lo si adora, in questo modo: ‘Tu sei’ (εἶ); oppure, per Zeus, dicendo, come alcuni tra gli antichi: ‘Sei Uno’ (εἶ ἕν). Infatti il divino non è pluralità, come ciascuno di noi, che è fatto di diecimila discordi passioni: cumulo multiforme, orgogliosa mescolanza. L’Essere, invece, è necessariamente Uno, così come l’Uno è necessariamente Essere (ἓν εἶναι δεῖ τὸ ὄν, ὥσπερ ὂν τὸ ἕν). (…) Quindi sta bene al dio il primo dei Suoi nomi, nonché il secondo e il terzo. Egli infatti è Ἀπόλλων, perché esclude la pluralità e nega il molteplice; è Ieîos (Ἰήιος) in quanto Uno ed Unico (εἷς καὶ μόνος); Febo (Φοῖβος) perché così era chiamato dagli antichi – non è vero? – tutto ciò che è puro e incontaminato”[33].
Secondo un procedimento ermeneutico basato sul valore simbolico degli elementi costitutivi di un vocabolo, il nome Ἀπόλλων viene inteso da Plutarco come composto da ἀ- privativo e da πολύς, πολλή, πολύ, “molto”; quindi: “senza molteplicità”. L’epiteto Ἰήιος (interpretabile come “Guaritore”, da ἰάομαι) è messo in rapporto con εἷς, “uno”, mentre Φοῖβος, etimologicamente connesso con φάος, “luce”, significa “lucente, puro”, quindi “non misto”. La persona divina di Apollo, insomma, è simbolo del principio uno ed unico della manifestazione universale, è il supremo Sé di tutto ciò che esiste.
Numenio di Apamea (II sec. d.C.), esponente del neopitagorismo profondamente influenzato da Platone, tanto da venir considerato come uno fra i massimi rappresentanti della scuola medioplatonica, sulle tracce di Plutarco interpreterà Δέλφιος, altro epiteto di Apollo, come un antico vocabolo greco che significa “unico e solo”[34].
Continua nella seconda parte
Note
[1] Πολυθεΐα compare in De mutatione nominum 205; πολύθεος in De opificio mundi 171; De Ebrietate 110; De Confusione linguarum 42, 144; De migratione Abrahami 69.
[2] Jean Bodin, De la démonomanie des sorciers (Parigi, 1580). Il termine polythéisme compare poi nel Dictionnaire universel françois et latin (Nancy 1740), nel Dictionnaire philosophique di Voltaire (Londra 1764) e nell’Encyclopédie di D’Alembert e Diderot (seconda metà del XVIII secolo), dove la voce polythéisme è curata dallo stesso Voltaire.
[3] René Guénon, Aperçus sur l’ésotérisme islamique et le taoïsme, Gallimard, Paris 1973, p. 38.
[4] René Guénon, Monothéisme et angélologie, “Études Traditionnelles”, n. 255, ott.-nov. 1946.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Polymnia Athanassiadi – Michael Frede (a cura di), Pagan Monotheism in Late Antiquity, Clarendon Press, Oxford 1999.
[8] Cicerone, De natura deorum I, 10, 25.
[9] Corano, XXI, 31.
[10] Theophr., Fragm. 12 A 9 Diels-Kranz.
[11] Ippolito, Confutatio I, 7, 1.
[12] “εἷς θεὸς ἔν τε θεοῖσι καὶ ἀνθρώποισι μέγιστος, / οὔτι δέμας θνητοῖσιν ὁμοίιος οὐδὲ νόημα” (Fragm. 13 Diels).
[13] H. Diels, Parmenides’ Lehrgedicht, griechisch und deutsch, Berlin 1897; H. Slonimsky, Heraklit und Parmenides, Marburg 1912; W. Jaeger, The Theology of Early Greek Philosophers, Oxford 1947; trad. it. Firenze 1961, pp. 147-172; Mansfeld, Die Offenbarung des Parmenides und die menschliche Welt, Assen 1964; E. L. Miller, Parmenides the Prophet?, “Journal of the History of Philosophy”, 1968, pp. 67-69; R. J. Clark, Parmenides and Sense-Perception, “Revue des études grecques”, 1969; W. Burkert, Das Proomium des Parmenides und die Katabasis des Pythagoras, “Phronesis”, 1969, pp. 1-30; Renzo Vitali, Il νόος di Parmenide, “Vichiana”, 1969, pp. 227-251.
[14] Parmenide, fr. 8 Diehl-Kranz, 2-6.
[15] I Presocratici. Frammenti e testimonianze. Introduzione, traduzione e note di Angelo Pasquinelli, Giulio Einaudi Editore, Torino 1958, p. 238.
[16] Cicerone, Somnium Scipionis, 5.
[17] Omero, Iliade, VIII, 18-27. (La traduzione di questo brano è mia, così come quelle degli altri testi greci e latini, ad eccezione del passo di Proclo, riportato nella versione di Michele Losacco).
[18] Eschilo, Agamennone, 160-166.
[19] Corano, CXII, 4.
[20] Plat. Gorg. 484b.
[21] “Νόμος ὁ πάντων βασιλεὺς / θνατῶν τε καὶ ἀθανάτων / ἄγει δικαιῶν τὸ βιαιότατον / ὑπερτάτᾳ χειρί, τεκμαίρομαι / ἔργοισιν Ἡρακλέος (…)” (Pind. fragm. 152 Bowra = 169 Schroeder).
[22] Marcello Gigante, NOMOΣ BAΣIΛEY Σ, Edizioni Glaux, Napoli 1956, p. 76.
[23] “Τόνδε γὰρ ἀνθρώποισι νόμον διέταξε Κρονίων” (Hes. Op. et dies, 276).
[24] “τρέφονται γὰρ πάντες οἱ ἀνθρώπειοι νόμοι ὑπὸ ἑνὸς τοῦ θείου· κρατέει γὰρ τοσοῦτον ὁκόσον ἐθέλει καὶ ἐξαρκέει πᾶσι καὶ περιγίνεται” (Heraclit. 114 Diehl-Kranz).
[25] Cleante, Inno a Zeus, I Powell, 1-3.
[26] M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1967, I, p. 218.
[27] M. Pohlenz, op. cit., p. 202.
[28] M. Pohlenz, op. cit., p. 201.
[29] M. Pohlenz, op. cit., p. 202.
[30] Virgilio, Bucoliche III, 60.
[31] Arato, Fenomeni, 1-4.
[32] Acta Apost. 17-19 ss.
[33] Plutarco, De E apud Delphos, 393 b-c.
[34] “Apóllona Délphion vocant, quod (…), ut Numenio placet, quasi unum et solum. Ait enim prisca Graecorum lingua délphon unum vocari” (Macrobio, Saturnalia, I, 17, 65).
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