Seconda parte dell’importante saggio del professor Claudio Mutti sulla dottrina dell’Unità Divina nel mondo antico, in particolare nella tradizione filosofico-mitologica greca, con un approfondimento finale dedicato al “monoteismo solare”.
di Claudio Mutti
segue dalla prima parte

La dea Iside (statua romana, I-II sec. d.C., musei capitolini), free image from wikipedia, licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Unported, author Sailko
Un filosofo medioplatonico contemporaneo di Numenio fu Apuleio di Madaura, l’autore di quel fortunatissimo Asino d’oro (le Metamorfosi) al quale si potrebbe far risalire la storia di Pinocchio. Il suo “monoteismo filosofico”, secondo cui esiste un unus deus al di sopra degli altri dèi si esprime attraverso la devozione di Lucio nei confronti della dea Iside, che alla fine lo salverà dalla condizione asinina. Nella parte finale del romanzo, la dea si rivela a Lucio dichiarando la propria unicità, al di là della molteplicità dei nomi con cui essa veniva invocata nei diversi contesti culturali: “Eccomi, o Lucio, commossa dalle tue preghiere. Io sono la madre della natura (rerum naturae parens), signora di tutti gli elementi (elementorum omnium domina), principio e generazione del tempo (saeculorum progenies initialis), la più grande dei numi (summa numinum), regina dei Mani (regina manium), la prima fra i celesti (prima caelitum), il volto unitario di tutti gli dèi e le dee (deorum dearumque facies uniformis). Sono io che governo col mio cenno (nutibus meis dispenso) le luminose vette del cielo, le salutari brezze marine, i lacrimati silenzi degli inferi. Tutto il mondo venera il mio nume, unico se pure sotto molte e diverse apparenze, con vario rito e differente nome (cuius nomen unicum multiformi specie, ritu vario, nomine multiiugo totus veneratur orbis)”[1].
Questa professione di fede si concilia perfettamente con la concezione medioplatonica di una gerarchia del mondo divino, una concezione che intende armonizzare la trascendenza di un Dio sommo, ineffabile e provvidenziale con la moltitudine delle presenze divine provenienti da lui. Così, nel trattato De Platone et eius dogmate Apuleio scrive: “e in verità la provvidenza superiore appartiene al più grande e al più eminente di tutti gli dèi, lui che ha organizzato non solo la stirpe degli dèi celesti, ripartendoli attraverso tutte le parti del mondo, per sorvegliarlo ed abbellirlo, ma che ha anche creato per tutta la durata dei tempi degli esseri mortali per natura, superiori per saggezza al resto degli esseri animati terrestri, lui che, dopo avere stabilito le leggi, affidò agli altri dèi la cura di disporre e sorvegliare tutto ciò che deve necessariamente compiersi ogni giorno”[2].
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La tendenza a concepire un’unità divina primordiale, che possiamo rintracciare all’interno del pensiero greco (sia religioso sia filosofico) fin dalle sue fasi più antiche, nel III secolo d.C. e nei secoli del Tardoantico (secc. IV-VI d.C.) trova alimento nella visione plotiniana dell’Uno e nel culto imperiale del Sol Invictus, fino a configurare quello che alcuni studiosi hanno chiamato “monoteismo pagano”[3] ed altri, con termine più cauto, “enoteismo” [4].

Franz Altheim
Franz Altheim, l’insigne studioso della religiosità tardoantica, in Der unbesiegte Gott ha narrato la storia di quel culto solare che riuscì ad imporsi ai vertici dell’Impero romano ed esercitò un notevole influsso sul cristianesimo nascente. “Il culto, – scrive Altheim – originatosi fra le popolazioni nomadi arabe, fa la sua comparsa in una città della Siria [cioè ad Emesa, l’odierna Ḥomṣ]. Per la sua specificità e unicità, mette a soqquadro il mondo occidentale, provocandone l’appassionato rifiuto. Ma la (…) filosofia neoplatonica, e ancor più la capacità assimilatrice della religione romana e dell’idea romana di Stato, operano il miracolo”[5]: depurato degli aspetti incompatibili col mos maiorum, il culto della divinità solare di Emesa diventò un culto romano di Stato e il dio Sole fu identificato con Giove Capitolino e con Apollo.
Questo fatto, che René Guénon avrebbe potuto benissimo definire come “un provvidenziale intervento dell’Oriente” a favore di Roma, poté verificarsi per la semplice ragione che il Sole – cito Guénon – “si impone (…) come il simbolo per eccellenza del Principio Uno (…). Non si potrebbe trovare un’immagine più vera dell’Unità che si dispiega nella molteplicità, senza cessare di essere se stessa e senza esserne influenzata, e che riconduce a se stessa, sempre secondo le apparenze, tale molteplicità; quest’ultima, in realtà, non è mai esistita, dato che non può esservi nulla fuori del Principio, a cui nulla può essere aggiunto e nulla sottratto, rappresentando Esso l’indivisibile totalità dell’Esistenza Unica”[6].
D’altra parte questo rapporto simbolico era già familiare ai Romani, i quali riconducevano il nome latino del Sole, Sol, all’aggettivo solus, -a, -um (“solo, unico”). Il più grande erudito romano, Marco Terenzio Varrone, aveva spiegato che il Sole è chiamato così “perché è il solo a risplendere” (“quod solus ita lucet”)[7].
Così, in armonia con la coeva riflessione neoplatonica, il culto solare diventò religione ufficiale dell’Impero romano grazie alla riforma religiosa e politica di Aureliano (270-275). Nella grandiosa sintesi attuata da questo imperatore illirico, “il Sole si precisa come (…) l’immagine visibile del sommo principio, del grande Uno che si erge su tutto in una lontana trascendenza”[8].
Anche dopo il principato di Aureliano, sotto gli imperatori successivi, i simboli della divinità solare continuano a contrassegnare la religione di Stato: l’effigie di Sol Invictus si trova anche sulle monete e nei rilievi dell’arco di trionfo di Costantino.

L’imperatore Flavio Claudio Giuliano (331- 363) (free image from wikimedia commons, author Ash Crow)
La dottrina del cosiddetto “monoteismo solare”, secondo cui Sol invictus (o Helios aníketos) è la personificazione del Principio, mentre le numerose divinità del pantheon greco-romano corrispondono a suoi aspetti specifici e settoriali, si trova esposta nell’inno Al Re Helios (Εἰς τὸν βασιλέα Ἥλιον) dell’imperatore Flavio Claudio Giuliano. Viene qui citato un brano della Politeia[9] da cui risulta che il Sole (Ἥλιος) è, nel mondo sensibile (αἰσθήτός) e visibile (ὁρατός), ciò che il Sommo Bene, sorgente trascendente dell’essere, è nel mondo intelligibile (νοητός); in altre parole: l’astro diurno è un riflesso di quel Sole metafisico che illumina e feconda il mondo delle essenze archetipiche, le platoniche “idee”. Ma tra il mondo intelligibile dell’Essere puro e il mondo delle forme corporee percepibili dalla vista fisica e dagli altri sensi s’interpone un terzo mondo: un mondo che viene definito “intellettuale” (νοερός), ossia dotato di intelligenza.
Ricordiamo per inciso che il teosofo persiano Mahmûd Qotboddîn Shîrâzî (1237-1311) riassume la dottrina dei tre mondi dicendo che Platone e gli altri sapienti dell’antica Grecia “professavano l’esistenza di un doppio universo: da un lato l’universo del puro soprasensibile, che comprende il mondo della Divinità e il mondo delle Intelligenze angeliche; dall’altro, il mondo delle Forme materiali, vale a dire il mondo delle Sfere celesti e degli Elementi e, tra l’uno e l’altro mondo, il mondo delle Forme immaginali autonome”[10].
Giuliano viene poi a trattare dei poteri (δυνάμειαι) e delle energie (ἐνέργειαι) di Helios, cioè, rispettivamente, delle sue potenzialità e delle sue attività in relazione ai tre mondi. L’aspetto più considerevole di questa parte dell’Inno[11] consiste nel tentativo di ricondurre la molteplicità degli dèi all’Unità principiale rappresentata per l’appunto da Helios, cosicché le varie figure divine ci appaiono come suoi aspetti, ovvero come Nomi corrispondenti alle sue innumerevoli qualità.
Una dottrina analoga era stata formulata da Diogene Laerzio, il quale interpretava Zeus, Atena, Era, Efesto, Poseidone, Demetra come appellativi corrispondenti ai “modi della potenza” dell’unico Dio[12].

Pallade Atena sovrastante l’omonima fontana a Vienna (Athenabrunnen), opera di Carl Kundmann (1898-1902)
In Helios, dunque, confluisce il potere demiurgico di Zeus, col quale, in fondo, Helios si identifica. Atena Prónoia è scaturita, nella sua integralità, dalla totalità di Helios; essendo l’intelligenza perfetta di Helios, essa riunisce gli dèi che lo circondano e realizza l’unione con lui. Afrodite rappresenta la fusione degli dèi celesti, l’amore e l’armonia che caratterizzano la loro essenziale unità. Ma soprattutto, in quanto racchiude in sé i principi della più armonica sintesi intellettuale, Helios viene identificato con Apollo, che, date le sue qualità fondamentali di immutabilità, perfezione, eternità, eccellenza intellettuale, è la personificazione dell’unità divina che si esprime come intelligenza pura ed assoluta.
L’ultima parte dell’Inno di Giuliano contiene una rassegna dei doni e dei benefici dispensati da Helios al genere umano, che da lui trae origine e da lui riceve sostentamento. Padre di Dioniso e signore delle Muse, Helios elargisce agli uomini ogni saggezza; ispiratore di Apollo, di Asclepio, di Afrodite e di Atena, egli è il legislatore della comunità; infine è lui, Helios, il vero fondatore e protettore di Roma. È dunque a questo dio supremo, creatore della sua anima immortale, che Giuliano rivolge la richiesta di accordare a Roma un’esistenza parimenti immortale, identificando così “non solo la sua missione personale sulla terra, ma anche la sua salvezza spirituale, con la prosperità dell’Impero”[13]. Una preghiera finale, la terza contenuta nell’Inno, suggella il discorso: Giuliano chiede al Re dell’universo di concedere al suo devoto celebrante una vita virtuosa e un più perfetto sapere e di farlo ascendere in alto fino a Sé.
L’Inno al Re Helios è dedicato a quel Secondo Saturnino Salustio che nel breve trattato Sugli dèi e il mondo (Περὶ θεῶν καὶ κόσμου) formula la dottrina dell’Unità nei termini seguenti: “La causa prima conviene che sia una, poiché l’unità precede ogni molteplicità e supera tutto in potenza e bontà (Τὴν πρώτην αἰτίαν μίαν τε εἶναι προσήκει, παντὸς γὰρ πλήθους ἡγεῖται μονάς, δυνάμει τε καὶ ἀγαθότητι πάντα νικᾷ); e per questo è necessario che tutto partecipi di essa, poiché nient’altro la ostacolerà, data la sua potenza, né la allontanerà, data la sua bontà”[14].
Considerata in un quadro storico, la teologia solare di Giuliano si colloca in una fase matura del neoplatonismo, nella quale i cardini dottrinali di questo movimento spirituale si trovano già definitivamente fissati e consolidati. Infatti, se il fondatore della scuola, Plotino (204-270), aveva riconosciuto nell’Uno il principio dell’essere ed il centro della possibilità universale, il suo successore Porfirio di Tiro (233-305) aveva dedicato alla teologia solare un trattato Sul Sole (Περὶ τοῦ Ἡλίου), purtroppo perduto[15]. Ne sussiste però una citazione nei Saturnalia, là dove Macrobio, riconducendo al principio solare Apollo, Libero, Marte e Mercurio, Saturno e Giove, dice che secondo Porfirio “Minerva è la forza del Sole che procura la saggezza alle menti umane”[16]. D’altronde nel trattato Sulla filosofia rivelata dagli oracoli[17] (interpretazione allegorica degli Oracoli caldaici presentati come una rivelazione divina tipica dello zoroastrismo ellenizzato) Porfirio aveva citato un responso apollineo secondo il quale c’è un solo dio, Αἰών (“Eternità”), mentre gli altri dèi non sono altro che i suoi angeli.
Dopo Giuliano, è possibile seguire la tradizione solare fino a Proclo (410-485), autore di un Inno in cui Helios è invocato come “re del fuoco intellettuale” (πυρὸς νοεροῦ βασιλεῦ, v. 1) e “immagine del dio generatore di tutte le cose” (εἰκὼν παγγενέταο θεοῦ, v. 34)[18], cioè come epifania del Dio Supremo. Quanto alla pluralità degli dèi della religione, Proclo la risolve riportandola all’Uno; e l’Uno è Dio, perché, egli argomenta, il Bene e l’Uno sono la stessa cosa e il Bene si identifica con Dio[19].
Si capisce allora perché Henry Corbin abbia caldamente auspicato un confronto tra la teologia di Proclo e le dottrine dello Pseudodionigi e di Muhyiddîn Ibn ‘Arabî. In particolare, scrive Corbin, sarebbe molto istruttiva “una comparazione approfondita fra la teoria dei Nomi divini e delle teofanie che sono i Signori divini: voglio dire dal parallelismo tra Ibn ‘Arabî da una parte – l’ineffabilità del Dio, che è Signore dei Signori e le molteplici teofanie costituite dalla gerarchia dei Nomi divini – e Proclo dall’altra – la gerarchia che si origina nell’enade delle enadi manifestata da queste stesse enadi, e che si propaga attraverso tutti i gradi delle gerarchie dell’essere”[20].
Un contemporaneo di Proclo che nel mondo di lingua latina fu uno dei maggiori neoplatonici “pagani”, Macrobio, nella prima giornata dei Saturnalia attribuisce a Vettio Agorio Pretestato, pontifex Solis, questa professione di fede: “Non è una vana superstizione (vana superstitio), ma una divina saggezza (ratio divina) quella che li induce a ricondurre al Sole quasi tutti gli dèi, quanto meno quelli celesti (…) Dobbiamo necessariamente considerare il Sole (…) come principio (auctor) di tutto ciò che avviene intorno a noi”[21].
Ma quella che è stata definita “l’ultima attestazione del sincretismo solare in Occidente”[22] è la preghiera di Philologia al Sole[23], “documento notevole della ‘teologia solare’ del tardo neoplatonismo”[24] dovuto ad un altro contemporaneo di Proclo, Marziano Capella (IV sec. – V sec.). L’ultima attestazione, perché verso il 531 l’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene, Damascio (470-544), si rifugiò nella Persia sassanide, e con lui altri neoplatonici.
A parere di Franz Altheim, la teologia solare elaborata dai neoplatonici avrebbe avuto un ulteriore sviluppo nel quadro del monoteismo islamico. “Il messaggio di Muhammad – scrive Altheim – era infatti incentrato sul concetto di unità ed escludeva che la divinità potesse avere un ‘compagno’, ricalcando così le orme degli antecedenti e conterranei Neoplatonici e Monofisiti. L’impeto religioso del Profeta riuscì quindi a far emergere con accresciuta forza ciò che prima di lui altri avevano sentito e anelato”[25].
Note
[1] Apuleio, Metamorfosi, XI 5.
[2] Apuleio, De Platone et eius dogmate, I 12, 204-206.
[3] Polymnia Athanassiadi – Michael Frede (a cura di), op. cit..
[4] “Termine coniato da Max Müller per designare l’atteggiamento religioso (da lui osservato specialmente nei Veda) di chi, nel fervore e nella concentrazione momentanea dell’adorazione d’una data divinità, la invoca e la celebra come unica e sola, senza assurgere per questo a una vera e propria concezione monoteistica (affermazione d’un dio solo con esclusione di tutti gli altri) né levare la minima protesta contro il politeismo stesso, cui l’adorante del resto pienamente aderisce e in cui, svanita l’esaltazione religiosa, ricade. Si tratta dunque d’un fenomeno (constatabile anche nell’antica religione egiziana, nella babilonese, ecc.) che appartiene al mondo dell’intermittente e fluttuante esperienza religiosa, e non rappresenta una forma e categoria stabile e ben determinata dell’idea di Dio, né ha, infatti, nella storia delle religioni l’importanza attribuitagli da Max Müller, il quale, in dipendenza dalle idee di Schelling, credeva di poter segnalare nell’enoteismo l’antecedente comune indistinto sia del monoteismo sia del politeismo” (Raffaele Pettazzoni, Enoteismo, Enciclopedia Italiana, 1932).
[5] Franz Altheim, Deus Invictus. Le religioni e la fine del mondo antico, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, p. 53.
[6] René Guénon, Et-Tawhîd, “Le Voile d’Isis”, luglio 1930.
[7] Varrone, De lingua Latina, V, 68.
[8] Beniamino M. di Dario, Il Sole Invincibile. Aureliano riformatore politico e religioso, Edizioni di Ar, Padova 2002, p. 83.
[9] Plat., Resp. 508bc.
[10] H. Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita, Adelphi, Milano 1986, p. 140.
[11] Giuliano, Alla Madre degli dèi, 143b-152.
[12] Diogene Laerzio, VII, 147 (Stoicorum Veterum Fragmenta, II, fr. 1021).
[13] M. Mazza, Filosofia religiosa ed “Imperium” in Giuliano, in: AA. VV., Giuliano Imperatore, Atti del Convegno della S.I.S.A.C. (Messina, 3 aprile 1984), a cura di B. Gentili, QuattroVenti, Urbino 1986, p. 90.
[14] Sallustio, Sugli dèi e il mondo, a cura di C. Mutti, Edizioni di Ar, 2a ed., Padova 1993, pp. 27-28.
[15] Il trattato di Porfirio è citato da Servio (Commento alle Ecloghe, V, 66) ed è forse da identificarsi col trattato Sui nomi divini; o, forse, faceva parte della Filosofia degli oracoli. Cfr. G. Heuten, Le “Soleil” de Porphyre, in Mélanges F. Cumont, I, Bruxelles 1936, p. 253 sgg.
[16] “et Porphyrius testatur Minervam esse virtutem Solis quae humanis mentibus prudentiam subministrat” (Macrobio, op. cit., I, 17, 70).
[17] G. Wolff (a cura di), Porphyrii de philosophia ex oraculis haurienda librorum reliquiae, Springer, Berlin 1866.
[18] Proclo, Inni, a cura di D. Giordano, Fussi-Sansoni, Firenze 1957, pp. 20-25.
[19] Proclo, Elementi di teologia, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1983, pp. 94-95.
[20] H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 8.
[21] “Nam quod omnes paene deos, dumtaxat qui sub coelo sunt, ad solem referunt, non vana superstitio, sed ratio divina commendat (…) necesse est ut solem (…) omnium quae circa nos geruntur fateamur auctorem” (Macrobio, SaturnaliaI, 17,2-3).
[22] R. Turcan, Martianus Capella et Jamblique, “Revue des Études Latins”, 36, 1958, p. 249.
[23] Marziano Capella, De nuptiis, II, 185-193.
[24] Martiani Capellae De nuptiis Philologiae et Mercurii liber secundus, Introduzione, traduzione e commento di L. Lenaz, Liviana, Padova 1975, p. 46.
[25] Franz Altheim, Deus invictus, cit., Edizioni Mediterranee, Roma 2007, pp. 115-116.
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