La montagna come via dello spirito in Julius Evola

Intervento tratto dagli Atti del convegno “Sopra le rovine“, nel trentennale della scomparsa di Julius Evola (2004)

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di Mario Polia

Rileggendo “Meditazioni delle vette” di Julius Evola abbiamo formulato alcune considerazioni circa la possibilità, sottolineata dall’autore, che l’esercizio alpinistico, eseguito con la giusta disposizione interiore, possa servire da valido supporto ad un cammino di conoscenza spirituale.

Il tema meriterebbe una trattazione più dettagliata ed approfondita ma, in occasione di questo incontro, ci siamo limitati a trattare brevemente due atteggiamenti, oggi molto diffusi, che rischiano di far vivere la pratica dell’ascensione più come una disciplina sportiva che come un esercizio d’ascesi. Essi sono: la moda dell’“avventura” e la moda del “naturismo”.

meditazioni vette-montagna-evolaOggi l’“avventura” più che mai  è di moda. Esibita per ogni dove dai media, è proposta dalle imprese di turismo, è reclamizzata da venditori di articoli sportivi e non, è propagandata da speciali “scuole” in cui si insegna come affrontarla. In questo modo, la dimensione dell’“avventura” ha finito per formar parte del quotidiano sebbene l’“avventura” si proponga, per sua natura, come l’alternativa alla quotidianità. Ciò costituisce, evidentemente, un intrinseco paradosso. Uno dei tanti di cui è infarcita la cultura “moderna”. Il fatto è, comunque, che oggi esiste una vera e prospera industria dell’avventura.

Considerata da un punto di vista tradizionale, che è la prospettiva che qui ci interessa, tuttavia, l’avventura rivela sé stessa solo come una delle tante chimere da cui si lascia allettare una parte consistente della società moderna.

Ridotta perlopiù allo spazio delle vacanze, l’avventura si configura come uno dei vari tentativi di evasione e di trasgressione dei moderni schiavi del sistema consumistico-borghese.

Si tratta di un’evasione non priva di fascino ma che, per i modi in cui essa è vissuta, rischia di ridursi unicamente a fonte di sensazioni con l’effetto di produrre un’ipertrofica crescita dell’io. Sensazioni forti, virili, dal sapore eroico le quali, tuttavia, non sorpassano la sfera psichica ma che, al contrario, proprio per la loro speciale intensità finiscono per vincolare tenacemente ad essa. L’avventura viene ridotta ad estetismo, un estetismo che nella sua aìsthesis, nella sua epidermicità, nulla ha a che vedere con la ricerca e la realizzazione spirituale.

Esiste un amore per il rischio e perfino un eroismo, il cui valore è quello di una mera sensazione e il cui risultato spesso è esasperare una percezione puramente fisica, chiusa, dura della personalità e della virilità, la quale nell’uomo moderno è già anormalmente sviluppata e non costituisce certo la condizione migliore per la riconquista di una spiritualità vera, liberata, trascendente.”

mount-of-five-treasures (two worlds) 1933 roerich montagna

“Mount of five treasures (two worlds)” di Nikolaj Konstantinovič Roerich (1933)

Affinché l’avventura divenga impresa dello spirito, dev’essere vissuta con un atteggiamento interiore del tutto diverso. Occorre applicare ad essa innanzitutto la norma dell’“azione disinteressata”: l’ “agire senza agire” (wei-wu-wei) della tradizione cinese, il quale richiede quella condizione definita dall’ascesi guerriera nipponica come “non mente – non io” (mu nen – mu ga). Ossia: l’agire non deve essere mosso a dimostrare a sé stessi quanto si vale e men che meno deve essere finalizzato a dimostrarlo ad altri.

Lo stile di chi agisce dev’essere l’atteggiamento interno ed esterno di chi compie un’azione sacrificale nel senso proprio e più profondo del termine: un sacrum facere che trasforma l’azione stessa in un esercizio ascetico e permette l’irruzione nel tempo storico di ciò che per essenza trascende il tempo e la storia.

L’impulso ad agire non deve essere offerto dallo stimolo ad evadere da una realtà sentita come limitata e soffocante, o dalla noia del quotidiano. Esso deve scaturire da un autentico, insopprimibile anelito connaturato alla persona e facente parte integrante di essa il quale spinge instancabilmente a ricercare, nella natura umana, la presenza dell’eterno.

Il premio di questa ricerca non deve essere il piacere della sensazione, oppure l’appagamento derivante dalla buona riuscita dell’impresa ma, piuttosto, la coscienza che ciò che si è fatto pur dando il megli di sé stessi costituisce solo il passo preliminare di un lungo cammino. In questo senso, la montagna insegna: l’orizzonte si scopre sempre più vasto mano a mano che si sale. Eppure, quando si è giunti sulla cima si scopre che aldilà dell’ultimo dilatato orizzonte v’è ancora spazio da scoprire per cui occorrerebbe salire ancora. Ascendere non adoperando più piedi, ma ali.

Fotolia_17356199_Subscription_XLDa una prospettiva tradizionale, il “come” ci si dispone a compiere un’azione e il “come” la si compie, ovvero lo stile che riflette la disposizione del cuore sono di lungi più importanti dell’ottenimento del fine che ci si propone di raggiungere. Quando esiste la giusta disposizione del cuore “sconfitta” e “vittoria” rivelano entrambe la loro fallace natura, infatti può ottenersi la vittoria pur risultando sconfitti sul pianio materiale. E tale vittoria è la sola a contare.  Al contrario, quando la giusta disposizione del cuore non sia presente, la vittoria si trasforma in una pesante sconfitta per quanto riguarda il valore spirituale dell’impresa.

Dopo aver conquistato la cima, è infatti sufficiente contemplare l’orologio soddisfatti per aver impiegato un ottimo tempo, oppure sentirsi orgogliosi per aver aperto una nuova via perché l’impresa rischi di essere vanificata dal punto di vista della disciplina ascetica e di essere ridotta ad un semplice evento sportivo.

Lo stile dell’agire deve essere improntato ad una purezza interiore scevra da orgoglio e da passione ed allo stesso tempo libera dal timore della sconfitta o dall’esasperato desiderio di vittoria.

Alla purezza deve accompagnarsi il coraggio di osare: un coraggio scevro da superbia, cosciente dei limiti ma teso a ricercare nel proprio essere la forza che promana dallo spirito e che, sola, permette di affrontarli e superarli.

Sentire la propria piccolezza dinanzi alle immense vertigini montane è un indispensabile esercizio di umiltà cui deve fare da controparte l’impulso ad osare oltre la propria limitatezza in nome di una forza più profonda di qualsiasi abisso e ancor più alta della più alta cima.

GoWildImages_MtEverest_NEP0555.jpgNella lotta contro le altezze e le vertigini montane, l’azione è (…) libera da tutto ciò che è macchina, da tutto ciò che attenua il rapporto diretto e assoluto dell’uomo con le cose. E nell’imminenza del cielo con l’abisso (…) quanto mai è prossima la possibilità di ridestare, attraverso ciò che sembra un semplice esercizio del corpo, il simbolo di un superamento, una luce virilmente spirituale, un contatto con le forze primordiali chiuse dentro le membra: sì che l’agone fisica sia ad un tempo più che fisica, e nella riuscita vittoriosa sia quasi l’adornamento di qualcosa non più umano. Se antiche mitologie misero nelle altezze il simbolico soggiorno degli «dèi», ciò è mito, ma simultaneamente è espressione allegorica di un significato che è reale; e che può sempre rivivere in sede di interiorità.”

La purezza consiste anche nel rifuggire dall’eccessivo tecnicismo oggi imposto dal sistema consumistico a chi pratica l’alpinismo. Consiste nel saper scegliere volta per volta gli strumenti più semplici che risultino idonei allo scopo. In questo senso, sia la scelta dell’equipaggiamento personale che la stessa preparazione dello zaino per l’escursione rivestono un valore analogico in quanto si tratta di apprendere a saper eliminare il superfluo scegliendo soltanto ciò che risulta veramente indispensabile.

E, mano a mano che l’esperienza s’affina e la mente apprende a semplificare i suoi bisogni, le cose davvero indispensabili riducono sempre più il loro numero, come accade a chi percorre il cammino della realizzazione spirituale. Per cui, un giorno, Socrate in un mercato ebbe a dire: “Qui ci sono tantissime cose di cui posso benissimo fare a meno”. Ed un poeta giapponese potè scrivere:

È primavera

nella mia capanna non c’è nulla

e c’è tutto

(Sodô)

montagna-cervinoQuando tali condizioni interiori siano presenti, l’ascesa della montagna diviene un’impresa analogica poiché l’ascensione materiale si trasforma nell’ascesa di sé stessi, nel superamento dei propri limiti, nell’affrancamento dai lacci che avvincono lo spirito: “La montagna chiede purità e semplicità. Essa chiede ascesi.”

La montagna infatti è, allo stesso tempo, immane mole, inerte pesantezza ma è anche altezza, apollinea purezza e luminosa chiarità. Sotto la sua mole giacciono prigionieri e impotenti i Titani che tentarono invano l’assalto ai cieli mentre sulla cima antichi miti situano la sede degli dèi e degli eroi.

Allo stesso tempo, quando la purezza sia la tenuta interiore ed esteriore di chi si accinge a compiere un’impresa di tal fatta – applicando queste considerazioni all’alpinismo come possibile disciplina dello spirito – l’avventura supera i limiti dell’avventura stessa in quanto diviene aventure nel senso che la Cavalleria del nostro Medioevo diede a questo termine. Essa diviene quête: ricerca spirituale. Cerca del Centro. Cerca del Graal.

Ed ancora, l’avventura trascende sé stessa in quanto essa cessa di essere un avvenimento straordinario, opposto alla consuetudine ed alla quotidianità. La Cerca diviene un modo d’essere e l’azione diviene espressione di un tale modo d’essere. La Cerca si trasforma in una condizione permanente. L’avventura, lungi dall’esaurirsi in una temporanea evasione, diviene una stabile tendenza al ritorno al Centro. Un ritorno all’Essere.

Quando queste condizioni siano presenti nella persona, quando cioè fosse avvenuta “la trasformazione dell’esperienza della montagna in un modo d’essere (…), è allora che sorgerebbe, nei migliori, il senso che ogni andare, ogni ascendere, ogni conquistare, ogni osare è solo contingente mezzo d’espressione di una realtà immateriale (…) e ciò sarebbe la forza di coloro che mai ritornano dalle vette alla pianura, di quelli per i quali non vi è più né l’andare né il tornare, perché la montagna è nel loro spirito, perché il simbolo è divenuto realtà (…) La montagna per essi non è più né novità d’avventura, né romantica evasione (…) né eroismo per l’eroismo, né sport più o meno tecnicizzato. Essa si lega invece a qualcosa (…) che, conquista spirituale inalienabile, fa ormai parte della propria natura (…) a dare un nuovo senso a qualsiasi azione, a qualsiasi esperienza, a qualsiasi lotta della vita quotidiana.”

Montagne dall'altoAll’opposto della ricerca dell’“avventura” che caratterizza la cultura dei nostri giorni, vi è la tendenza “naturistica”, l’atteggiamento a vivere il contatto con la natura – e dunque anche l’esperienza della montagna – come un momento di quiete astratto dalla vita convulsa di tutti i giorni. Un’esperienza, quella della montagna, che ritempra le forze ed aiuta a ritrovare uno stato momentaneo di pace e benessere fisico e psichico. In ciò, da una prospettiva di disciplina interiore, non vi è nulla da eccepire.

Purché la ricerca del benessere e della quiete, invece di essere il naturale risultato derivante dal rinnovato contatto con la natura e di propiziare le condizione adatte alla meditazione ed alla contemplazione, non divengano il fine ultimo di tale ricerca. E purché non si viva l’esperienza della montagna unicamente da questa prospettiva priva di un’autentica dimensione spirituale.

Avverte Evola: “Non si debbono scambiare cose molto distinte, non si deve credere che delle sensazioni più o meno fisiche di benessere, di ristoro organico e di riconquistata forza abbiano qualcosa a che fare con la spiritualità (…) Già il carattere di evasione e di reazione che, nella gran parte dei casi, ha questo fenomeno e questa esaltazione della natura, basta, nella sua negatività, a limitarne la portata.”

La quiete può e deve fornire il valido mezzo affinché potenze latenti dell’anima possano destarsi e manifestarsi.

Dal silenzio deve scaturire la Voce che troppo spesso viene soffocata dal frenetico correre in avanti del mondo moderno.

La solitudine, scevra da contingenze e preoccupazioni mondane, deve poter offrire il modo per ritrovare sé stessi e, in sé stessi e nella natura, il contatto con l’Essere. Non altrimenti i guerrieri-poeti dell’antico Giappone ricercavano nelle solitudini montane immerse nel silenzio innevato dell’inverno – fuyu-gomóri, il ritiro invernale – ciò che sarebbe stato difficile trovare altrove.

Chiaro diviene

e puro lo specchio

tra fiori di neve

(Bashô)

E il silenzio e la solitudine tanto della natura come della mente, unite all’assoluta semplicità della vita, divenivano mezzi idonei affinché la meditazione e la contemplazione potessero esistere e manifestarsi come attività autonome dello spirito liberate da ogni contingenza e condizionamento.

Ciò può ancora avvenire.

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Nota: le citazioni sono tratte dall’edizione di “Meditazioni delle vette” del 1979 (La Spezia: Edizioni del Tridente)



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