La Prefazione di Evola al “Tramonto” di Spengler (prima parte)

Tornando all’approfondimento dedicato ad Evola ed Oswald Spengler, proponiamo oggi la prima parte della prefazione che Evola abbinò alla sua storica traduzione per Longanesi, nel 1957, di Der Untergang des Abendlandes, “Il Tramonto dell’Occidente”. Ricordiamo che si trattò della prima traduzione in italiano della fondamentale opera dello scrittore tedesco, oggetto, nei decenni a venire ed anche di recente, di successive “rivisitazioni”, non sempre del tutto imparziali: ne abbiamo parlato ampiamente nel nostro redazionale introduttivo dello scorso marzo, cui rimandiamo. Nella sua prefazione Evola potè sviluppare la propria analisi in modo evidentemente più ampio ed argomentato di quanto non avesse già fatto nel primo articolo in cui tratteggiò il sistema spengleriano, pubblicato ben vent’anni prima, nel 1936, sulle colonne de “La Vita Italiana”, e che abbiamo riproposto circa un mese fa.

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di Julius Evola

Prefazione a “Il Tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler (1957)

Mentre opere minori di Spengler sono uscite in Italia già da un certo tempo, il suo libro principale, cui tale autore deve la sua fama mondiale, malgrado i frequentissimi riferimenti ad esso che s’incontrano nella corrente letteratura, si rende per la prima volta accessibile al nostro pubblico con la presente traduzione.

La storica prima edizione de “Il Tramonto dell’Occidente” tradotta da Evola

Si potrebbe pensare che tale pubblicazione risulti oggi, in un certo modo, attuale, per il fatto che nel secondo dopoguerra si è ripresentato lo stesso stato d’animo, si è reso sensibile lo stesso crollo di valori, si è acuita la stessa sensazione di una crisi generale di civiltà, che avevano già caratterizzato il primo dopoguerra creando le premesse per il successo dell’opera dello Spengler e conferendo al titolo di essa, Tramonto dell’Occidente, un valore simbolico.

Ciò in parte è vero. È però anche vero che temi, che al primo apparire del libro avevano un carattere di originalità, e avevano rappresentato il primo segno barometrico di un mutamento di sensibilità storica rispetto all’ottimismo storicistico e progressistico fino ad allora predominante, nel frattempo son divenuti quasi dei luoghi comuni e sono stati in vario modo ripetuti e sviluppati da una vasta letteratura più o meno estemporanea. Così al momento attuale è un bilancio, è una disamina critica oggettiva di concezioni del genere, che si imporrebbe.

In secondo luogo, il titolo del libro, come il lettore vedrà, corrisponde solo in parte al suo contenuto, non si tratta di una considerazione intesa esclusivamente a mettere sistematicamente in luce il carattere crepuscolare dell’ultima civiltà occidentale, bensì dell’esposizione di una filosofia personale generale, di cui la filosofia e la morfologia della storia mondiale non sono che una conseguenza e di cui conseguenze, per così dire, di secondo grado sono altresì le vedute spengleriane circa il tramonto dell’Occidente e circa le forme nelle quali sarebbe destinata a finire la nostra civiltà. E in tale sistema filosofico personale fin troppe son le cose che hanno un valore assai discutibile.

In via generale, può dirsi che il merito più evidente dello Spengler sia stato il suo attacco contro la concezione lineare e progressistica (ed anche dialettica post-hegeliana) della storia, contro l’idea che esista una storia unica, una storia al singolare che riprende tutta l’umanità e che nel complesso si svolge da un meno a un più di civiltà, ossia in una indefinita evoluzione. È anche merito dello Spengler l’aver accusato il provincialismo intellettuale di certa storiografia per la quale tutto ciò che non cade entro la storia occidentale, insaccata nello schema convenuto: antichità-medioevo-èra moderna sarebbe più o meno irrilevante e marginale, se non addirittura inesistente. Invece, per lo Spengler, la storia si spezza in decorsi ciclici chiusi, discontinui, corrispondenti ciascuno a una specifica irripetibile civiltà: e di tali cicli quello corrispondente alla civiltà d’Occidente o civiltà euro-occidentale non è che uno particolare, per nulla privilegiato. Come tutti gli altri cicli, anche quello della civiltà nostra ha avuto un preciso principio e avrà una sua ineluttabile fine. Differenziatesi da forme astoriche di esistenza, le civiltà, compiuto il loro tempo, tornano a dissolversi in esse.

La concezione spengleriana si basa tutta su di una analogia organica. Per lo Spengler nella storia il fenomeno primario, il goethiano Urphänomen, è costituito dalle civiltà, concepite come organismi che pur essendo d’ordine superiore, pur avendo un carattere superindividuale, come tutti gli organismi hanno una durata finita e presentano fasi ben determinate di sviluppo: come gli organismi visibili, propriamente detti, le civiltà hanno una giovinezza, un periodo di maturità e di fioritura, poi una vecchiaia a cui segue il tramonto, la fine. La «morfologia della storia mondiale» è intesa ad individuare nei vari cicli di civiltà il ricorrere di coteste fasi in un sistema di corrispondenze e di «sincronismi» che non si restringono al dominio delle arti, del pensiero, della scienza, della religione, dell’etica, del diritto e via dicendo.

Johann Wolfgang von Goethe, punto di riferimento dello sviluppo del sistema spengleriano del mondo come organismo

Dissoltosi uno dei detti organismi, un altro ne sorge in un altro «paesaggio», a ripetere lo stesso ciclo, senza continuità col precedente, in base a una nuova idea originale e irripetibile. Ogni ciclo di civiltà esprime nelle sue arti, nelle sue guerre, nel suo pensiero, nella sua architettura, nella sua economia, nelle sue scienze, ecc. una data idea o «anima», la quale va a dare a tutte quelle manifestazioni un carattere simbolico. Dall’una civiltà nulla passa veramente in un’altra: ciò che una civiltà può riprendere da un’altra è da essa assunto in una diversa funzione, in funzione di una diversa idea, dell’idea specifica di quella civiltà, per cui assume un significato, una qualità diversa. Un esempio: il cristianesimo quale è stato ripreso nella civiltà euro-occidentale (cristianesimo «cattolico-germanico»), malgrado la comunanza dei temi, è una fede affatto diversa dal cristianesimo delle origini, quale sorse e si sviluppò nel quadro della civiltà detta dallo Spengler «magica». Secondo lo Spengler, ogni civiltà non solo ha una diversa concezione del mondo e della vita, procedente da un suo «simbolo elementare», ma anche una diversa scienza, una diversa matematica, una diversa fisica. Non esistono una matematica, una pittura, un diritto, una economia, ecc. al singolare o in universale, ma esistono le diverse matematiche, le diverse linee di pittura, le diverse economie, i diversi diritti e via dicendo delle singole civiltà, aventi ognuno un diverso spirito, senso e valore simbolico.

Ci troviamo dunque di fronte a una concezione pluralistica e quindi anche relativistica, ove è evidente che il positivo si mescola col negativo. Se è giusta l’esigenza di rompere il cerchio magico per via del quale si è portati a interpretare ogni civiltà in base alla propria disconoscendone l’originalità, è chiaro che insistendo oltre misura sulla discontinuità e soprattutto affermando, come fa lo Spengler, che ogni verità e ogni comprensione è storicamente condizionata e subisce la legge irrevocabile della civiltà cui si appartiene, si va a finire in una impossibilità metodologica. Di rigore, allora si sarebbe condannati a capire davvero solo la propria civiltà. Già in partenza proprio l’assunto dello Spengler, di cogliere l’anima e l’idea direttrice di un gruppo di civiltà diverse dalla nostra, risulterebbe assurdo. Poi, sempre a seguire lo Spengler, proprio noi Occidentali ci troveremmo a tal riguardo in una situazione particolarmente sfavorevole, perché specifico della civiltà nostra sarebbe il suo carattere storico, il concepire tutto in termini di relatività prospettivistica. Nel caso, le premesse andrebbero invertite.

Per assolvere il compito che lo Spengler ha indicato sarebbe piuttosto assai più qualificato l’uomo delle civiltà che egli chiama astoriche o atemporali, uomo che si potrebbe anche definire come l’«uomo tradizionale»: maggiormente libero dal demone della storia, un tale uomo avrebbe davvero la capacità di uno sguardo libero, oggettivo, atto a cogliere il diverso senza deformarlo. Peraltro, proprio all’uomo tradizionale si debbono visioni e «miti» storici di una vastità che non trova riscontro in nessuna delle moderne filosofie della storia (se si fa eccezione del Guénon, che appunto quelle tradizioni ha ripreso): intendiamo, per esempio, la dottrina delle «quattro età», avente carattere universale per essere stata formulata dalle civiltà più varie, la dottrina del «grande anno», la dottrina dei kalpa e così via. Invece il destino dei moderni, di subire una condizionalità storica nelle loro concezioni, è reale ed è illustrato dal caso stesso dello Spengler: a base di tutta la sua trattazione sta una filosofia irrazionalistica della vita, che è evidente prodotto, o sottoprodotto, dell’ultima civiltà europea e che è l’ultima fra quelle che possono farci capire lo spirito di altre civiltà o di altre fasi di una civiltà, per esempio a partir dal nostro Medioevo.

L’anonimia delle metropoli contemporanee, dove la verticalità dei grattacieli richiama in senso ormai decadente, in forme fredde e razionalistiche, rispetto alle guglie delle cattedrali gotiche, la nostalgia di infinito tipica, secondo la visione “romantica” di Spengler, dell’anima faustiana occidentale

Per quanto riguarda lo sviluppo ciclico delle singole civiltà, lo Spengler ha tuttavia introdotto una distinzione e una corrispondente terminologia di valore contestabile: «civiltà» (Kultur) contro «civilizzazione» (Zivilisation). In ogni caso la fase di «civiltà» è quella qualitativa e differenziata, legata ai simboli elementari del castello e del tempio, incentrata nelle due «caste primordiali», nobiltà e sacerdotalità, con rilievo dei valori della razza, della tradizione, del costume vivente, del senso del destino, dell’intuizione artistica. Una volta oltrepassato il punto apicale di ogni ciclo, ed essenzialmente col sorgere delle città, con l’avvento del Terzo Stato e, infine, col regime delle masse tutti questi valori vengono meno, e dalla «civiltà» si passa alla «civilizzazione», inevitabile fase terminale e crepuscolare di ogni ciclo. Nella civilizzazione predomina l’intelletto astratto, il puro «essere desto» avulso dall’istinto, dalla razza, dal substrato cosmico. Qui all’organico subentra l’inorganico, all’esperienza vissuta la casualità meccanica, al mondo come storia il mondo come natura, alla forma l’informe. La civilizzazione vede l’avvento della macchina, l’onnipotenza del danaro e della finanza, il regime delle masse e dell’anti-casta. Il suo simbolo ultimo è la metropoli, la città cosmopolita tentacolare, che assorbe e divora la campagna e le energie di essa. Socialmente e politicamente la civilizzazione si conclude nel napoleonismo e nel cesarismo: è la potenza informe nelle mani di singoli individui che controllano dispoticamente le forze e gli uomini di questo mondo interiormente dissoluto e crepuscolare. Più oltre, non v’è più storia in senso superiore, nulla ha più significato e potenza di simbolo, ritornano le forme primitivistiche, astoriche, «eterne», puramente biologiche, dei primordi.

Noi viviamo, secondo lo Spengler, nella fase di civilizzazione del ciclo euro-occidentale (o «faustiano»), iniziatosi verso il mille d.C.. La formula del «tramonto dell’Occidente» esprime semplicemente questo fatto, il nostro destino. Anche l’Occidente vivrà la fine del suo ciclo nelle forme che già altre civiltà avevano percorse e che così possono venir fin d’ora prognosticate.

Lo Spengler qui può respingere l’accusa di pessimismo, perché per lui si tratterebbe della semplice constatazione di un fenomeno naturale inevitabile: predire per una civiltà le forme in cui essa si estinguerà sarebbe così poco pessimismo, quanto il descrivere le fasi del declino, della vecchiaia e della morte inevitabili in qualsiasi organismo. Ma la quistione allora andrebbe spostata: si può accusare lo Spengler di pessimismo non nel particolare riguardo dell’intervenire del fenomeno della «civilizzazione», bensì nel riguardo di tutta la sua dottrina informata da un fatalismo biologico indebitamente esteso al piano della filosofia della storia.

Poiché qui sta il punto più interessante e degno di considerazione delle teorie del nostro autore, sarà bene aggiungere qualche altro breve rilievo.

Come il fatto che singole vite di diversi individui che si succedono nel tempo, pur essendo cicli chiusi con più o meno le stesse fasi biologiche, nel loro insieme possono dare espressione a una continuità su di un piano superiore (per esempio, appunto come storia), del pari la teoria delle civiltà come cicli più o meno paralleli non esclude necessariamente una veduta d’ordine più vasto. Chi per più sicura guida assumesse le antiche vedute tradizionali già accennate, segnatamente la dottrina delle quattro età, potrebbe facilmente vedere che se ogni particolare civiltà può aver avuto un suo particolare colorito e può aver seguito il decorso accennato che si termina in una fase di civilizzazione, pure per l’insieme di esse si è svolto, a partire da una remota antichità, lo stesso ritmo, così che la «civilizzazione» appare essere il termine finale, il terminus ad quem, al quale il complesso delle precedenti civiltà sembra essere stato ordinato e nel quale un processo complessivo di carattere involutivo sta concludendosi: tanto che nelle singole forme di precedente «civilizzazione» si possono quasi vedere forme parziali, quasi prove o prefigurazioni, che solo nella civilizzazione euro-occidentale, identica al «mondo moderno», dovevano avere la loro più completa, radicale e universale realizzazione. Realizzazione universale, diciamo, giacché la civilizzazione dell’ultimo Occidente non è più l’episodio di una data civiltà limitato a un particolare «paesaggio», è invece un fenomeno che sta investendo a poco a poco tutta la terra, non lasciando più uno spazio dove possa concepirsi qualcosa di nuovo e iniziarsi un nuovo ciclo. Del resto, lo Spengler ciò lo riconosce parlando del carattere «planetario» che, a differenza delle altre, presenta la civiltà faustiana.

Si è riconosciuto il valore che per una morfologia della storia ha la distinzione fra civiltà e civilizzazione. Una tale distinzione avrebbe però dovuto esser maggiormente enucleata nella forma di due «categorie» nel senso kantiano, e di due tipi generali di possibile organizzazione della vita umana; così si sarebbe avuta una dualità come filo conduttore prezioso per scoprire, di là da un apparente pluralismo, lo spirito diverso, antitetico, presentato da arte, scienza, culto, costume, ecc., a seconda che, appunto, si rifacciano a una «civiltà» o a una «civilizzazione».

In relazione a ciò, se lo Spengler mette abbastanza bene in luce le caratteristiche di ogni civilizzazione, molto vi sarebbe da dire circa quel che per lui corrisponderebbe al suo opposto, ossia circa quel che è veramente e propriamente civiltà; ci si potrebbe anzi domandare se allo Spengler sia stato dato di intendere lo spirito di superiori forme tradizionali di civiltà, perché si ha piuttosto il senso che egli abbia saputo solo valorizzare espressioni di una esistenza alquanto primitiva, legata alla campagna e a piccoli centri, con forme qualitative, anche guerriere, sacerdotali e simboliche, e con risalto dato al dominio delle arti, ma di piccolo formato e di breve respiro, comunque prive di relazione con qualcosa di trascendente e di spirituale in senso superiore. Giacché lo Spengler, in base alla sua filosofia della vita, sa sentire soltanto il valore di ciò che è confusamente vitale, che è irrazionalmente e quasi inconsciamente vissuto: le forme di una coscienza superiore e di una trascendenza staccata dalla vita, ordinatrice e dominatrice della vita, che esistettero al centro di tutte le maggiori civiltà tradizionali, lui le include già nelle fasi della degenerescenza cittadina, del distacco dalle origini, della tirannia che l’«essere desto» intellettualizzato esercita sul substrato materno della vita e dell’«essere».

Giambattista Vico

Di passata, si può accennare che questa è la ragione per cui se lo Spengler dà tanta importanza al mondo dei simboli e dei miti, ciò non va per nulla incontro alla tendenza tradizionalista, che riporta quel mondo a dei contenuti metafisici: i simboli e i miti per lo Spengler hanno più o meno lo stesso significato «vitale» confuso e degradato ad esso attribuito dagli irrazionalisti e dai psicoanalisti: sono manifestazioni dell’inconscio substrato della vita, di qualcosa che sta non al di là ma al di qua del mondo di ogni persona normale e desta.

È  cosa singolare che nello Spengler non si trovi il menomo riferimento al Vico: egli o ha del tutto ignorato, o ha creduto bene passar sotto silenzio questo pensatore la cui teoria dei ricorsi storici ha analogia con quella spengleriana, ma, a parte varie imperfezioni e divagazioni, si trova anche in vantaggio su essa in fatto di definizione di categorie storiche. Per altro, tale superiorità si deve al fatto che il Vico trasse la sua ispirazione da una delle formulazioni della già accennata, antica dottrina circa il succedersi, in senso involutivo, di singole fasi di civiltà. Come è noto, il Vico distingue nello sviluppo ciclico il periodo sacrale da quello eroico, che poi trapassa nel periodo soltanto umano e razionalistico (la «barbarie della riflessione»), più o meno equivalente alla spengleriana fase di «civilizzazione», essendovi considerato lo stesso fenomeno finale di una «monarchia» da intendersi a un dipresso come un «cesarismo». Lo schema spengleriano è più incompleto di quello del Vico perché allo Spengler la sua confusa, irrazionalistica interpretazione della spiritualità delle origini, il suo concepire coesistenti fin dall’inizio in una opposizione esistenziale sacerdotalità e nobiltà, toglie la possibilità di distinguere adeguatamente la fase sacrale da quella eroico-guerriera. Del resto, a tanto sarebbe stata necessaria una considerazione della «dimensione metafisica» delle civiltà che nella storiografia spengleriana manca (è significativo che vi si parla sempre di «anima», mai di «spirito» di una civiltà), mentre in essa ha rilievo eccessivo la considerazione di tutto quanto ha riferimento al dominio delle arti: delle arti prese più che altro in un senso umanistico. E nel complesso si ha la sensazione che la sua morfologia si riduca quasi a una «psicologia» delle civiltà (donde il ricorrere del termine «fisiognomica») invece di essere al servigio di una vera filosofia o metafisica della storia.

Nell’immagine in evidenza, “Uttewalder Grund” di Caspar David Friedrich (1825).

Segue nella seconda parte



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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