La Prefazione di Evola al “Tramonto” di Spengler (seconda parte)

Seconda parte della prefazione che Evola abbinò alla sua storica traduzione per Longanesi, nel 1957, di Der Untergang des Abendlandes, “Il Tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Il barone si sofferma qui, in particolare, sul “cesarismo” nella concezione dello scrittore tedesco, e su alcune criticità del suo sistema. Nel finale, un’interessante breve appendice in cui Evola spiega alcune sue scelte tecniche da traduttore del difficile lessico di Spengler. Con l’occasione, abbiamo pensato di riportare in nota, in relazione ai commenti terminologici del barone, qualche breve commento della professoressa Rita Calabrese Cottone, la quale, all’epoca ricercatrice, fece parte del gruppo di lavoro organizzato presso la cattedra di lingua e letteratura tedesca della facoltà di Magistero dell’Università di Palermo, che apportò alcuni correttivi alla traduzione di Evola, per la versione dell’editore Guanda del 1978.

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di Julius Evola

Prefazione a “Il Tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler (1957)

segue dalla prima parte

Vale accennare ancora al fenomeno cesaristico quale lo concepisce lo Spengler. Le cose sarebbero così, che nel corso della fase di «civilizzazione» di ogni ciclo (ma qui il riferimento diviene specifico, è l’Occidente che lo Spengler ha evidentemente in vista), dopo che la civiltà tecnica, il regno della macchina e dei tecnici ha trionfato su tutto il resto, su di questo saranno le potenze della finanza e del capitale a dominare (essenzialmente nel segno della democrazia), e alla fine si accenderà una lotta a morte fra i signori del denaro e gli «individui cesarei», identica alla lotta fra economia e pura politica. Gli individui cesarei spezzeranno la tirannia dell’oro e instaureranno l’epoca della politica assoluta. Qui s’incontra una curiosa, contraddittoria interferenza di motivi: perché a tal punto secondo lo Spengler risorgerebbero anche, miracolisticamente, valori etici, di razza e di tradizione, valori che non si sa come possono essere sopravvissuti alle distruzioni che caratterizzano tutta la fase esaurita di «civiltà». Non si vede come ci si possa attendere che in questi «grandi individui» sorga un senso di responsabilità, di onore, di sollecitudine per tutto ciò che essi, col loro potere assoluto, avranno sottratto al dominio dell’oro e riportato sotto la sovranità del puro principio politico.

“Asgardsreien” di Peter Nicolai Arbo, 1872 (dettaglio) – rappresentazione della cd. “Caccia selvaggia”, prefigurazione simbolica della battaglia finale del Ragnarökkr

Il cesarismo spengleriano si definisce essenzialmente come la potenza informe di singoli individui, alla quale fa da degno sfondo la filosofia spengleriana che afferma il primato della realtà e dei fatti sulla verità, della potenza sui principi, della «vita» su ogni forma di esistenza superiore. Si è quindi in clima di schietto machiavellismo, e la prognosi profetica nel tempo in cui fu formulata, tolti gli orpelli, ci mette semplicemente dinanzi al totalitarismo, visto con ragione come un fenomeno inevitabile in tempi di «civilizzazione». Ciò che viene aggiunto in fatto di valori tradizionali e aristocratici è un non-senso: in tal caso, non si tratterebbe più dell’individuo cesareo (sempre a voler seguire lo Spengler in una abusiva e unilaterale interpretazione del Cesare) e nemmeno napoleonico, bensì del tipo del capo o sovrano legittimo, il cui luogo o ambiente storico non è la «civilizzazione» bensì la «civiltà».

Questa ambiguità non è forse priva di relazione con l’effetto che su Mussolini fece la teoria spengleriana della procrastianta èra cesarea; per questo egli volle che l’opera dello Spengler Anni decisivi, ove tale teoria viene messa in rilievo, fosse tradotta in italiano, probabilmente perché vedeva in se stesso uno dei nuovi dominatori in funzione dell’assoluto principio politico: portando però poca attenzione al luogo storico che in Spengler, malgrado tutto, ha il cesarismo, all’appartenenza intrinseca di questo al clima di una civiltà agonizzante e ormai del tutto degradata e sconsacrata.

Vero è, però, che, a seguir lo Spengler, vi sarebbe una sola etica, un solo imperativo: quello biologico, di realizzare ciò che corrisponde alla fase ciclica in cui ci si trova a vivere. Anzi l’alternativa sarebbe: o non esser nulla, o esser ciò che un dato periodo storico esige, in ogni dominio, sotto specie di un destino. E in clima di civilizzazione sarebbero solo up to date le accennate forme politiche.

Mussolini ed Hitler, nei confronti dei quali Spengler espresse valutazioni molto diverse in relazione alla sua concezione dei “nuovi Cesari” che avrebbero dovuto dominare le masse e reagire alla tirannia del denaro e della tecnica

Nella Germania nazionalsocialistica quello dello Spengler rappresentò invece un caso tutto speciale. Dinanzi al «cesarismo» hitleriano, più spinto e, in sé (cioè a prescindere da forze diverse associatesi), più plebeo di quello mussoliniano, lo Spengler vide quasi la sua teoria messa al banco di prova, e l’uomo Spengler, se non il filosofo che aveva già esaltato un Cecil Rhodes, non si sentì l’animo di seguirlo. Come lo Jünger, il von Salomon, il Blüher e vari altri esponenti della cosiddetta «rivoluzione conservatrice», che pur in più di un riguardo avevano preparato il nazionalsocialismo, lo Spengler si tenne piuttosto in disparte. E fu ricambiato: gli ambienti nazisti più spinti tennero in un certo sospetto lo Spengler non tanto in quanto teorico del cesarismo, dell’irrazionalismo biologico e della volontà di potenza, quanto per tutto ciò che, secondo l’incoerenza già accennata, lo faceva apparire come affermatore, anche, dei valori di un prussianesimo conservatore e aristocratico, reazionario e sospetto agli occhi di quegli ambienti.

Per una disamina circa il valore delle vedute dello Spengler sulle varie civiltà e sui vari momenti di esse, questo non è certo il luogo. Troppe sarebbero le cose da rettificare, per la loro unilateralità o addirittura per la loro erroneità. Si deve allo Spengler la scoperta della cosiddetta «civiltà magica» quale unità distinta. Il suo termine di «civiltà faustiana» e di «uomo faustiano» è, nel frattempo, divenuto quasi corrente in vari scrittori: ma molto vi sarebbe da dire circa il senso della civiltà faustiana, che lo Spengler identifica a quella occidentale, che egli fa cominciare col goticismo, considerando peraltro come inesistente tutta la preistoria indoeuropea, per non dire iperborea, che le propaggini gotiche e germaniche avevano dietro di sé. Né egli si accorge che alcuni presunti tratti specifici della civiltà faustiana (il culto dell’Io, il psicologismo, la spinta romantica verso l’illimitato, ecc.) altro non sono che i prodromi della crisi che doveva caratterizzare la civilizzazione occidentale. Sull’opposizione fra civilità occidentale (faustiana) e civiltà classica («antica») si torna sempre di nuovo e oltre misura. E purtroppo si tornano a udire i vieti argomenti circa la civiltà greco-romana come civiltà del corporeo, del finito, del vicino, aggiungendovisi la fiaba dell’«apollinismo» considerato quasi come un sinonimo di tutto ciò. Civiltà greca e civiltà romana vengon considerate come parti di uno stesso organismo o ciclo storico quasi nei termini delle corrispondenti fasi di civiltà e di civilizzazione, mentre si sa bene per quali fattori profondi esse rappresentarono due unità culturali distinte. Infine il lettore non potrà non allibire nell’udire ciò che lo Spengler dice sul buddhismo, sul taoismo, sullo stoicismo e sul pitagorismo. Ma non essendo, come si è detto, il caso di addentrarsi in una critica, a seconda dei principi di cui disponde il lettore vedrà lui come orizzontarsi e come separare, nel complesso abbastanza confuso dell’opera spengleriana, quel che malgrado tutto ha un valore positivo e si presta a una adeguata utilizzazione in sede di storiografia morfologica da quel che deve esser lasciato senz’altro cadere.

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Lo stile usato dallo Spengler in quest’opera è tutt’altro che piano, sia come lingua che come articolazione del pensiero. Per cui, se il lettore avvertirà un qualche disagio, egli non deve farne ricadere sul traduttore la colpa, le libertà del quale non potevano andare fino al punto di riscrivere quasi tutto con diverse parole, prendendosi in più di un punto la responsabilità di interpretazioni puramente probabili.

A parte lo stile in genere, si ha anche a che fare con una speciale terminologia o con un uso tutto particolare di termini correnti. Al che il lettore dovrà a poco a poso assuefarsi. Ci limitiamo a pochi rilievi, per un iniziale orientamento.

Il termine tedesco die Antike vuol dire l’antichità nel senso specifico di civiltà greco-romana (per cui der antike Mensch, die antike Kunst, ecc. vogliono dire l’uomo, l’arte, ecc. di quella civiltà). Lo Spengler usa il termine appunto in tal senso e si oppone all’utilizzazione dell’espressione «classicità». Ciò malgrado, questa espressione, qua e là, è stato indispensabile usarla; per il resto, il solo termine italiano a disposizione è «antico»; ma civiltà «antica», ripetiamolo, per lo Spengler non è ogni civiltà del passato, ma solo quella dell’antichità greco-romana (1).

Quando poi lo Spengler parla di civiltà «occidentale», egli intende il ciclo della civlità faustiana o euro-occidentale (e poi anche americana), che si sarebbe iniziato verso il mille d.C.: non ogni civiltà occidentale, nei diversi periodi storici.

Landschaft in tedesco vuol dire «paesaggio». Lo Spengler usa però il termine in un significato complesso, non pittorico e panoramico: con riferimento alla particolare «natura», intesa come un insieme non soltanto geografico e climatico, ma altresì psichico e animico, che costituisce il suolo materno di una data civiltà. Anche i traduttori in altre lingue non hanno saputo far altro che usare i termini corrispondenti: per esempio paysage in francese, landscape in inglese.

Erleben, erlebnis, l’esperienza vissuta, è in genere uno scoglio nelle traduzioni dal tedesco, e in Spengler è termine che, data la sua filosofia irrazionalistica, si incontra a ogni piè sospinto. A esso fa riscontro un uso curioso delle parole Geist e geistig, cioè «spirito» e «spirituale», che spessissimo sono usate per designare l’opposto dell’Erleben, ossia tutto ciò che è intellettualistico, razionalistico, astratto, cerebrale. A evitare confusioni, talvolta ci siamo presi la libertà di tradurre con queste espressioni più adeguate.

“Lichtgebet” (preghiera alla luce) di Hugo Höppener detto Fidus (1894)

Altrove il lettore dovrà orientarsi da sé, non essendo raro il caso in cui lo Spengler associa paradossalmente nello stesso termine Geist, «spirito», cose così diverse quali l’illuminismo, il razionalismo cittadino, lo spirito religioso, la sapienza o gnosi, la speculazione scientifico-filosofica, come un insieme contrapposto in egual misura a tutto ciò che è «vita» ed «esperienza vissuta».

In relazione a ciò va anche segnalato il termine spengleriano, anch’esso ricorrentissimo, Wachsein, che si può solo tradurre con «essere desto» (l’essere desto e l’esser desti). L’essere desto si definisce appunto come «spirito», come chiarezza intellettualistica opposta all’intuizione vitale, all’esperienza vissuta, all’immediato «essere». È, questa, una posizione che riecheggia le vedute di uno Schopenhauer, di un von Hartmann e di un Bergson e che conduce in linea diretta fino a quelle di un Klages, di uno Jung e di altri psicanalisti. Dalla terminologia ora accennata si vede infatti che per lo Spengler è come se l’essere desto escludesse tutto ciò che è vita o «essere» e come se la vita e l’«essere» escludessero tutto ciò che è coscienza, chiara visione, conoscenza. L’esistenza di un terzo termine, anteriore e superiore all’antitesi di intuizione irrazionale e di intelletto astratto, lo Spengler sembra ignorarla del tutto (2).

Al senso complesso e vario secondo cui lo Spengler usa il termine «imagine» (Bild), il lettore dovrà a poco a poco abituarsi (3). Circa il termine difficile a tradurre esattamente Stand, Stände (casta, classe sociale, corporazione: cfr. Ständestaat) e circa qualche altro termine speciale si daranno chiarimenti a suo tempo, in nota, all’incontrarli. Il termine Gleichzeitig, «simultaneo», «contemporaneo», è stato tradotto con «sincrono»: dallo Spengler è usato per fenomeni o figure che occupano lo stesso «luogo» nel ciclo di diverse civiltà (qualcuno ha tradotto invece con «coevo») (4). Nel complesso, è solo assuefacendosi gradatamente allo stile e alla mentalità dello Spengler che il lettore potrà superare le difficoltà che lo studio di questo libro presenta.

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Note lessicali della professoressa Rita Calabrese Cottone (tratte dalla “Nota sul lessico” all’edizione del “Tramonto” di Guanda, 1978):

(1) “Alla medesima presunzione di classicismo va probabilmente ricondotta la sistematica traduzione (da parte di Evola, ndr) dell’aggettivo antik e del sostantivo Antike (propriamente ‘classico’, ‘classicità’, con riferimento alla Grecia e a Roma) con ‘antico’, ‘antichità’, quasi che – almeno per gli italiani – l’unica vera antichità sia quella greco-romana (va precisato che, nel rivedere la traduzione di Evola, abbiamo eliminato l’equivalenza antik= ‘antico’, quando portava a palesi incongruenze storiche)”;

(2) “Sia la natura che la storia presuppongono la condizione di Wachsein (stare desto), termine alle cui origini sta probabilmente un frammento di Eraclito, con cui Spengler intende la consapevolezza di sé e la capacità di comprendere il mondo circostante, ciò che altrimenti sarebbe contrapposizione tra anima e mondo. Nello ‘stare desto’ si distinguono vari gradi di chiarezza, tutta una gamma che va da verstehende Empfinden (sensazione intellettiva) del primitivo e del bambino, fino al puro ‘stare desto’ di Kant”;

(3) “Bildung (formazione) presuppone una predisposizione naturale, si trasmette con i libri, può affinare la ‘disciplina’, ma non mai sostituirla”;

(4) “Gleichzeiting (sincronico) indica (nel sistema spengleriano, ndr) l’unico tipo di confronto o rapporto che può essere insturato tra le diverse civiltà”.

Nell’immagine in evidenza, La caduta dell’Impero Romano d’Occidente dipinta da Thomas Cole (1836) 



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