(Tratto da «La Difesa della Razza», II, n. 24)
Nel nostro precedente articolo (n. del 20 novembre), trattando delle possibilità che il fatto “guerra” e l’esperienza eroica possono offrire per un risveglio di forze profonde, connesse al substrato stesso della razza, abbiamo visto che, in via generalissima, si presentano due casi distinti, anzi opposti: la crisi della piccola personalità borghese, addomesticata, conformista, intellettualoide, o vuotamente idealista, in un primo caso può risolversi in un crollo, significante emergenza di forze e di istinti elementari, che in guerra riportano il singolo allo stadio prepersonale delle «razze di natura »: razze, che si esauriscono in un fascio di istinti, sia di conservazione che di affermazione selvaggia. In un secondo caso, invece, tutto ciò che di più «elementare» e di non-umano può attuarsi nella esperienza eroica diviene un mezzo di trasfigurazione, di elevazione e integrazione della personalità in un modo — per dir così – trascendente d’essere. Mentre in ciò si compie una evocazione di quel che noi abbiamo denominato «razza dello spirito», cioè dell’elemento spirituale, dall’«alto», che nelle stirpi superiori agisce formativamente sulla parte puramente biologica e sta alla radice della loro «tradizione» e della loro fatidica grandezza — simultaneamente, dal punto di vista del singolo, si hanno esperienze, che l’antichità, e specificamente l’antichità aria, considerò non meno ricche di frutti sovrannaturali di quelli dell’ascetismo, della santità e persino della iniziazione.
Ricordato in questi termini il nostro punto di partenza, precisiamo i soggetti che noi intendiamo ulteriormente sviluppare.
Anzitutto, secondo quanto annunciammo, vogliamo produrre una breve documentazione per far vedere che l’accennata concezione dell’eroismo, lungi dall’essere il prodotto di una nostra particolare speculazione o una vuota proiezione retorica, risponde ad una precisa tradizione ricorrente in tutta una serie di civiltà antiche. In secondo luogo, vogliamo sviluppare la concezione aria della «vittoria», intesa come un valore appunto «mistico », strettamente connessa ad una rinascita interiore. Infine, passando ad un piano più concreto, vogliamo vedere quale è, in genere, il comportamento delle varie razze in relazione a quest’ordine di idee. Nel presente articolo esauriremo il primo punto.
In via generale, rileviamo che soprattutto per l’antica umanità aria ogni guerra appariva come la immagine di una lotta perenne fra forze metafisiche: da un lato stava il principio olimpico e luminoso, la realtà uranica e solare; dall’altro, stava invece la forza bruta, l’elemento «titanico», tellurico, «barbarico» in senso classico, il principio demonico-feminile del caos. Sempre ricorre, sotto rivestimento simbolico, nella mitologia ellenica questa veduta; in termini ancora più precisi e radicali essa si riafferma nella visione generale del mondo propria alle razze ìrano-arie, che si consideravano direttamente come militia del Dio luminoso in lotta contro la potenza delle tenebre; esse permangono in tutto il Medioevo, spesso conservando, malgrado la nuova religione, motivi classici. Così lo stesso Federico I di Svevia, nella lotta contro i comuni in rivolta, rievocava il simbolo di Eracle e dell’arma con cui questo eroe simbolico delle stirpi dorico-arie e acheo-arie combattè quale alleato delle forze «olimpiche» e avversario delle oscure creature del caos.
Una tale concezione generale, intimamente vissuta, non poteva non riflettersi anche nelle forme più concrete di vita e di attività, fino ad elevarle ad un significato di simbolo e quasi diremmo di «rito». Ai nostri fini, vale rilevare particolarmente la trasformazione della guerra in «via di Dio» e in «grande guerra santa». Deliberatamente tralasciamo qui le documentazioni proprie alla romanità, perché esse le utilizzeremo trattando, nel prossimo articolo, della «mistica della vittoria». Cominceremo invece col riferire le testimonianze, del resto abbastanza note, relative alla tradizione nordico-aria. In essa il Walhalla è la sede di una immortalità riservata eminentemente agli eroi caduti sul campo di battaglia. Lo stesso Signore di questa sede, Odhin-Wotan, dalla Ynglingasaga ci vien presentato anche come colui che col suo sacrificio simbolico all’albero cosmico Yggdrasil avrebbe mostrato agli eroi la via che conduce fino a quel soggiorno divino, ove si vive eternamente, come in una vetta luminosa splendente oltre le nubi.
Secondo questa tradizione, nessun sacrificio o culto è più gradito al Dio supremo, quanto quello che compie l’eroe che combatte e cade sul campo di battaglia. Ma vi è di più, vi è una specie di controparte metafisica riprendente la veduta poco su accennata: le forze trasumanate degli eroi che, cadendo, hanno sacrificato a Odhin, andrebbero ad accrescere la falange di cui questo dio ha bisogno per combattere contro il ragna-ròkkr, cioè il destino di «oscuramento del divino» che incombe sul mondo da lontane età. Nell’Edda è infatti detto che «per grande che sia il numero degli eroi raccolti nel Walhalla, essi non saranno mai troppi per quando verrà il Lupo». Il «Lupo» qui è il simbolo di una potenza oscura e selvaggia che, in precedenza, alla stirpe degli «eroi divini», o Asen, era riuscito di incatenare e soggiogare: l’«età del Lupo» è più o meno la corrispondenza dell’«età del ferro» della tradizione classica e dell’«età oscura» — kali-yuga — di quella indo aria: si allude, per simboli, ad un’era di scatenamento di forze puramente terrestri e sconsacrate.
Importante è rilevare che analoghi significati permangono e si ritrovano sotto la veste esteriore cristiana propria all’ideologia medievale delle Crociate. Qui la liberazione del Tempio, la conquista della Terra Santa, ebbero molte più connessioni, di quel che non si supponga, con le antiche tradizioni arie relative appunto al mistico Asgard, concepito come una lontana terra degli eroi, ove non regna la morte e i cui abitanti godono di una vita incorruttibile e di una calma sovrannaturale. La «guerra santa» appariva come una guerra tutta spirituale, tanto che dagli antichi cronachisti poté venir letteralmente paragonata a «un lavacro, che è quasi fuoco di purgatorio prima della morte»: chiaro riferimento al significato ascetico della lotta. «Quale gloria per voi, non uscir dalla mischia che coperti di allori. Ma quale maggior gloria è mai quella di guadagnare sul campo di battaglia una corona immortale» — diceva ai Crociati, con speciale riferimento ai Templari, un Bernardo di Chiaravalle nella sua Laude de nova militia. La «glorie asolue», quella stessa attribuita al Signore nell’alto dei cieli — in excelsis Deo — era promessa al guerriero nei testi provenzali. Inoltre i rovesci militari subiti dalle Crociate, fonte, in un primo momento, di sorpresa e di sgomento, valsero a purificare il concetto stesso di guerra da ogni residuo di materialità e di superstiziosa devozionalità. La sorte infelice di una crociata fu paragonata dai Papi e dai predicatori a quella della vita sventurata, la quale non sarebbe giudicata e ricompensata che in termini di una vita e di una giustizia non terrene. Con ciò, si veniva a porre qualcosa di superiore sia al vincere che al perdere e a concentrare ogni valore sull’aspetto spirituale dell’azione.
Ci avviciniamo così al lato più interno dell’esperienza eroica secondo il suo valore ascetico: ad individuare ulteriormente il quale, non deve stupire che noi ora ci riferiremo anzitutto ad una tradizione che, come quella islamica, apparentemente, sembrerebbe il polo opposto di quella or ora indicata. La verità è che nelle Crociate si trovarono di fronte razze guerriere le quali, in fondo, si combattevano vivendo nella guerra uno stesso significato supermateriale.
Ma, in più, nella tradizione islamica le idee, che ora esporremo, sono essenzialmente da considerare come l’eco di una concezione originariamente persiana (ario-iranica), assunta poi dalle razze arabe.
Nella tradizione islamica, dunque, incontriamo il nucleo centrale di tutto l’ordine di idee qui trattato, nella teoria della duplice guerra, cioè della «piccola e della grande guerra santa». Come «piccola guerra» qui vale le guerra materiale, combattuta contro un popolo nemico e, in particolare contro l’ingiusto, il «barbaro» o l’«infedele», nel quale caso essa diviene la «piccola guerra santa», identica alla Crociata nel suo significato esteriore fanatico e semplicemente religioso. La «grande guerra santa» è invece d’ordine spirituale e interiore: è la lotta dell’uomo contro i nemici che egli porta con sé, o, più esattamente, la lotta dell’elemento sovrumano dell’uomo contro tutto ciò che è istintivo, passionale, soggetto alle forze di natura. La condizione per l’interna liberazione è che un tale nemico, l’«infedele» e il «barbaro» in noi, sia abbattuto e ridotto in ceppi.
Ciò premesso, l’essenza della tradizione in parola sta nel concepire la piccola guerra, cioè quella concreta, armata, come una via attraverso la quale si può realizzare la «grande guerra santa», la guerra interiore, in perfetta simultaneità. Per tale ragione, nello Islàm «guerra santa» e «via d’Iddio» — jihad — sono termini spesso usati come sinonimi. E noi leggiamo nel Corano: «Combattono nella via d’Iddio [cioè nella guerra santa] coloro che sacrificano la vita terrena per quella avvenire: poiché a chi combatterà nella via d’Iddio, e sarà ucciso, oppure vincitore, noi daremo un possente premio». E ancora: «Di coloro che restano uccisi nella via d’Iddio, le opere non andranno perdute. Dio li dirigerà e disporrà il loro animo. Li farà quindi entrare nel Paradiso che egli ha loro rivelato». In queste ultime parole si allude al caso di una morte effettiva sul campo, la quale dunque va ad assumere lo stesso significato che nell’antichità classica ebbe l’espressione: mors triumphalis, morte trionfale. Ma la stessa concezione può anche esser presa in senso simbolico, pensando che chi nella «piccola guerra» ha saputo vivere una «grande guerra santa» anziché lasciarsi travolgere dalla corrente delle forze inferiori destate dalla vicenda guerresca nel suo essere, come accade nel già accennato eroismo alla Remarque o alla Quinton (vedi il precedente articolo), questi ha evocato, in ogni caso, una forza capace, in via di principio, di fargli vincere la crisi della morte. In altri termini, anche senza essere uccisi si può aver vissuta la morte, si può aver vinto, si può aver realizzato la culminazione propria ad una «supervita». Da un punto di vista superiore, «Paradiso», «regno celeste», sono, nella stessa misura che il Walhalla, l’ellenica «Isola degli Eroi» ecc., soltanto figurazioni simboliche, forgiate per le masse, figurazioni che in realtà designano stati trascendenti della coscienza, al disopra di vita e di morte. L’antica tradizione aria ha il termine jivan-mùkti per indicare una realizzazione del genere ottenuta già nel corpo mortale.
Passiamo ora ad una esposizione puramente metafisica della dottrina in parola. La troviamo in un testo delle antiche razze indo-arie, improntato a un senso tale della realtà eroico-spirituale, che esso raramente trova riscontro altrove. È la Bhagavad-gìtà, parte dal poema epico Mahabharata, il quale, per un occhio esperto, contiene un materiale prezioso non solo nei riguardi della spiritualità delle antiche razze arie emigrate in Asia, ma dello stesso nucleo «iperboreo» di esse che, secondo le vedute tradizionali a cui la nostra concezione della razza si rifà, va considerato all’origine di esse tutte.
La Bhagavad-gità, contiene, nella forma di un dialogo, la dottrina impartita dalla divinità incarnata Krshna ad un principe guerriero, Arjùna, che a lei si era rivolto nel momento in cui, colto da scrupoli umanitari e sentimentalistici, non sapeva più decidersi a scendere in campo contro il nemico. Il giudizio del Dio è categorico: egli definisce «molle vincolo dell’animo», «viltà indegna per un nobile, che allontana dal Cielo» la pietà che aveva trattenuto Arjùna dal combattere. Dunque non in base a necessità terrestri e contingenti, ma a un giudizio divino vien qui confermato il dovere di combattere. La promessa è: «Ucciso, avrai il paradiso, vittorioso avrai la terra. Perciò sorgi risoluto alla battaglia».
L’orientamento interno, necessario per trasfigurare la «piccola guerra» in «grande guerra santa», in morte e resurrezione trionfale e per poter prender contatto, attraverso l’esperienza eroica, con la radice trascendentale del proprio essere, è dichiarato nettamente da Krshna: «Dedicando a me tutta l’azione [dice il dio] con la mente fissa nello stato supremo dell’Io, lontano dall’idea di possesso, liberato dalla febbre mentale, combatti». In termini parimenti chiari si dice circa la «purità» dell’azione eroica, che deve esser voluta per se stessa, al di là di ogni motivazione contingente, di ogni passionalità, di ogni volgare utilità. Le parole del testo sono: «Mettendo al pari piacere e dolore, profitto e perdita, vittoria e sconfitta, armati per la battaglia. In tal modo non vi sarà colpa nella tua azione». Ma si va ancor più oltre, si procede ad una vera e propria giustificazione metafisica della guerra. Cercheremo di esperia nel modo più accessibile possibile. Il testo parte da una distinzione fondamentale: quella fra ciò che nell’uomo è, in senso supremo, spirito, e come tale è incorruttibile e immutabile e ciò che come elemento corporeo e umano ha solo una illusoria esistenza. Ciò posto, da un lato si mette in rilievo l’irrealtà metafisica di quel che si può perdere o far perdere in una vicenda di combattimento, come vita caduca e corpo mortale (non vi è nulla di doloroso e di tragico — si dice — che cada, ciò che fatalmente è destinato a cadere); dall’altro lato, viene ricordato quell’aspetto del divino, secondo il quale esso appare come una forza assoluta e travolgente.
Di fronte alla grandezza di questa forza (che vien fatta balenare ad Arjùna nell’attimo di una visione sovrannaturale), ogni esistenza creata, cioè condizionata, appare come una «negazione». Può dunque dirsi che detta forza folgori ed abbia una terribile rivelazione dovunque tale «negazione» venga attivamente negata, vale a dire, in termini più concreti e intelligibili, dovunque un impeto travolge ogni vita finita, ogni limitazione del piccolo individuo, o per annientarlo, o per farlo risorgere in alto. Peraltro il segreto del «divenire», dell’inquietudine fondamentale e del perenne mutamento che caratterizza il mondo di quaggiù, viene dedotto proprio dalla situazione di esseri, in sé finiti, che pur partecipano oscuramente a qualcosa d’infinito. Gli esseri che secondo la terminologia cristiana si direbbero «creati», secondo quella della antica tradizione aria, invece, «condizionati», divengono, trasmutano, scompaiono, appunto perché in seno ad essi arde una potenza che li trascende, una potenza che vuole qualcosa di infinitamente più vasto di tutto ciò che essi mai possano volere. Una volta che il testo, in vario modo, ha dato il senso di una tale visione della vita, esso va a precisare ciò che il combattere e l’esperienza eroica debbono significare per il guerriero.
I valori si capovolgono: attraverso la morte si manifesta una vita superiore, la distruzione, per chi si porta di là da essa, è una liberazione — proprio nei suoi lati più paurosi l’impeto eroico appare come una specie di manifestazione del divino, secondo l’aspetto già accennato, di forza metafisica di distruzione del finito — nel gergo di certi filosofi moderni si direbbe: di negazione della «negazione». Il guerriero che infrange «il molle vincolo dell’anima», che affronta la vicenda eroica «con la mente fissa nello stato supremo dell’Io» raggiungendo un piano in cui sia l’«io» che il «tu», quindi sia paura per sé, sia pietà per gli altri, perdono ogni significato, in tale vicenda può dirsi che assuma attivamente la forza divina assoluta, in essa si trasfiguri e si liberi, infrangendo le limitazioni relative al mero stato umano di esistenza. «La vita — come un arco; — l’animo — come un dardo; il bersaglio da trafiggere — lo spirito supremo: unirsi a questo spirito come la freccia scagliata si configge nel suo bersaglio» — queste sono le espressioni suggestive contenute in un altro testo della stessa tradizione, il Màrkandeya-puràna. Tale, è, in breve, la giustificazione metafisica della guerra, la interpretazione sacra dell’eroismo, la trasformazione della «piccola guerra» in «grande guerra santa» secondo l’antica tradizione indo-aria la quale ci dà dunque nella forma più completa e diretta l’intimo contenuto presente anche nelle altrui accennate formulazioni.
Qui, per finire, accenneremo ad ancora due punti.
Il primo riguarda la relazione significativa che, nella Bhagavad-gità, l’insegnamento ora esposto ha con ciò che è tradizione e razza. Nel capo IV, 1-3, è detto che questa è la sapienza «solare» ricevuta da Manu, il quale, come è noto, è il più antico legislatore «divino» della razza aria. Le sue leggi per quei ceppi ari, hanno avuto lo stesso valore, che per gli Ebrei ha il Talmud: costituiscono cioè la forza formatrice del loro modo di vita, l’essenza di quel che, in esse, è «razza dello spirito». Ora, questa sapienza primordiale, che già si trasmise in successione diretta, «col lungo andar dei tempi fu perduta nel mondo». Non ad un sacerdote, ma ad un principe guerriero, ad Arjùna, essa vien di nuovo rivelata, nei termini già detti. Realizzare questa sapienza calcando il sentiero dell’eroismo sacro e dell’azione assoluta, altro non può significare, dunque, che restaurazione, risveglio, ripresa di ciò che fu all’origine della tradizione, sopravvisse per secoli nelle oscure profondità della razza, si meccanizzò nelle forme del costume delle età successive. Si conferma, cioè, esattamente, il significato, da noi già indicato, che il fatto “guerra” in date condizioni può avere per la «razza dello spirito» e la sua ri-galvanizzazione.
In secondo luogo può notarsi che una delle cause principali della crisi della civiltà occidentale sta in una alternativa paralizzatrice, costituita da una parte da una spiritualità fiacca, astratta o convenzionalmente devozionale, ricca di appendici moralistiche e umanitarie; dall’altra, da uno sviluppo parossistico di tutto ciò che è azione, però in un senso materialistico e quasi barbarico. Questa situazione, ha cause remote. La psicologia insegna che l’inibizione trasforma spesso le energie represse e respinte nel subcosciente in causa di malattia e di isterismo. Le antiche tradizioni delle razze arie erano essenzialmente intonate all’ideale dell’azione: esse furono paralizzate e in parte soffocate dall’avvento del cristianesimo, il quale, non senza relazione ad elementi derivati da razze non-arie, nelle sue forme originarie, spostò essenzialmente la spiritualità dal dominio dell’azione a quello della contemplazione, della devozione e dell’ascesi monacale. Il cattolicesimo, è vero, cercò spesso di ricostruire il ponte infranto — e già qui, parlando dello spirito delle Crociate, abbiamo visto un esempio di questo tentativo. Ma l’antitesi fra spiritualità non attiva e attività non spirituale ha purtuttavia continuato a gravare sui destini dell’uomo occidentale e, negli ultimi tempi, si è risolta in uno sviluppo parossistico di tutto ciò che è azione nel senso già detto di azione materializzata e priva di ogni punto di riferimento trascendente, perfino là dove essa conduce a realizzazioni di indiscutibile grandezza.
Così stando le cose, può apparir ad ognuno chiara l’importanza che avrebbe la ripresa, naturalmente, in forme adatte ai tempi, della tradizione di un’azione, che sia nuovamente spirituale, giustificata, oltre che dalle necessità immediate di una data congiuntura storica, da una vocazione trascendente. Se, oltre che alla reintegrazione e alla difesa della razza del corpo, si deve procedere alla ricerca dei valori atti a purificare da ogni elemento eterogeneo e a portare ad un regolare sviluppo la razza dello spirito dell’umanità aria, noi crediamo che una nuova, vivente comprensione di insegnamenti e di ideali, come quelli qui brevemente rievocati, rappresenti, per noi, un compito di primo piano.
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