Nota introduttiva redazionale
Come osservato da Giovanni Monastra in un articolo che riproporremo fra pochi giorni sulla recezione in ambito internazionale di Rivolta contro il mondo moderno, in Italia l’opera più famosa di Evola ebbe, alla sua prima uscita nel 1934, poche recensioni, di diffusione modestissima. Il cosiddetto “mondo della cultura”, che fosse vicino o meno al regime fascista, la ignorò sistematicamente. Infatti, osserva Monastra, “né la cultura fascista, percorsa da fremiti vitalistici, futuristi, nazionalisti, idealistico-gentiliani, con alcuni, pesanti, e talora inconfessati, debiti verso l’ideologia giacobina e i miti della Rivoluzione Francese, né la cultura democratica antifascista, fortemente legata al pensiero illuminista e, più in generale, alla grande trasformazione ideologica operata nel Rinascimento, potevano apprezzare uno studioso che ridimensionava drasticamente il valore di Storia, Progresso, Scienza, Umanesimo, Modernità, Nazione”. Per un’analisi più dettagliata, rinviamo a questa imminente pubblicazione.

Filippo Burzio (1891–1948)
L’unica eccezione di rilievo in Italia fu solo quella di Filippo Burzio, giornalista, filosofo, politologo ed ingegnere specializzato in balistica, che dedicò all’opera evoliana una recensione dai toni assai favorevoli, riconoscendo la serietà dell’autore e la validità delle sue argomentazioni: recensione che merita di essere ripresentata ai lettori.
Filippo Burzio viene ricordato per lo più per i suoi importanti studi balistici, mentre non ha avuto particolare fortuna dal punto di vista filosofico. La sua concezione ruota intorno alla figura del Demiurgo, che Burzio riprese dal Timeo di Platone quale figura-simbolo del suo pensiero, e che viene anche citato en passant nella recensione a Rivolta. Non solo: Burzio, nella recensione che proponiamo, ricorda che Evola stesso scrisse un articolo sulla sua tesi del Demiurgo, rimproverando a questa figura, come tratteggiata dall’ingegnere torinese, di essere troppo intrisa di umanesimo, e consigliandogli di impostarla invece verso forme superpersonali.
Proprio per tutto questo è significativo spendere due parole, senza pretese di esaustività, su quest’autore molto poco conosciuto. Nella sua opera Il Demiurgo e la crisi occidentale (1933) Burzio tracciò le linee della sua ricetta per trarre fuori l’uomo occidentale dalla crisi profonda che l’attanagliava: si trattava della necessità di ricomporre la perniciosa separazione tra teoria e prassi. La demiurgia, scrisse Burzio, “piuttosto che una filosofia è un’arte di vita, una dottrina pratica dell’attività”, e “tende ad identificarsi con l’attività pura, quella cioè che varia e trapassa, impassibile ed alacre… è consapevole che nel “fare” esista una spiritualità che va oltre ai fini minuti dell’azione, agli esiti di una mera produzione materiale… va oltre anche alla cultura… per giungere alla vita”. “Tutto deve essere, più che si può presente e armonizzato in ogni attimo. (…) La forma dello spirito demiurgico è sferica, non c’è una faccia che predomini: esso è l’energia pura, perennemente dialettica, che non si lascia mai colare in nessuna forma stabilmente, poiché ogni cristallizzazione è una crisi di stanchezza, o una debolezza di inerzia”.

Il Demiurgo del mito platonico, mediatore fra mondo delle idee e materia, fu ripreso da Burzio come simbolo della sua sintesi ideale
E ancora: “La demiurgia è il possesso del presente. E’ il rispetto e l’ascolto del proprio ritmo interiore, è trasfigurazione di ogni istante. Vivere è un’attività pura che include ogni esercizio dell’essere, non vi è più antitesi tra vita attiva e vita contemplativa. L’una richiama l’altra, l’una è funzionale all’altra, in un rapporto reciprocamente dialettico – ermeneutico, non di causa ed effetto, non di soggetto-oggetto, ma di irradiazione dell’essere”. Burzio parlò di “spiritualizzazione della materia”, (…), di “restare nel tempo ma con animo eterno. L’eternità è fatta di tempo, non rinnegate per l’eternità il tempo, né per il tempo l’eternità”.
Echi talvolta confusi di organicismo, idealismo dialettico, vitalismo, immanentismo, misticismo, umanesimo, etica del lavoro ed altro, mischiati tra loro in modo da creare un quadro sicuramente poco omogeneo, si rintracciano del pensiero di Burzio, che cercò di trovare una sintesi unitaria che potesse abbracciare azione e teoria, spiritualità e praticità, eternità e tempo. Probabilmente, con una migliore formazione in senso realmente tradizionale alle spalle, le potenzialità di quest’autore avrebbero potuto trovare una più compiuta ed efficace via di espressione.
La recensione che vi presentiamo apparve per la prima volta sul Corriere Padano del 28 settembre 1935 e poi in Uomini, paesi, Idee, Bompiani, Milano, 1937. Successivamente trovò spazio in Omaggio a Julius Evola, a cura di G. De Turris, Volpe, Roma, 1973, e infine fu ripubblicata, nel luglio 2004, sul numero 47 di Margini, Letture e riletture, periodico della Libreria Ar.
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La Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola
di Filippo Burzio
Quando uno scrittore pone, ad epigrafe del capitolo conclusivo del proprio libro fondamentale , le seguenti parole del De Maistre: «Bisogna tenersi pronti ad un avvenimento immenso nell’ordine divino, verso il quale marciamo con velocità accelerata» – e questo scrittore ha la serietà di Evola, ci si può attendere che il suo libro non dica cose banali. Evola sta svolgendo e popolarizzando ormai da anni, dalla pagina filosofica quindicinale di Regime fascista, intorno al quale si raccoglie tutto un gruppo di scrittori, un’attività, che si concretò dapprima in difficili libri e in riviste per ristretti cenacoli: e tale attività col pensiero che la informa, mi sembrano tra i più singolari e significativi dell’ora presente.
Dire ch’essa rappresenti un indirizzo affine, sotto qualche aspetto, al Nazismo (allo stesso modo che, al polo opposto, l’atteggiamento delle riviste giovanili romane: Saggiatore, Oggi, Cantiere può definirsi più o meno filo-bolscevico) non è che un semplice schematizzare.
Vediamo qualche spunto del pensiero di Evola. Sua tesi fondamentale è la negazione dell’idea di evoluzione e di progresso: è, anzi, il concetto opposto, cioè è la natura decadente del mondo moderno: «nulla ci appare assurdo come l’idea del progresso, col suo corollario, la preminenza delle civiltà moderna». Opposta ad essa, la civiltà «tradizionale»: «per comprendere, sia lo spirito tradizionale che il mondo moderno in quanto negazione di esse, bisogna partire dall’insegnamento circa le due nature. Vi è un ordine fisico e vi è un ordine metafisico. Vi è la natura mortale e vi è la natura degli immortali. Vi è la regione superiore dell’‘essere’ e vi è quella infera del ‘divenire’. Vi è un visibile e un tangibile e, prima e di là da esso, vi è un invisibile e un intangibile, quale sopramondo, principio e vita vera… Il mondo tradizionale conobbe questi due grandi poli dell’esistenza, e le vie che dall’uno conducono all’altro. Conobbe la spiritualità come ciò che sta di là sia da vita che da morte. Conobbe che l’esistenza esterna è nulla, se non è un’approssimazione verso il sopramondo… Un mondo tradizionale conobbe la Divinità Regale. Conobbe l’atto del transito: la Iniziazione – le due grandi vie dell’approssimazione: l’Azione eroica e la Contemplazione – la mediazione: il Rito – il grande sostegno: La Legge tradizionale, la Casta – il simbolo terreno: l’Impero».
Vi rendete ben conto di quel che significa tutto questo? Il fatto, cioè, che questo linguaggio inaudito (voglio propriamente dire: non più udito da secoli o da millenni) sia contemporaneo del bolscevismo? E fino a qual punto (appoggiato più o meno alla forza del Nazismo, e ad altre), esso illumini di cruda luce le antitesi e le profondità abissali del nostro tempo? Né crediate si tratti di mera «religiosità» o di flebile «legittimismo», ché vuol essere invece l’eco di cose immensamente più profonde ed antiche: «Imperialismo pagano» è infatti il nome che gli dà il suo stesso autore.
In luogo dunque di «evoluzione» e di «progresso». Evola scorge la decadenza dal mondo tradizionale al moderno come crescente oblio della vera spiritualità, perdita di contatto col sovrannaturrale, caduta sempre più accelerata nel «tempo» e nella idolatria della «storia». Né è cosa di ieri. «Le prime forze di decadenza in senso moderno avrebbero cominciato a manifestarsi tra l’VIII e il VI secolo a. C…. Un secondo e più visibile momento di decadenza si ha con la caduta dell’Impero Romano e coll’avvento del Cristianesimo». Poi, una ripresa di civiltà tradizionale, nordico-ariana, col medioevo feudale, imperiale, cavalleresco, ghibellino: «una terza fase si inizia infine al tramonto del mondo feudo-imperiale, giungendo al punto decisivo con l’Umanesimo e con la Riforma… Da allora in poi, il processo sarà sempre più rapido, risolutivo, universale». Come ultime fasi, e con aspetti sempre più catastrofici, ecco, dopo la società capitalistico-borghese, la Russia e l’America.
Sgretolatosi con l’ultima guerra il blocco tradizionalistico dell’Europa centrale, «noi vediamo che le forze volte a travolgere le ultime dighe si centralizzano in due fuochi precisi… Ad oriente è la Russia, ad occidente è l’America… E’ cosa nota che la verità centrale del bolscevismo sia l’uomo collettivo, la distruzione, nell’uomo, di tutto ciò che può aver valore di autonomia e di personalità, che può costituirgli un interesse disgiunto dal puro colletivo… Se la Russia ravvisa, secondo la parola di Lenin, nel mondo romano-germanico il maggiore ostacolo per l’avvento dell’uomo nuovo, essa vede invece nell’America una specie di terra promessa… Nella grandezza smarrente delle metropoli americane ove il singolo – ‘nomade dell’asfalto’ – realizza la sua infinita nullità dinanzi alla quantità immensa, ai gruppi, ai trusts e agli standard onnipotenti; alle selve tentacolari di grattacieli e di fabbriche… In tutto ciò il collettivo si manifesta ancor di più, in una forma ancora più senza volto che non nella tirannide asiatica del regime sovietico».
Queste ultime citazioni in cui si conferma quanto, per mio conto, vado sostenendo da anni, mostrano uno dei punti essenziali del mio accordo con Evola. Né è esso il solo – però tale accordo non sembra estendersi oltre certi limiti. La mia difesa della personalità è umanistica (sia pure spiritualistica, alla Goethe e alla Bergson); ed Evola invece condanna l’umanesimo come una delle forme già progredite ed irrimediabili di decadenza dall’ideale tradizionale: «L’individualismo moderno è la prima faccia dell’umanismo… Individualismo, come pretesa prevaricatrice di un Io, che è semplicemente quello mortale del corpo… Con la rivolta dell’individuo, ogni coscienza del sopramondo è perduta. Allora resta come certa la sola visione materiale del mondo… Alla scienza si deve la profanazione sistematica dei due domini dell’azione e della contemplazione presso allo scatenamento della plebe sui mercati d’Europa».
Quanto ci sarebbe da dire su tutto questo? In un intelligentissimo articolo dedicato tempo fa alla mia concezione del «demiurgo», Evola gli ha rimproverato precisamente il suo umanesimo, consigliandogli di andare oltre, di «indirizzarsi alla realizzazione di forme effettivamente super-personali, di tendere ad una rinascita in una super-vita». Gli ha consigliato cioè, in parole povere, di tendere a farsi Dio. Il che era stato già un’aspirazione di Papini. Ora, in Evola la cosa è ben più seria, né io sono così sciocco da pigliare alla leggera, o da fraintendere, quel che egli vuol dire. Rispondo solo, per ora, alcune parole. Io considero il suo pensiero, e il movimento cui esso dà luogo, come una cosa, non solo significativa del nostro tempo, ma seria e importante, e vi simpatizzo sotto più di un aspetto: affine, nel suo carattere di «spiritualità eroica», a quanto va di meglio nel Nazismo «ghibellino» (quello, per intenderci, che richiama gli ideali guerrieri ed ascetici dell’Ordine teutonico); accolto nello stesso seno del Fascismo come uno dei suoi orientamenti possibili – io ravviso tutto ciò un sintomo di confortante ripresa dell’Occidente, un’alta possibilità di difesa dalla marea e dal disonore del materialismo russo-americano.
Lasciando da parte la questione metafisica – sul terreno storico un ideale ci unisce: la Cavalleria: ma la Cavalleria non era solo bellicosità, era anche generosità e pietà; in essa si realizzava veramente quella «sintesi cristiana» di cui ha ben parlato Giuseppe Piazza nei suoi studi critici sopra il Nazismo: ora, questo punto voi lo dimenticate. Non solo di eroismo ma anche di bontà, di generosità, di pietà il mondo contemporaneo ha bisogno come del pane: se no, fra poco esso diventerà inabitabile, l’atmosfera sociale irrespirabile. Si può essere eroici insieme e pietosi, coraggiosi ed umani, volitivi senza avere sempre l’insulto sulle labbra e la bava alla bocca. Ecco la sintesi cui mira il demiurgo. Del resto se essa non si realizzerà, penseranno fra poco gli scatenamenti di tutti contro tutti a darci retrospettivamente ragione. Bisogna finirla con questa feroce antitesi di una nietzschiana morale di signori opposta a una pretesa cristiana morale di schiavi: il fenomeno cavalleresco è là per mostrarci la sintesi. A questa, il demiurgo aggiunge poi ancora, per suo conto, due sublimi ingredienti: la poesia, per trasfigurare magicamente la vita (senza menomamente «eluderla», come teme Evola); la scienza per dominare la natura. Così munito (e senza escludere la possibilità di altre armi), il demiurgo ha qualche speranza di non venir messo completamente da parte, il giorno dell’assunzione eroica e del giudizio divino.
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