Riprendiamo con la serie di articoli evoliani dedicati al concetto di Stato in senso tradizionale. Dopo aver analizzato tappe e caratteristiche della caduta dell’idea di Stato nella storia, sia dal punto di vista morfologico che dottrinario, Evola passa alla pars construens, illustrando tappe e caratteristiche del processo ricostruttivo.
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di Julius Evola
(tratto da “Lo Stato“, V, 4, aprile 1934, pp. 253-265)
Nello scritto precedente abbiamo esaminato la caduta che l’idea di Stato ha subìto attraverso i tempi storici, cioè nello sviluppo della storia cui di solito si arrestano gli sguardi dei più. A individuar questa caduta, non nei suoi aspetti esteriori, recenti e consequenziali, ma in tutta la sua estensione, e, essenzialmente, in sede di qualità, ci è servita di base la dottrina della regressione delle caste, dottrina di cui abbiamo indicato le prefigurazioni tradizionali nei varii popoli. Tale dottrina ci mostra come il potere e l’autorità politica sia scesa gradatamente dall’uno all’altro dei piani e dei valori, che definivano originariamente la quadripartizione del tutto sociale in «superumanità regale», nobiltà guerriera, mercanti, servi. L’idea di Stato è dunque caduta dall’uno all’altro di questi piani, sboccando infine dall’organico nei meccanico, dal superpersonale nel subpersonale collettivistico materializzato – sovietizzato o standardizzato.
I tempi attuali si presentano effettivamente – ci sia lecito usare questa vieta espressione – come un punto svolta, in quanto che col bolscevismo, col «socialismo», [in] breve, con le varietà del collettivismo, siano pur esse mascherate da dittature, da sistemi nazionali o da ideologie razziste, con tutto ciò il processo di regressione sembra giunto al suo limite, onde lo sviluppo non può tardar troppo a prendere un’altra direzione, dato che più in basso non si può andare. Qui cade dunque il considerare la controparte costruttiva della nostra precedente esposizione. cioè l’esame della possibilità di una ricostruzione dell’idea di Stato, delle condizioni a cui essa è soggetta, delle relazioni che essa – sulla base di quanto abbiamo esposto – può avere con gli ideali di quelle forze rivoluzionarie, antiborghesi e antiproletarie, che ancora rimangono in piedi.

“La ideologia di Karl Marx ha servito di riferimento per la formazione e la costituzione in un ente di moderna potenza dell’antica sostanza promiscua e barbara del dèmos slavo”
Se il processo di regressione è quadripartito, vi è da pensare che anche il processo ricostruttivo debba attraversare quattro momenti successivi di integrazione non solo in sede di un sistema d’ordine (anche il bolscevismo ha valore di un tale sistema), ma anche e soprattutto in sede di affermazione di valori sempre più alti, sempre più liberi da ciò che, secondo un contaminante concetto materialistico, oggi solo si intende per «politica».
Il primo punto da mettere in rilievo è che, intanto, per i popoli europei, si è giunti ad un punto tale da dover pensare anzitutto ai pericoli estremi. Francesco Coppola, a suo tempo, ha trovato a tale riguardo una espressione assai felice, nel parlar della cattiva coscienza dell’Europa nei riguardi della crisi che la minaccia nei rapporti con i popoli non-europei (1). In realtà, l’Europa stessa, con le ideologie pervertitrici fiorite presso la sua decadenza, ha creato una specie di Nemesi, ha cioè propiziato proprio essa il formarsi e lo svilupparsi di forze extraeuropee, le quali l’hanno travolta. Infatti l’America è sorta portando alle estreme conseguenze gli ideali capitalistico-industriali e «attivistici» inizialmente glorificati dall’Europa liberalistico-illuminista quale vera «civiltà».
La ideologia di Karl Marx ha servito di riferimento per la formazione e la costituzione in un ente di moderna potenza dell’antica sostanza promiscua e barbara del dèmos slavo. Il famigerato principio dell’«autodecisione dei popoli», in connubio con l’altrettanto famigerato principio delle «nazionalità», che già aveva devastato la nostra grande civiltà ecumenica medievale, è stato la premessa per la rivolta dei popoli di colore, o almeno per una loro autonomia che pone fine ai sogni suprematisti della «razza bianca dominatrice del mondo». E così si potrebbe continuare. Per ‘Europa, in primis et ante omnia, si tratta dunque di aprir gli occhi di fronte a questa lezione della storia ultima, che è piena di profondo significato. Si tratta di comprendere che il compito primo è quello di una purificazione interna, cioè di una eliminazione di quelle ideologie antitradizionali, razionalistiche, materialistiche, meccanicistiche, antigerarchiche di cui essa si è infettata. L’Europa per prima deve offrire l’esempio della disintossicazione, cioè del rigetto di quelle ideologie, di cui l’Europa nulla sapeva, prima delle forme ultime della caduta dell’idea di Stato, prima dell’avvento del «terzo stato» e poi, addirittura, dell’internazionalismo socialista e della glorificazione del collettivo nelle varie forme della civiltà dell’oro e della macchina.
Il secondo punto sta nel riconoscere che la civiltà e la società moderna rappresentano una deviazione essenzialmente per questo: per i caratteri di una ipertrofia teratologica di certi valori nei riguardi dei rimanenti. Non è certo la prima volta nella storia che si manifestano delle anomalie, nel senso di sviluppi unilaterali delle possibilità più inferiori, più «umane», più materialistiche nei confronti di quelle che in un tipo normale e spirituale di Stato definivano gli strati sociali superiori e dirigenti. Ma allora si trattava sempre di manifestazioni sporadiche, il cui carattere negativo era a tutti chiaro. Ciò che invece caratterizza la società moderna è una razionalizzazione e una naturalezza dell’anormale. Che tutto oggi debba essere misurato in termini di quei valori, che anticamente eran propri solo alle caste inferiori, che non si sappia dunque pensare che in termini di «economia», o di «lavoro», o di «politica» (in senso materialistico e secolarizzato) o di «rendimento», o di «servizio», o di «collettività» e via dicendo, anche là dove si tratta di problemi di tutt’altro ordine, ciò fino ad ieri sembrava del tutto naturale, e sembrava naturale che tutto il resto non fosse che «astrazione», «utopia», «inane idealismo», «antistoricismo» da perdigiorni.

Il nazionalismo di matrice giacobina fu uno dei molteplici frutti avvelenati prodotti dalla Rivoluzione Francese
Il problema ricostruttivo perciò è anzitutto un problema di limite, cioè di circoscrizione: poi è un problema di integrazione, di compensazione, di gerarchia. Si tratta, per cosi dire, di frenare una forza, che è devastatrice finché è scatenata, finché, estrema ragione a sé stessa, trasporta con sé tutto il resto: si tratta di assoggettarla a leggi valide non in funzione di essa, bensì in funzione di più alti interessi e principii. A tale uopo bisogna sgombrare il campo da tutte quelle formazioni politiche e da tutti quei miti sociali che, partendo dal basso, si illudono di poter creare un ordine, che è momentaneo, contingente, violento, là dove provenga appunto dalle forme ultime della caduta dell’idea di Stato: rappresentando effettivamente emergenze dell’irrazionale, prive della luce di ogni vero principio.
A tale riguardo, in molti fenomeni politici contemporanei e visibile una ambiguità, che li rende suscettibili a valere sia come forme appartenenti alla direzione di discesa, sia come appoggi per la ricostruzione. Primo fra tali fenomeni è il nazionalismo. Noi abbiamo già detto nel precedente scritto in qual senso l’affermarsi del fenomeno nazionalistico ha costituito una caduta: nella misura in cui esso significò avvento del collettivo democraticamente autorganizzantesi, sostituente una forma affatto laica e secolarizzata di unità a quella aristocratico-spirituale, ponendo come supremi i valori che solo razza, o sangue, o terra, o storia in senso inferiore posson definire, risuscitando quasi il totemismo: poiché come del totemismo, così pure di questo nazionalismo demagogico il precetto è che, prima che in dignità di persona, il singolo debba sentirsi come gruppo, collettività, fazione.
Peraltro, anche a tacere del nazionalismo di tipo razzistico, ogni statizzazione, sia che essa proceda dal centro, assolutisticamente (come già nelle forme di nazionalismo propiziate dai re di Francia), sia che essa proceda dalla periferia, come scalata «sociale» dello Stato, viene a rientrare in questa via discendente. Per cui, per quanto paradossale ciò possa sembrare, fra nazionalismo collettivistico, internazionalismo e anonimato alla sovietica o all’americana, in fondo, non vi è che differenza di grado, una volta che si consideri l’essenziale, cioè: il tipo di rapporti fra l’individuo e il gruppo. Nel primo caso il singolo è ridissolto nei ceppi etnico-nazionali divenuti quasi entità mistiche; nel secondo caso vien sorpassata la stessa differenza propria a tali ceppi etnici, e si tende ad una più vasta collettivizzazione e disintegrazione della persona nell’elemento massa, la patria passando a chiamarsi «umanità» o «internazionale».

Paul Bottischer (1827-1891), che mutò il nome in Paul de Lagarde, uno dei principali fondatori e teorici del movimento völkisch germanico
Si tratta dunque di due fasi del processo di collettivizzazione e a portar dall’una all’altra basta che la mistica della «razza» o della «nazione» dia luogo a una struttura razionalizzata di tipo puramente economico e meccanico. Tale struttura, infatti, per sua natura è impersonale, gli ultimi resti di differenza qualitativa sono estirpati, le frontiere divengono puri concetti, ovvero limiti artificiali fra potenze che però qualitativamente, «modernizzate» come sono, quasi in nulla più si differenziano: e le vie son virtualmente aperte per il subentrare dell’uomo-massa senza patria, unificato da quella che solo era la legge dell’ultima delle caste tradizionali: il lavoro e il servizio senza luce. Preso in questo suo aspetto, il nazionalismo trova il suo posto, nel processo della caduta quadripartita da noi precisato, fra l’epoca del dominio della terza casta (epoca dei «mercanti», capitalismo, liberalismo, plutocrazia) e l’epoca del dominio dell’ultima casta (bolscevismo).
Ma proprio per via di tale luogo, è possibile concepire un nazionalismo di tipo diverso che in un simile posto intermedio, si può incontrare non discendendo, ma riascendendo. Tale è quel nazionalismo che ha valore non per il lato di «collettivizzazione» interna, ma per il lato della differenziazione esterna, cioè come una forza che sitrae fuori dal collasso collettivistico-internazionalista, reagisce contro di esso, stabilisce nuove e ferme circoscrizioni entro le quali deve manifestarsi una funzione organizzatrice in senso superiore, una forza differenziatrice di tipo già più alto, cioè spirituale (2).
In questa direzione, è essenziale superare gli argomenti di quella polemica demagogica e socialitaria, la quale mentre fa credere di combattere contro l’individualismo – prodotto dalla disgregazione giusnaturalistica – in realtà punta essenzialmente contro quel che è la base e il presupposto di ogni civiltà degna di tal nome: la dignità della persona. In realtà, per parlar di organizzazione, bisogna prima parlar di differenziazione, quindi di affermazione del principio della personalità. E il carattere distintivo del vero Stato è appunto questo: di esser uno Stato virile, uno Stato personalizzato, uno Stato che stronca in pieno ogni mito del collettivismo e del «socialismo».
Le sue premesse si lascian dunque individuare nel modo più felice da queste parole di Paul de Lagarde: «L’esser “umano e un meno rispetto all’esser “nazionale” e l’esser “nazionale” è a sua volta un meno rispetto all’esser persona – in altri termini: rispetto alla qualità “umanità” l’elemento differenziatore “nazione” aggiunge un incremento di valore x e l’elemento “personalità” aggiunge a questo x un ulteriore incremento di valore y» (3). Ciò esprime assai bene il concetto di una differenziazione progressiva, dall’informe verso la forma, dal generale verso il concreto, dalla collettività verso la personalità.
segue nella seconda parte
Note
(1) Francesco Coppola (1878-1957) fu un politico, giornalista, scrittore e docente in materie internazionali, membro dell’Accademia d’Italia fin dal 1929. Evola in particolare si riferiva all’intervento di Coppola durante il Convegno Volta, congresso internazionale che si svolse a Roma nel 1932 ed ebbe ad oggetto il tema dell’Europa e la comune cultura europea. Evola lo commentò sul periodico Vita Nova del dicembre 1932. In particolare, Coppola si soffermò sul tema del complesso di colpevolezza e della cattiva coscienza che doveva gravare sull’Europa, proprio per quel che riguarda la sua “cultura”, dato che virus sovversivi come l’illuminismo, il liberalismo, la democrazia e il comunismo nacquero e si diffusero nel Vecchio Continente. Il tutto è ricordato da Evola ne “gli uomini e le rovine“, capitolo XVI (“Europa una: Forma e presupposti”), dove possiamo leggere: “Come si può ignorare che proprio cultura e civiltà occidentali (il che in gran parte equivale a dire europee) e spirito antitradizionale hanno fatto tutt’uno quasi fin dall’epoca della Rinascenza, che proprio ciò che quasi tutti i difensori liberali e progressisti della cultura, della civiltà e della tradizione europea mettono avanti come titolo di gloria europea, a partire da quel periodo e nell’epoca moderna, ha costituito alla fine il massimo fattore della crisi spirituale della stessa Europa e che l’europeizzazione del mondo ha equivalso alla diffusione di un ferimento di decomposizione e di sovvertimento, di suscitamento di forze che poi dovevano rimbalzare contro la Europa? L’Europa è stato il focolare d’origine dell’illuminismo, del liberalismo, della democrazia (il precedente democratico americano avendo avuto scarsa incidenza pel continente europeo), infine del marxismo e del comunismo. Malauguratamente, nella storia moderna questo è stato il più rilevante apporto della ‘cultura europea’: quella degli intellettuali, degli umanisti, degli ‘spiriti elevati’, delle arti e delle lettere non essendo, nel confronto, che cosa pallida e laterale. Purtroppo è in questi termini – quasi nei termini di ciò che gli Orientali chiamerebbero un karma – che vi è pericolo di dover concepire la ‘comunità di destino’ invocata da alcuni europeisti” (N.d.R.).
(2) Questa concezione della nazione è stata, sono alcuni aspetti, propria del miglior fascismo. Quando Mussolini dichiarava liquidato il mito democratico della nazione «che agguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei più» e sosteneva esser, la nazione, «né razza né regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuantesi, moltitudine unificata da una idea»; quando egli concepiva lo Stato quasi come una «entelechia» che forma dall’interno la nazione: forza sì, ma «spirituale»; non «semplice meccanismo che limiti la sfera delle presunte libertà individuali», ma quasi «anima più profonda di ogni anima», «forma e norma interiore, e disciplina di tutta la persona» – quando, su tale base, il mito socialistico veniva respinto, la subordinazione, come il corpo ad anima, dell’economia all’idea trascendente che viene a costituire la nazione, veniva affermata, e si giungeva a quella superime concezione, nella quale il servizio si giustifica essenzialmente conte una via di partecipazione aduna «vita superiore libera da limiti di tempo e spazio» – in tutto ciò gli elementi fondamentali per un nazionalismo positivo, via per una ricostruzione e riorganizzazione antigiacobina, anticollettivistica, spirituale, erano dati.
(3) P. De Lagarde, Deutsche Schriften, v. I, p. 164.
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