L’americanizzazione e le responsabilità della RAI

Secondo “pungente” articolo di Julius Evola negli anni Cinquanta sull’America: stavolta su il “Nazionale” il barone si soffermava sui rischi di una progressiva americanizzazione della cultura e della mentalità in Italia, con parole e riflessioni talmente attuali, a distanza di quasi settant’anni, che potrebbero tranquillamente essere state scritte oggi. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la prospettiva di una progressiva fagocitazione dell’intera Europa occidentale da parte della (sotto)cultura yankee (per non parlare dell’assoggettamento geopolitico tramite la NATO) era inevitabile. Evola, già a metà degli Anni Cinquanta, percepiva i mefitici influssi di quest’americanizzazione piatta e ottusa delle menti, mettendo in rilievo come – già allora!- uno degli strumenti principali per veicolare tale influsso “sottile” fosse, a parte le riviste cartacee dell’epoca (i famosi “rotocalchi”), la RAI. Ricordiamo che il celebre polo radiotelevisivo italiano, nato nel 1924 con il nome di Unione Radiofonica Italiana, divenuto Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) nel 1927, poi Radio Audizioni Italiane (RAI) nel 1944, assunse la denominazione di RAI − Radiotelevisione Italiana nel 1954, avendo dato avvio, a partire dal 3 gennaio di quell’anno, alle trasmissioni televisive regolari del cd. “Programma Nazionale” (l’attuale RaiUno), che si affiancarono alla tradizionale programmazione radiofonica; il primo programma televisivo in assoluto fu “Arrivi e partenze”, condotto guarda caso dall'”americano” Mike Bongiorno con Armando Pizzo. L’occasione fu probabilmente propizia per Evola per scrivere quest’articolo proprio in quei mesi, lanciando un profetico allarme: i suoi riferimenti erano prettamente relativi alla parte radiofonica della Rai, che solo in quei mesi stava, appunto, avviando anche le trasmissioni televisive, e infatti il barone si soffermava sul tema musicale, da lui già toccato. Ma era chiara la prospettiva del dilagare di quel fenomeno, e, più in generale, di un lento ma inesorabile stravolgimento delle vite delle persone che avrebbe assunto caratteri sempre più pervasivi e penetranti, con input sempre più direzionati e orientati in un certo modo col passare dei decenni, in parallelo al potenziamento dei mezzi di “inoculazione” dei messaggi, con l’avvento delle televisioni private e poi delle pay-tv, del segnale digitale e satellitare, della diversificazione tra televisione generalista e televisione tematica, delle trasmissioni streaming via internet, via social network, ecc..

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di Julius Evola

Tratto da “Il Nazionale”, 1954

L’americanizzazione di certa cultura e della mentalità corrente in Italia è un fenomeno che, lungi dall’esser localizzato fra quelli di contingenza dell’immediato dopoguerra, è tuttora in pieno sviluppo e viene accolto dalla grandissima maggioranza con naturalezza, se no pure con entusiasmo. Molto tempo fa – avemmo a scrivere che dei due grandi pericoli che minacciano di più la civiltà occidentale, l’americanismo e il comunismo, il primo è il più insidioso. Il comunismo non potrà essere un pericolo che nella forma brutale e catastrofica di un colpo di Stato o di un intervento russo. L’americanizzazione trova invece modo di guadagnar terreno per progressiva infiltrazione, producendo modificazioni di mentalità e di costume che in apparenza sembrano inoffensive ma che pur si risolvono in un fondamentale snaturamento e abbruttimento, contro cui non vi è modo di far fronte, se non una reazione dall’interno.

Ora, è appunto di questa reazione dall’interno che in Italia sembra che ben pochi siano capaci. Lasciando da parte l’alta cultura e coloro che combattono sul piano politico un’ardua battaglia per la nascita della nazione, in larghi strati si riconosce ormai quasi come cosa che va da sé all’America US la parte di una nazione-guida verso cui si rivolgono tutti gli sguardi. Quella è la capitale, noi siamo la provincia – ecco qual è, più o meno, il rapporto. Lo standard è l’America a darlo per chi vuole essere moderno e al passo con i tempi. È veramente avvilente che una nazione europea possa dar prova di tanto “cafonismo”. Perché, si badi, non si tratta di difendere un mero, gretto piede di casa, di non nutrire interesse alcuno per tutto ciò che si svolge e si realizza in altri paesi. No, non è questo il nostro punto di vista: quel che si accusa è la supinità di un interesse esclusivamente volto all’America, quasi che null’altro esistesse al mondo se non in via subordinata – come appunto la presunzione americana crede. È la mancanza di un distacco che permetta di considerare l’americanismo come un fenomeno tra i tanti, mantenendo lo sguardo libero e mantenendo soprattutto la propria individualità.

Uno degli organi più deleteri dell’americanizzazione del nostro pubblico medio è – insieme alle riviste in rotocalco – indubbiamente la RAI. E qui è cosa abbastanza misteriosa “chi glielo fa fare”. Molto probabilmente si tratta di uno dei cosiddetti “processi a catena”. Poiché si manca di ogni criterio autonomo e d’ordine superiore, si segue l’andazzo, ci si tiene a ciò che si crede “vada” – alla tendenza americanizzata di certa parte del pubblico, della più sfaldata. Seguendola, la si conferma e la si diffonde ulteriormente e ci si trova allora automaticamente costretti a proseguire sulla stessa direzione. Come a varie riviste in rotocalco, così anche alla RAI sembra che l’interessarsi di questo o quell’attore o astro del cinema americano insieme ai suoi fatti privati, il mettere al corrente di ciò che là si “pensa”, illustrarne l’una o l’altra ragione, riferire sulle sue “conquiste”, trasportarci nel West o nell’uno o nell’altro quartiere di New York e così via sia cosa che va da sé. E cosa che va da sé sembra essere anche il ricopiare stupidamente lo stile americano e nel modo di certe presentazioni, e nella formazione di certi programmi. «Chi, dopo aver ascoltato una radio americana può reprimere un brivido di orrore al pensiero che il prezzo della sopravvivenza di una civiltà non comunista sia l’americanizzazione?». Tali parole non sono quelle di un americanofobo a oltranza, sono quelle di una delle più brillanti menti nord-americane, di J. Burnham (1), sociologo e professore all’Università di Princeton, autore di molte opere pregevoli di cui è ben nota anche in Italia la Rivoluzione dei tecnici. Questo giudizio non dovrebbe bastare per far arrossire di vergogna certi signori della RAI?

Uno dei settori più deprecabili dell’attività di questo “organo di cultura” è il settore musicale, con riferimento specifico alla cosiddetta musica leggera. Qui l’America regna sovrana. Date uno sguardo ai programmi: musiche americane, incisioni americane, solisti americani, “arrangiamenti” americani dell’una o dell’altra orchestra , e così via, vi hanno una tale preponderanza, che non se ne può più.
Prendete infatti i programmi che vorrebbero essere “internazionali”, Cabaret internazionale, Grandi successi del mondo, Paese che vai, ecc.: di nuovo, a parte qualche spolverata di cose francesi si trova quasi esclusivamente l’America, l’America US o quella detta latina ma che sarebbe meglio chiamare meticcia, in gran parte essa stessa americanizzata. Evidentemente per la RAI il mondo si riduce a questo: di nuovo provincialismo, stile da succubi e da persone che fuori d’Italia appena ci devono essere state.

In genere abbiamo già avuto occasione di rilevare la significatività del fatto che l’uomo bianco moderno, nel cercare del “ritmo”, ne ha tratto i motivi di inspirazione dalle razze più basse ed esotiche, negri o meticci della zona tropicale (come nel caso specifico dei ritmi afro-cubani). Gli Europei si sono senz’altro mimetizzati e il fatto che in popoli assai più vicini, per esempio in certo folklore locale dell’Europa orientale avrebbero potuto trovare complessi ritmici adeguatamente elaborati e adatti allo scopo, anzi non di rado più “frenetici” di quelli di origine negra, non essendovi solo del ritmo, ma anche dinamica, questo fatto non ha avuto effetti di sorta.

Ciò vale naturalmente in doppia misura per i programmisti della RAI: tutto ciò che potrebbe dare come musica leggera interessantissima una scelta intelligente in quella zona, l’ignorano: come per essi è pressoché inesistente tutto quello che, sempre nello stesso ramo, può essere fornito dall’Europa centrale: musica viennese nelle forme più moderne, produzione tedesca sia di ieri che di oggi, e via dicendo. Per tutto ciò, ove non si tratti di pura incultura, sembra esservi anzi nella RAI una specie di sistematico sabotaggio. È verso l’America che si sposta invece entusiasticamente il centro della gravità per l’abbruttimento irresponsabile degli ascoltatori. Esser internazionali e moderni, per costoro, significa questo: ristrettezza di orizzonti e di sensibilità ancor più deprecabili di quella strapaesana.

Questo è un settore particolare dell’americanizzazione, ma è tutt’altro che privo d’importanza. Le conseguenze del “lasciar andare” democratico sono questo: l’intossicazione di quella grandissima parte della popolazione che non sarà mai capace di vera discriminazione, che è fin troppo propensa – specie di questi tempi – a perdere ogni linea quando un potere e un’idea superiore non abbiano modo di richiamarla a sé stessa, se non altro per minimo occorrente per non perder del tutto la faccia.

Nota

(1) James Burnham (1905-1987) fu un teorico politico americano, attivista e intellettuale comunista negli anni Trenta. È conosciuto soprattutto per la sua opera The Managerial Revolution, pubblicata nel 1941, che influenzò profondamente il romanzo 1984 di George Orwell (N.d.C.)



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