L’anima primitiva è forse umanità degenerata

Torniamo en passant sul tema dell’anima e della psiche dell’uomo, che proseguiremo poi più avanti da gennaio, con alcuni articoli di Evola con un taglio che tocca l’etnologia e l’evoluzionismo, soffermandosi il barone sulle popolazioni cd. “primitive” e la loro esatta collocazione nell’ambito della storia dell’umanità.

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di Julius Evola

Tratto dal “Roma”, 7 novembre 1950

Il primitivismo è uno dei fenomeni caratteristici dell’epoca contemporanea. Quasi come se al chiudersi di un ciclo dovessero ricorrere le forme che si trovano ai suoi inizi, nella civiltà ultima il «primitivo» riappare in forme molteplici. Oltre che in aspetti tipici del costume e della mentalità delle due civiltà che oggi si reputano all’avanguardia – quella russo-sovietica e quella nord-americana – noi lo ritroviamo, visibilissimo, nel campo dell’arte modernissima, nel jazz e in tante altre manifestazioni d’oggi.

L’interesse crescente che da un paio di decenni si è manifestato nell’ambito della stessa sociologia e della storia delle religioni per il mondo dei selvaggi è un altro fenomeno che si può ricondurre allo stesso significato di sintomo. Una scienza nuova, ormai agguerritissima, l’etnologia, si è appunto consacrata all’esplorazione dell’«anima primitiva», della mentalità, della visione del mondo e delle forme di vita delle società selvagge. In ciò si è anzi voluto vedere un equivalente, nel dominio della cultura, di quel che nel dominio della natura è la geologia: come il geologo studia le stratificazioni della terra e attraverso i fossili rintraccia le forme scomparse della vita dei primordi, del pari l’etnologo presume di ricostruire gli strati arcaici dell’umanità partendo dall’esame dei popoli selvaggi sopravvissuti come «fossili viventi»; poiché – si pensa – tali popoli rappresentano fasi di civiltà conservatesi quasi fuor del tempo, della storia. Una indagine condotta su tale materiale, condurrebbe assai più lontano, in epoche assai più remote, che non lo studio delle grandi civiltà antiche, quali l’egizia, la sumera, l’indù e la sinica.

Su ciò intervengono però diversi equivoci, dovuti alla parte che, malgrado tutto, nell’etnologia hanno le «idee fisse» caratteristiche per la mentalità moderna, e in prima linea quella evoluzionistica. Certo, non si è più ai bei tempi di Spencer e compagni, che consideravano senz’altro il selvaggio come l’antenato diretto dell’uomo civilizzato, pensando che uno sviluppo evolutivo lineare abbia condotto dall’uno all’altro. Correntemente, i più pensano però ancor oggi così, sbagliando: perché non si vede mai un selvaggio «evolvere»; i ceppi primitivi si estinguono, come se si trattasse di forme che hanno esaurito le loro possibilità vitali. Il selvaggio che si fa civilizzato non si «evolve» ma piuttosto si snatura, passa da un mondo ad un altro, sostanzialmente diverso dal suo.

L’etnologo francese Lucien Lévy-Bruhl

Chi vuole avere un senso di questa eterogeneità, di questa diversità di due mondi spirituali, può leggere un’opera classica dell’etnologo francese Lévy-Bruhl, uscita recentemente anche in edizione italiana da Einaudi, L’anima primitiva. Interpretando un vastissimo materiale raccolto fra le popolazioni selvagge di ogni parte del mondo, l’autore mette in luce appunto il fatto che il mondo in cui si muove il selvaggio non è il nostro mondo, che le nozioni che egli impiega, i modi del suo pensare, i motivi del suo agire non sono gli stessi dei nostri – cioè dell’uomo civilizzato – anche se ad uno stato più grezzo, rozzo, appunto «primitivo», ma sono «diversi». Per il Lévy-Bruhl, fra gli uni e gli altri non vi è comune misura. Ma se così stanno le cose, non è nemmeno da pensarsi ad una «evoluzione»: i cosiddetti «primitivi», più che i nostri antenati, rappresenterebbero piuttosto le propaggini sopravvissute di un’«altra» umanità, di una umanità strutturalmente diversa da quella da cui si è sviluppata la civiltà attuale nelle sue forme principali. In simile tesi vi è indubbiamente molto di vero: essa può anzi essere portata ancor più oltre, fino ad un capovolgimento dell’ipotesi evoluzionista. Ma non tutti gli etnologi sono disposti a battere questa strada.

Lo Schmidt si è dato ad una vasta ricerca in fatto di religioni comparate, che ha incluso anche i dati raccolti fra le più lontane popolazioni selvagge, ricerca che lo ha convinto della insostenibilità di quella tesi. Costretto a constatare tracce della superiore idea di Dio fin nelle civiltà primitive, lo Schmidt ha cercato di accordare questo fatto con la accennata veduta cattolica riesumando la teoria della cosiddetta «rivelazione patriarcale». Anche secondo la Chiesa, prima del «diluvio» tutti i popoli avrebbero ricevuto da Dio la rivelazione della vera religione; per cui, dovunque se ne possono ritrovare tracce, più o meno offuscate, che confermano le tradizioni dell’Antico Testamento. Simili vedute avrebbero potuto mettere lo Schmidt sulla buona strada, in fatto di etnologia: cosa che invece non si vede sfogliando la sua opera, anch’essa uscita di recente in italiano Manuale di mitologia etnologica (ed. Vita e Pensiero). Qui le forme più ingenue di «evoluzionismo» sono sì rigettate a beneficio di un metodo storico. Ma non si procede sulla direzione che abbiamo detta e che già un de Maistre, il grande filosofo cattolico, aveva ben indicata. Il De Maistre aveva sostenuto più o meno questo: i selvaggi non sono i ceppi di una umanità primitiva da cui la civiltà si è evoluta, ma quasi viceversa: i selvaggi, sia come civiltà, sia come razza biologica, in un gran numero di casi rappresentano gli ultimi residui degenerescenti, crepuscolari, notturni, quasi colpiti da un misterioso anatema, di civiltà precedenti così antiche, che spesso di esse non si è conservato né il nome, né il ricordo.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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