Seconda parte dello studio di Mariano Bizzarri. L’autore, dopo aver analizzato il simbolismo del Fascio Littorio, si concentra su quello dell’Aquila. Al riguardo, rinviamo all’articolo di Julius Evola in materia, da noi già pubblicato, e richiamato da Bizzarri in vari punti del suo approfondimento.
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di Mariano Bizzarri
L’aquila e il fascio littorio, simboli cosmici – Un collegamento fra Cielo e Terra
Tratto da “Esoterismo e fascismo”, Edizioni Mediterranee (2006)
segue dalla prima parte
(nella chiusa della prima parte, Bizzarri osservava come in Mussolini ed in alcuni degli uomini che più avevano penetrato il valore storico e simbolico del fascismo, fosse ben presente la necessità della restaurazione dell’idea imperiale, del senso e del compito affidato a Roma dalla Storia e da Dio, e che tale necessità era stata preconizzata, su un piano escatologico, da Dante Alighieri. Da qui si riprende il discorso – n.d.r.)
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Alla felice intuizione di quest’ultimo (Dante Alighieri, n.d.r.) deve infatti, a nostro parere, essere ricondotto il recupero fascista dell’aquila come simbolo imperiale. È ben noto che i significati dell’aquila, eminentemente di ordine cosmologico e metafisico, sono complessi e diversi. L’Evola sottolinea con giusta enfasi come “il simbolismo dell’aquila [abbia] un carattere tradizionale in senso superiore” rappresentando “un elemento costante e immutabile, in seno ai miti e ai simboli di tutte le civiltà di tipo tradizionale” (14).
L’aquila è innanzitutto l’uccello “iniziatico” per eccellenza (15). Uccello celeste e solare ad un tempo, l’aquila è il tramite per mezzo del quale l’uomo si eleva alla divinità e, passando attraverso la gerarchia degli stati dell’essere simboleggiati dagli uccelli su cui regna l’Aquila stessa, giunge infine a fissare la luce del sole: il raggiungimento di questa condizione fa si che l’iniziato, al pari dell’aquila, possa penetrare direttamente i segreti divini, acquisirne il segreto e procedere alla propria rigenerazione spirituale (16).
É per mezzo di aquile che il re Kei-Kaus, nella mitologia persiana, cerca d’innalzarsi al cielo. E così Ganimede è rapito da un’aquila che lo trasporta a Giove. É sempre l’aquila che reca ad Indra la bevanda sacra – l’haoma – che lo costituirà signore degli dei. Per altro verso è l’aquila, nella sua veste di giustiziere iniziatico, che fa scempio del fegato di Prometeo. Prometeo è colui che pur non essendo qualificato, aspira ad impossessarsi del fuoco celeste non già a gloria dei, bensi per degradarlo a livello umano. La sua natura resta infatti titanica ed è propriamente da titani – cioe da controiniziati – voler usurpare il Fuoco per farne “cosa non più da déi ma da uomini [. . .] Prometeo non ha la natura dell’aquila, che può fissare impunemente ed “olimpicamente” la luce suprema. La stessa forza che volle far sua diviene il principio del suo tormento e del suo castigo” (17).
Del pari Garuda – aquila solare che funge da cavalcatura per Visnu – è non solo veicolo per il raggiungimento di stati superiori, ma adempie altresì ad una funzione propriamente guerriera e di giustizia. Garuda è infatti nagâri, “nemico del serpente”, o nâgântaka, “distruttore di serpenti”. Il ruolo escatologico delle forze adombrate in questo mito è fin troppo evidente per doverlo sottolineare ulteriormente (18).
Relativamente al fascismo, tuttavia, giustamente l’Evola pone enfasi nell’evidenziare il carattere olimpico che l’aquila assume nella tradizione occidentale e più precisamente nell’ambito delle culture a carattere “spiccatamente olimpico”, in cui meglio viene rimarcata l’opposizione agli aspetti titanici, soprattutto da parte della casta dei guerrieri. L’aquila è attributo e messaggero del “dio supremo” (Zeus-Juppiter), così come la folgore e l’ascia bipenne inserita sul fascio littorio che, in qualche modo, in questo contesto, ne completano il significato e ne estendono la portata simbolica (19). Ciò va inteso non solo sul piano metafisico, ma altresì su quello cosmologico, di cui il mito storico non fa che riproporne il senso nascosto. Gli “olimpici” vivevano infatti “ogni lotta come una specie di riflesso della lotta metafisica tra forze olimpiche e forze titaniche, essi stessi considerandosi come una milizia delle prime” e pertanto “aquila e folgore racchiudono per tal via un senso profondo e generalmente trascurato” (20).
L’aquila è il messaggero di Juppiter e, al tempo stesso, ipostasi della sua volontà. La presenza dell’aquila attesta la benevolenza degli dèi, così come il loro volo indica la meta e il volere supremo. In tutto il mondo ario era ben conosciuto il mito per il quale, colui su cui si fosse posata un’aquila, sarebbe stato predestinato ad alti compiti o alla stessa regalità, in ciò manifestando quello che Evola definisce puntualmente “il presupposto olimpico della legittimità”. Nella concezione tradizionale, l’esercizio della auctoritas non è frutto di delibera assembleare e tantomeno usurpazione tirannica, ma onere e privilegio di quanti sono legittimamente prescelti dalla divinità suprema. Per altro verso, se la vittoria e la realizzazione venivano preannunciate e in qualche modo favorite dal simbolo dell’aquila, nondimeno esse non appartenevano agli uomini, ma riconfermavano come “attraverso la vittoria della gente aria e romana fossero le forze stesse della divinità olimpica, del dio di luce, a vincere; la vittoria degli uomini, riflesso di quella stessa di Zeus su forze antiolimpiche e “barbariche”, era preannunciata dall’apparire dell’animale stesso di Zeus, dall’aquila” (21).
L’aquila è dunque, sotto il profilo cosmologico, simbolo immanente di quella potestas che rende legittimo, ed anzi necessario, l’esercizio del fascio littorio, cioè del potere e della giustizia. Come tale l’aquila fu “naturalmente” emblema di Roma, sin dai primordi, a fianco di altri simboli propri alla casta guerriera come il lupo (22), prima di assumere un ruolo ed un valore dirimente a partire dalla riforma voluta da Caio Mario (23). A partire da quest’epoca le legioni acquisiscono infatti una propria ed irrinunciabile identità, rappresentata dall’aquila, il signum che riassumeva e in cui si concentrava l’essenza stessa di quella specifica legione (24) e che ne promuoveva e favoriva la vittoria (25).
Dopo la caduta dell`Impero d’Occidente, l’aquila permane nel blasone di Costantinopoli e verrà ripresa in Europa solo con Carlo Magno che ne farà il simbolo stesso della renovatio romani imperii. Come tale il simbolo rimase ad emblema dell‘Austria, ultimo erede del Sacro Romano Impero, e della bandiera germanica con il Terzo Reich, a voler significare quella continuità con il passato ed il ruolo storico ed escatologico inizialmente rivestito da Roma.
È indubbio che a quello stesso passato e a quel significato il fascismo volesse riconnettersi mentre adottava l’aquila a simbolo delle risorte legioni e del futuro (ed effimero) Impero. Tuttavia è lecito dubitare che tale simbolo possa essere stato mutuato dalla tradizione romana tal quale, e non costituisca invece il punto d’arrivo di un processo complesso che passa necessariamente attraverso la mediazione dell’elaborazione concettuale che su quel simbolo ha sviluppato il Medioevo europeo, ed in particolare Dante Alighieri. Soprattutto se si considera che su tale argomento avevano fatto pienamente luce autori come il Rossetti ed ancor più il Valli, entrambi tenuti in elevata e particolare considerazione nel corso dei primi del Novecento.
Seguendo il Valli, in Dante la Croce e l’Aquila si situano ai due poli dell’Axis Mundi e rinviano ad un insieme complesso di opposizioni coordinate e convergenti: Fede e Giustizia, passivo ed attivo, paradiso celeste e paradiso terrestre. Entrambi i segni sono necessari perché il percorso del pellegrino giunga a buon fine, superando le due porte dell’Inferno. Se la croce è strumento per vincere la ignorantia – che preclude la vista del bene – l’aquila consente di operare per realizzare il bene e vincere la difficultas. Folle è colui che si accinge a conquistare gli stati superiori dell’essere senza Aquila e Croce, mentre smarrita è l’umanità che, pur avendo la virtù della croce, è privata della giustizia dell’aquila. Per dirla con il Valli “[…] il grande fundamentum dell’Impero sta in simmetria con il grande fundamentum della Chiesa e […] questi due segni santi sono egualmente necessari alla salvezza del mondo il quale è, per così dire, contenuto armonicamente tra l”uno e l’altro” (26).
Tutto il poema sacro è permeato da questa consapevolezza ed ogni nuova analogia non fa che rendere “più evidente questa continua consegna dell’umanità dall’uno all’altro segno santo, nella quale Dante profondamente, arditamente ripete in mille guise: l’opera della Croce e quella dell’Aquila sono nella via della salvazione indissolubilmente alternate e concatenate, l’una sola delle due non può bastare, e la via della salvezza non sarà veramente aperta se non quando l’Aquila di Roma tornerà a splendere accanto alla Croce di Cristo” (27).
In ciò il Valli non fa che rendere palese quanto affermato con preclara limpidezza dal Guénon, in merito al ruolo che, in una società autenticamente tradizionale, spetta alla casta dei guerrieri: “[…] garantire il mantenimento dell’ordine, sia all’interno, in quanto funzione regolatrice ed equilibratrice, sia all’esterno, in quanto funzione protettrice dell’organizzazione sociale” (28).
E Guénon continuava ricordando come, nella tradizione induista “[…] Skandha, Signore della Guerra […] protegge la meditazione di Ganeša, Signore della conoscenza. È da rilevare che la stessa cosa si insegnava, anche esteriormente, nel Medioevo occidentale; infatti san Tommaso d’Aquino dichiara espressamente che tutte le funzioni umane sono subordinate alla contemplazione come al loro fine superiore […] e che, in fondo, l’intero reggimento della vita civile ha come vera ragion d’essere di assicurare la pace necessaria a tale contemplazione” (29).
Sotto questo profilo, l’Aquila del fascismo si volle – quantomeno nei fatti – come completamento di quell’asse ai cui piedi da tempo riposava la Croce, in ciò realizzando l’auspicio espresso da Dante nel VI canto del Paradiso, dove chiaramente viene detto che “[…] l’Aquila non solo opera accanto alla Croce, come rimedio contro le infermità del peccato che deriva dal peccato originale, ma interviene addirittura nell’opera del riscatto del genere umano: pensiero […] che è incontroveitibilmente contenuto anche nel terzo libro della Monarchia” (30). E forse, sotto questo profilo, le proposte e le azioni che Mussolini ebbe a svolgere nei confronti della Chiesa, e più specificamente l’opera di riconciliazione promossa con il Concordato, andrebbero lette in una prospettiva non più solo meramente politica, ma inserite in un contesto che invero travalica di molto i limiti angusti di una certa storiografia.
Note
(14) J. Evola, L’Aquila, in Simboli della Tradizione occidentale, Arktos, Carmagnola 1988, p. 63.
(15) Sul complesso simbolismo dell’aquila – che in queste brevi note non ò possibile neanche lontanamente accennare per extenso – si veda A. Volguine, Le symbolisme de l’Aigle, Cahiers Astrologiques, Nice 1960.
(16) E in questa accezione che i Salmi accostano l’aquila alla fenice e fanno di entrambe un simbolo di rinascita spirituale.
(17) J. Evola, L’Aquila, cit., p. 66.
(18) Garuda è in Cambogia l’emblema dei sovrani di stirpe solare, mentre il Nâga (serpente) è quello dei re di razza lunare: la contrapposizione fra i due animali riflette ovviamente un dualismo di carattere cosmologico che, sul piano più propriamente sottile, allude inequivocabilmente alla contrapposizione che intercorre tra le forze della luce e quelle delle tenebre.
(19) Nell’iconografia della tradizione romana l’aquila è raramente ritratta senza altri particolari: il più delle volte presenta il capo adorno della corona d’alloro (simbolo di trionfo) e tiene stretta tra gli artigli una coppia di fulmini, a ben sottolineare come per suo tramite si realizzi il volere di Giove.
(20) J, Evola, L’Aquila, cit., p. 64.
(21) J. Evola, L’Aquila, cit., p. 69. Sia nell’Iliade (VIII) sia nell’Odissea (XV, l60), la comparsa dell’aquila è considerata manifestazione visibile della volontà di Zeus. Nel primo caso, la subitanea comparsa del rapace concorre a rianimare l’animus dei greci che resistono e contrattaccano i Troiani. Nel secondo episodio, un’aquila disposta sulla destra, con un’oca bianca tenuta ferma dagli artigli, suggerisce ad Ulisse il felice esito del proprio pellegrinare.
(22) Gli emblemi militari, prima della riforma di Caio Mario, comprendevano il lupo – sicuramente il più antico tra tutti gli stemmi – il cinghiale, il cavallo e l’aquila.
(23) Caio Mario (156-86 a.C.) fu segnato sin da piccolo dalla benevolenza del simbolo che avrebbe poi imposto ad emblema di ogni legione. Diverse leggende riportano come, ancora infante, un’aquila avrebbe depositato sulla sua tunica sette piccoli aquilotti: il presagio venne interpretato come segno della sua futura gloria.
(24) L’aquila era conservata nel castrum, in una specie di cappella, costruita appositamente per ospitarla ed era onorata con una devozione particolare in quanto numen legionis. In un primo tempo fu d’argento, poi divenne d’oro e scintillava in cima ad una lunga pertica decorata. La custodia spettava al centurione primus pilus, cioe il centurione capo, e garantiva la continuità dell’armata come unità combattente. La sua perdita in battaglia bollava di ignominia i legionari sopravvissuti e poteva comportare, come conseguenza estrema, lo scioglimento definitivo della legione che non aveva saputo difenderla. Il portatore d’aquila (“aquilifero”) – la cui istituzione era antecedente la riforma di Caio Mario -, al pari dei littori, aveva come copricapo una pelle di leone, a riprova dell’associazione simbolica tra i due animali, che in questo contesto fanno riferimento alle specifiche funzioni della casta guerriera.
(25) Innumerevoli sono gli episodi – veri o leggendari – che narrano dello stretto rapporto che legava la presenza dell’aquila alle fortune legionarie. Plinio (Naturalis historiae, X, 4-5) ricorda che una coppia di aquile non mancava mai di appollaiarsi in prossimità degli accampamenti dei legionari, anche durante l’inverno: la loro assenza era considerata segno infallibile di prossima sventura. Di significato analogo l’episodio – non si sa bene quanto leggendario – ben più recente, relativo all’aquila di Napoleone: questa, che lo aveva sempre accompagnato in ogni sua impresa, lo avrebbe abbandonato poco prima di Waterloo.
(26) L. Valli, La struttura morale dell’universo dantesco, Ausonia, Roma 1935, p. 191.
(27) Ivi, p. 201.
(28) R. Guénon, Autorità spirituale e Potere temporale, Luni, Milano 1995, p. 26.
(29) Ivi, p.54.
(30) L. Valli, Lo schema segreto del Poema Sacro, Bastogi, Foggia 1983, p.165.
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