(segue dalla prima parte)
di Maurizio Rossi
Tutta la critica di Evola si volse contro il “senso” del mondo moderno, contro la sua fatalità, contro le sue drammatiche derive, il piano inclinato dei valori, volendogli poi contrapporre i principi e le verità espresse da quell’universo valoriale e simbolico rappresentato dal mondo della Tradizione, ovvero tendendo verso la riaffermazione di un ordinamento qualitativamente gerarchico di tipo organico: la concreta restaurazione dell’Idea tradizionale dello Stato, del vero Stato e dell’Ordine sacrale e politico che lo avrebbe retto, un’aristocrazia politico-spirituale severamente selezionata, incarnante una totale e incondizionata aderenza alla Visione del Mondo e disciplinata da uno stile esistenziale eroico, essenziale, spartano, militare.
Affermando inoltre che uno Stato si doveva intendere come tradizionale e organico quando fosse fondato su principi trascendenti, quando ogni suo aspetto e dominio fosse sovraordinato dall’alto e verso l’alto, quando la riappropriazione della dimensione sacrale significasse elevazione verso il superumano: le virtù spirituali, civiche, eroiche e politiche intese come apertura al Sacro, al bene assoluto, poiché come lo stesso Platone aveva trasmesso, il compiere ogni sforzo per diventare uomini giusti significava tensione nell’uniformarsi al divino, adesione all’Ordine politico incarnante gerarchicamente stabilità in senso spirituale, pertanto equivalente alla superiore manifestazione etico-politica della Totalità del popolo intesa come autentica Comunità organica, manifestazione tangibile della trasmissione ereditaria dei valori della Stirpe attraverso i legami dettati dai vincoli del Sangue e del Suolo.
Soffermandosi poi nello spiegare le cause del crollo dell’Idea organica e tradizionale dello Stato, con grande puntualità e precisione scrisse che: “Attraverso l’illusione liberalistica giacobina, abbassandosi l’idea della giustificazione dello Stato a quella mercantile e utilitaristica di un contratto sociale, prende forma infatti il Capitalismo moderno e, infine, l’Oligarchia capitalistica, la Plutocrazia, che, in regime parlamentaristico-democratico, finisce col controllare e col dominare la realtà politica — il potere scende cioè a quel che in termini moderni corrisponde al livello della terza casta, all’antica casta dei mercanti. Con l’avvento della borghesia, l’economia viene a dominare su tutta la linea e la supremazia di essa viene apertamente proclamata nei riguardi di ogni sussistente resto dei principi non diciamo spirituali, ma semplicemente etici ancora vivi nel mondo politico occidentale.”
A questa decadente deriva, apparentemente irrefrenabile, la rivoluzione fascista, una volta acquisita una superiore consapevolezza dei compiti della sua missione epocale, quelle grandezze vettoriali a cui faceva riferimento Evola, avrebbe potuto con i suoi istituti porre rimedio e invertire la tendenza. Allora si, che il Fascismo sarebbe stato una intransigente rivoluzione totale, una autentica controtendenza di incommensurabile portata.
Julius Evola utilizzava spesso il concetto di Tradizione al singolare, anche quando illustrava e spiegava situazioni ed esperienze temporalmente diverse tra loro, appunto per evidenziare un carattere proprio di originaria univocità che si era manifestato anche in momenti storicamente e geograficamente diversi e distanti. Nella sua concezione interpretativa era possibile, infatti, parlare di momenti ed espressioni tradizionali come di una sola esperienza che normalmente superava la durata storicamente determinata del tempo per collocarsi in una dimensione mitica ideale, in una completezza sovratemporale dove il dato empirico e quantitativo non aveva più valore e dove il tempo non scorreva lineare e irreversibile, ma si fratturava in cicli conclusi.
Evola insisteva molto nel proporre al Fascismo come unico valido riferimento la concezione tradizionale e organica dello Stato come antitesi al moderno Stato di diritto borghese e liberale, definendola come un ordine trascendente che ha in sé l’autorità di legittimazione delle strutture politiche e di quelle giuridiche in quanto possiede in sé un centro che disciplina i vari domini tramite una articolazione gerarchica e una funzione anagogica che ne giustifica la connessione con il tutto, la supremazia della selezione qualitativa sull’elemento quantitativo.
Sarà appunto attraverso i suoi scritti che si rivolgerà ai fascisti, a suo avviso, maggiormente consapevoli, per indirizzarli verso le idee tradizionali utilizzando il contenitore del Fascismo esclusivamente come vettore, come momento transitorio, per indurli ad accedere a quella che, per Evola, era una visione superiore della politica; ritenne quindi con estrema coerenza, di cogliere quell’opportunità al fine di verificare se vi fossero le condizioni preliminari per avviare un processo di trasformazione in ordine con la visione aristocratica di cui si era fatto portatore: una restaurazione politico-sacrale dello Stato, antimoderna, antiliberale e antidemocratica dove la preminenza del sovraordinato sui destini della mondanità doveva essere la vetta assoluta del dominio politico.
A tal proposito, utilizzò le pagine della rivista Lo Stato di Carlo Costamagna, figura intellettuale che Evola stimava molto, per proporre all’attenzione di un pubblico in linea di massima interessato e qualificato la dottrina tradizionale dello Stato come contributo alla rettificazione della teoria fascista dello Stato, ponendo l’accento sulla necessità del fondamento spirituale della nuova scienza dello Stato e sulla sua concezione organicistica:
“Un antico detto nordico era: «Chi è capo, ci sia ponte». Secondo una etimologia forse inesatta, ma non per questo meno significativa, degli antichi, il pontifex era colui che «creava i ponti», cioè che stabiliva il collegamento fra rive, fra due mondi. (…) parlare di un ordine organico sic et simpliciter non basta, poiché di tipi di organismo ve ne sono diversi, a partir da quelli che appena si differenziano dallo stadio di una massa vivente acefala. L’organismo del vero Stato deve essere ben differenziato, come lo è l’organismo umano. Ciò significa individuare e poi gerarchizzare piani distinti, in corrispondenza sia a vari modi di realizzazione, che a vari gradi di perfezione, del principio della personalità. Nel riguardo, crediamo che la concezione tradizionale di un ordinamento quadripartito, in corrispondenza col principio del semplice lavoro, col principio economico-sociale e politico-sociale in senso stretto (amministrazione, organizzazione), col principio guerriero e infine col principio spirituale, possa benissimo aver ancora qualcosa da dire. Questi principi corrispondono infatti a modi ben precisi di essere, a ben distinte vocazioni: in relazione a ciascuno di essi vi è uno speciale modo di esser «persona» ed anche un dato quantum di esser persona, poiché è naturale che non tutte le vocazioni presentino uguali possibilità nei riguardi del fine supremo. Ma con la subordinazione dell’un piano all’altro fino al centro costituito da quei capi, «che sono ponti», si stabilisce, per partecipazione, l’integrazione e la giustificazione di ogni grado parziale nel tutto. Le premesse di questa visione gerarchica del vero Stato conducono alla eliminazione dell’universalismo etico-razionalistico e la sua sostituzione con una concezione differenziata e funzionale dell’etica, del diritto, della solidarietà e dell’obbligazione.”
Julius Evola parteciperà attivamente, nel corso degli anni che contrassegnarono il ventennio del regime fascista, al dibattito che vedeva protagonisti i maggiori esponenti delle tante sensibilità presenti nel macrocosmo rappresentato dal Fascismo: un dibattito che investirà le maggiori testate culturali e dottrinarie e sarà incentrato sulla ricerca di un nucleo centrale interpretativo del fenomeno fascista nella prospettiva di uno sviluppo del tema della concezione del mondo che lo valorizzasse e al tempo stesso ne giustificasse l’irruzione nella storia come risposta alla decadenza delle società borghesi.
Infatti, la vasta letteratura fascista si delineava anche su problemi che si ricollegavano, sia direttamente che indirettamente, all’analisi del processo di decadenza che aveva investito il continente europeo e pertanto sulla qualità di un nihilismo positivo da opporgli, e in questo si poteva intravedere un evidente debito di riconoscenza nei confronti della narrazione nietzschiana. Lo stesso Evola, pur nutrendo alcune perplessità, non poteva non riconoscere che il fenomeno fascista si era evidenziato come una manifestazione politica di un ancor più ampio movimento spirituale e culturale di reazione alla decadenza, quindi a sua volta promotore di proprie immagini guida, di miti, di un proprio sistema di valori, di proprie forme politiche; dove il discorso politico, cioè la prassi fascista non poteva che essere espressione di una sovrastante visione del mondo.
Naturalmente le posizioni e le sensibilità che emersero da quel corposo confronto di idee tra le varie anime della complessa intellettualità fascista non potevano che riflettere la frammentazione culturale e ideologica del Fascismo. Una sensibile frammentazione che venne ulteriormente alimentata dai non pochi equivoci che accompagnarono l’esperienza del regime almeno fino a quel tragico voto di sfiducia consumato nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, che evidenziò drammaticamente i tanti nodi politici irrisolti, maturati nella gestione ventennale del potere, e la crisi esplosa drammaticamente nei vertici del regime. Lo scollamento tra il Duce e coloro che avrebbero dovuto essere i suoi più fedeli collaboratori. Evola, già in tempi non sospetti, aveva puntato l’indice denunciando le troppe asimmetrie presenti nel macrocosmo fascista, e soprattutto l’imperdonabile negligenza di consentire ai centri di potere demo-liberale e massonico, che ancora sussistevano, di lavorare indisturbati per il logoramento del regime.
Comunque la vivacità intellettuale di quel dibattito di tesi e di idee ci ha trasmesso tracce di indiscutibile valore ed interesse per gli argomenti che vennero trattati e spesso anche con una notevole vena polemica. Argomenti che spaziavano da questioni riguardanti la costruzione istituzionale dello Stato fascista, il totalitarismo oppure l’autoritarismo organico, il sindacalismo o il corporativismo integrale; da problematiche inerenti l’ortodossia della Dottrina fascista – fatta salva ovviamente l’enunciazione ufficiale sull’argomento scritta da Mussolini e da Gentile, pubblicata in appendice all’Enciclopedia Treccani – ovvero origini, sviluppi, approfondimenti, fino a giungere a considerazioni su tematiche di relazioni internazionali: posizionamenti, politiche coloniali, alleanze e pertanto la Germania, il Nazionalsocialismo, la sua Weltanschauung, il riarmo politico e militare e, non per ultimo, il dibattito sulla questione razziale.
Su tutti questi argomenti Evola intervenne con competenza, talvolta con indulgente approvazione, sempre rettificando le posizioni alla luce del pensiero tradizionalista, spesso polemizzando, anche aspramente, quando rilevava l’emergere di tendenze, a suo avviso, di dubbia natura, oppure quando si scivolava verso le letture di un razionalismo scientista e giusnaturalista, anticamera di un «materialismo biologico», per quanto riguardava le analisi e i commenti successivi alla promulgazione delle leggi razziali del 1938 e alla stampa del Manifesto del razzismo italiano, nei cui confronti Evola contrapponeva la lettura tradizionale della dottrina delle due nature e degli stati multipli dell’essere e il significato metafisico della teoria cosmologica dei cicli e della regressione delle caste.
Per i canoni del magistero evoliano non potevano sussistere spazi di semplice dialettica, non vi era contemplata la possibilità di una esibizione di natura intellettuale fine a se stessa; la complessità dei vari argomenti poteva essere solo risolta nell’ambito di un disciplinamento di merito e di valore esclusivamente compreso nelle demarcazioni offerte dalle inalterabili verità rivelate dalla Tradizione. Lo stesso porre l’accento su una eventuale svolta totalitaria del regime, già presente nella Dottrina fascista, creava non poche perplessità ad Evola, difatti il serrato confronto tra i teorici fascisti incentrato sulla “vocazione” totalitaria del Fascismo, non solo metteva in discussione l’assetto istituzionale su cui poggiava, fino ad allora il regime stesso, ovvero il precario condominio bipolare che prevedeva al vertice la coabitazione tra il governo fascista e la monarchia, ma andava anche a stuzzicare provocatoriamente la “tregua sociale” sancita tra il regime e un mondo imprenditoriale sostanzialmente estraneo e intimamente ostile al Fascismo; poiché il voler insistere sulla gestione totalitaria del potere da parte del Fascismo con l’aggiunta dell’accelerazione corporativa, andava a sollecitare l’innalzamento dei traguardi sociali che la base fascista da tempo reclamava e la radicale sborghesizzazione dell’Italia, prefigurando gli scenari di una “seconda rivoluzione” che, in verità, in pochi al vertice auspicavano.
Evola giudicava, all’epoca, coerente e funzionale la “doppia presenza” del Duce e del Re ai vertici dello Stato, essendo la legittimità garantita dall’istituto monarchico, che, anche se degradato, una valenza specifica pur sempre la manteneva; dall’altra parte non poteva che biasimare certe pretese totalitarie, non sufficientemente giustificate dottrinariamente, poiché potevano prefigurare il pericolo di un livellamento massificante tendente verso il basso, una “statolatria” invadente, non organicista e non tradizionale.
I teorici fascisti rispondevano rimarcando invece il carattere di novità assunto dalla rivoluzione fascista, il suo volere essere rivoluzione totale e organica della nazione a tutti gli effetti, secondo criteri nuovi propri di un epoca che aveva sancito l’irrompere impetuoso delle masse nella vita politica della nazione e il loro riconoscersi nei movimenti autoritari di popolo, nella militarizzazione dell’attivismo politico e della gioventù, negli appelli plebiscitari, nella logica del partito unico. Era la stagione delle masse politicamente inquadrate, la stagione del totalitarismo.
Il nuovo pensiero politico fascista, non conoscendo distinzione tra «Organicismo» e «Totalitarismo», affermava che uno Stato totalitario potesse essere per sua natura anche organicistico, così come non esserlo, e portava appunto in evidenza il caso dell’Unione Sovietica come contraltare, ma ribadiva anche che uno Stato organico doveva sempre e comunque, per sua intrinseca natura, essere totalitario e puntare ad una estrema unità di accenti, appunto perché, per evitare di disintegrarsi e dissolversi, non avrebbe potuto mai ammettere nel proprio seno l’esistenza di un sentire diverso ed estraneo da quello che l’aveva fondato.
In conclusione lo Stato fascista per poter preservare la propria “organicità” doveva essere per forza di cose totalitariamente concepito e inquadrato e quindi assolutamente disciplinato in senso fascista in ogni suo aspetto e manifestazione.
Possiamo così comprendere come la distinzione tra la visione tradizionale evoliana e le molteplici anime del Fascismo fosse, spesso e volentieri, molto ampia; anche l’ultima fase storica del Fascismo, quella contrassegnata dall’esperienza della Repubblica Sociale Italiana contribuirà a porre fra Evola e determinate istanze finali del Fascismo repubblicano un sensibile spartiacque.Evola evidenzierà di quell’ultimo periodo la grande battaglia ideale e materiale per riscattare l’Onore perduto con l’infamia della firma dell’armistizio e in maniera particolare esalterà l’etica guerriera legionaria manifestata dalle decine di migliaia di volontari fascisti che non vollero venire meno al vincolo di fedeltà che li legava al Duce e all’alleato tedesco tradito dal vigliacco voltafaccia badogliano.
La trincea legionaria della RSI, nella drammaticità estrema del momento, seppe quindi fisicizzare nello stile più autentico e più eroico il virile spirito ario-romano delle origini, scrivendo così una delle pagine più belle e onorevoli della storia d’Italia: “dal punto di vista combattentistico ha rappresentato un fenomeno purissimo e nobilissimo, degno di ogni ammirazione ed addirittura forse unico in tutta la storia d’Italia successiva alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente.” Non provando però alcuna simpatia per quella scelta «socializzatrice» che il Fascismo repubblicano aveva posto in evidenza, come suo biglietto da visita, che gli apparirà come una sorta di cedimento verso il basso, verso una dubbia deriva sociale prevalentemente demagogica che privilegiava il dato economicistico.
Avrebbe preferito che invece fossero stati adottati la disciplina organica dell’economia e il draconiano controllo politico dei processi produttivi che erano propri del Terzo Reich, misure che lo stesso Evola definì di energica profilassi antiplutocratica. Nonostante i vari distinguo e anche le comprensibili delusioni per come fosse miseramente caduto il regime fascista e per l’andamento della guerra, Julius Evola si troverà il 14 settembre del 1944, a Rastenburg – la Tana del Lupo, il Quartier generale del Führer –, ad accogliere il Duce liberato da un commando di paracadutisti tedeschi dalla prigionia del Gran Sasso, assieme a pochi altri fascisti italiani rimasti fedeli. Non sarà direttamente coinvolto nelle vicende della RSI, si troverà invece a Vienna per svolgere un accurato studio sull’azione sovversiva delle forze occulte massoniche per conto della SS. E proprio in quella città rimarrà vittima di un bombardamento, restando paralizzato per sempre agli arti inferiori.
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