L’incontro fecondo delle due Aquile. Julius Evola al fianco di Roma e di Berlino.
di Maurizio Rossi
“Il periodo dell’Asse avrebbe dovuto rappresentare per me un periodo di alta congiuntura, dato che io sempre avevo auspicato «ghibellinamente» l’incontro integrativo della romanità con la germanicità e avevo proposto già da anni il «mito delle due Aquile» come punto di partenza per una possibile ricostruzione europea.”
(Julius Evola)
Adriano Romualdi, che conosceva bene Julius Evola avendolo proficuamente frequentato per lungo tempo, ci ha lasciato di lui una bella e significativa definizione: la sua figura era paragonabile a quella del convitato di pietra, colui che siede al banchetto, ma appartiene ad altri mondi. D’altronde lo stesso Evola aveva sottolineato che uno dei compiti degli uomini della Tradizione era proprio quello di attraversare questo mondo, di agire in esso, senza però appartenergli, senza farsi condizionare, senza farsi corrompere; in fondo anch’essi sono dei convitati di pietra.
Come lui stesso fece, con il suo esempio, la sua radicale linea di condotta, con la trasmissione del suo pensiero e delle sue riflessioni, con la sua immensa produzione culturale: un uomo d’azione che chiamava alla riflessione preparatoria all’azione, un pensatore completo e di spessore in grado di fornire risposte chiare e precise su ogni piano, da quello dottrinario a quello spirituale ed esistenziale, un simbolo allo stesso tempo di resistenza tradizionale e di offensiva rivoluzionaria.
Questo è stato Julius Evola, un fuoco vivo, intenso e ardente che ha illuminato il nostro cammino nel lungo e buio inverno della modernità. Perché c’è sempre una strada per chi voglia percorrerla.
Non ci sembra pertanto fuori luogo, tantomeno anacronistico, tornare a centrare l’attenzione su Julius Evola, proprio partendo dall’impegno rettificante che mise in campo e dall’enorme contributo chiarificatore che, con generosa disponibilità, profuse nel ricco dibattito delle idee che segnò il periodo delle affermazioni vittoriose del movimento fascista e di quello nazionalsocialista – periodo propizio e fecondo per le tante aspettative che conteneva – della centralità che i rispettivi regimi politici ebbero nello spazio geopolitico europeo.
Un impegno, importante, costante e coerente con i presupposti dottrinari che lo giustificarono e che valse al filosofo tradizionalista la sulfurea nomea di anima nera, di cattivo maestro, di asse portante e legittimante del cosiddetto nazi-fascismo. Julius Evola è stato, e rimane tutt’ora, per l’establishment colto dell’antifascismo e del mondialismo, la bestia immonda da dover sopprimere, un nome da cancellare definitivamente dai registri dell’anagrafe politica. La forza del suo insegnamento fa ancora paura, è di una potenza tale da far tremare le vene e i polsi, è una possente testa d’ariete in grado di frantumare i fragili assetti di questo mondo in decomposizione.
La qualità eccezionale del suo pensiero è sempre straordinariamente intensa, è pensiero terribilis per gli zeloti del cosmopolitismo omologante, per gli apostoli del pensiero debole, per gli esegeti masochisti di tutto ciò che è informe, deforme e contro natura. Eppure, nonostante questo, taluni continuano ancora a lamentarsi del perdurante ostracismo discriminante a cui regolarmente viene sottoposto Evola da parte della «cultura ufficiale», quella del Sistema oligarchico dominante, non cessano di stupirsi del fatto che una tale personalità di così vasta cultura non possa ancora beneficiare delle benevoli attenzioni dei legulei di professione.
Probabilmente getterebbero i suoi scritti sulla razza in un inceneritore, sentendosi poi in dovere di «giustificarlo» per avere collaborato ideologicamente con il Fascismo e essersi compromesso intellettualmente con il Terzo Reich – con le SS, addirittura! – come se Evola potesse essere equiparato ad un qualsiasi altro scrittore un po’ ingenuo, con qualche «peccatuccio di gioventù» da doversi far perdonare.
Un affannarsi, che di fatto relegherebbe la sua immensa opera – con soddisfazione di molti – nel limbo ovattato di uno sterile intellettualismo fine a se stesso.
Le vicende però non sono andate come vorrebbero i soloni della riconversione intellettualistica, e non ci sono stati presunti peccati di gioventù da dover perdonare. Dalla seconda metà degli anni venti fino al secondo conflitto mondiale, Julius Evola svolse invece un’attività intensa e proficua, matura e consapevole, che si sviluppò attraverso conferenze, articoli e saggi.
Un’azione di intervento diretto, di pieno coinvolgimento.
Tra le sue opere più significative per l’azione che egli svolse figurarono: Imperialismo pagano del 1928, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo del 1932, Rivolta contro il Mondo moderno del 1934, Tre aspetti del problema ebraico del 1936, Il Mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell’Impero del 1937, Il Mito del sangue del 1937, Sintesi di dottrina della razza del 1941, Indirizzi per una educazione razziale del 1941. Alcune di questi titoli saranno poi pubblicati anche in lingua tedesca e apprezzati da un pubblico per certi versi più attento di quello italiano.
I viaggi compiuti da Evola in Germania furono numerosi, come pure molto interessanti furono i contatti avviati con alcune autorità dello Stato e del NSDAP, grazie a ciò egli potette godere di una grande stima e considerazione presso gli ambienti intellettuali più sensibili alle tematiche tradizionali e determinate gerarchie politiche del Terzo Reich che gli permisero di usufruire di una libertà d’espressione e di giudizio che non aveva avuto paragoni fino ad allora e che era normalmente preclusa agli stessi cittadini tedeschi.
L’attività che egli svolse in Germania contribuì in maniera rilevante a dissipare molti equivoci e a preparare le basi culturali e ideologiche per una maggiore comprensione tra il Fascismo e il Nazionalsocialismo. Essa investì principalmente il significato di quelle tradizioni originarie a cui si richiamavano a livello simbolico ed evocativo i rispettivi regimi, il mito romano e il mito nordico, il significato di classicismo e di romanticismo, la questione razziale, arianità ed ebraicità, e soprattutto l’importanza dell’incontro tra l’elemento ario-romano e quello nordico-ario; smentendo con decisione quanti ancora alimentavano artificiose polemiche tra romanità e germanesimo allo scopo di minare culturalmente l’intesa italo/tedesca: “In Italia e in Germania si destano oggi ancora una volta gli antichi sacri simboli. Sotto il segno dell’Aquila e dell’Ascia e sotto il segno della Croce Uncinata si raccolgono le ultime forze di difesa e di reazione.”
Era un comune sentire che ormai stava attraversando tutta l’Europa sollecitando le coscienze più sensibili e attente; parallelamente anche un Drieu La Rochelle, da un’altra prospettiva, aveva espresso analoghe conclusioni: “Sono diventato fascista perché ho misurato i progressi della decadenza in Europa. Ho visto nel Fascismo il solo strumento capace di frenare e di contenere questa decadenza; inoltre, non avendo più fiducia nelle risorse politiche della Francia e dell’Inghilterra e rifiutando l’intrusione nel nostro continente degli imperi stranieri della Russia e dell’America, ho visto l’unica salvezza nel genio di Hitler e del Nazionalsocialismo.”
Quello che caratterizzò il suo intenso impegno, che non fu mai determinato dalla ricerca di un facile carrierismo o dall’esigenza di accattivarsi aderenze e benemerenze con i vertici politici dell’epoca, venne esclusivamente dettato dalla necessità di apportare rigorosi approfondimenti dottrinari, quanto mai necessari.
Julius Evola contribuì, con spregiudicatezza, senza venir meno alla propria impostazione culturale con articoli, saggi, libri con l’unico fine di volere innestare determinate Idee di ordine tradizionale nei processi politici in atto, affinché li influenzassero e generassero potenti trasformazioni politiche e più che politiche nel senso indicato da tali Idee nel corpo dottrinario del Fascismo e del Nazionalsocialismo, anche quando vennero assunte posizioni politiche e culturali che non riscossero né la sua approvazione, né il suo sostegno.
Fu, insomma, nel complesso un contributo altamente critico e rettificante.
Anche per questo è improprio attribuire ad Evola, soprattutto alla luce Visione del Mondo che egli seppe sapientemente esprimere, una qualsiasi catalogazione maldestramente costruita e ancor più semplicisticamente formulata.
Egli non fu un fascista nel senso comune e generico del termine, un possessore di tessera e cimice come tanti, le finalità spirituali e politiche che lo videro impegnato travalicavano di gran lunga categorie e gabbie ideologiche, miravano ad andare oltre e in taluni aspetti anche in tutt’altra direzione da quella che venne intrapresa dai regimi che le rappresentavano.
Per quanto le sue critiche potessero apparire talvolta anche estremamente polemiche e velenose, tanto da suscitare imbarazzanti nervosismi in alcuni esponenti delle gerarchie del regime, egli ci tenne sempre a precisare che i suoi erano stimoli duri e severi, indispensabili e necessari per un innalzamento della tenuta interna del Fascismo: “Noi vorremmo un Fascismo più radicale, più intrepido, un Fascismo veramente assoluto, fatto di forza pura, inaccessibile ad ogni compromesso.”
Questa in sintesi fu la sua cristallina posizione politica assunta nei confronti della rivoluzione fascista, il suo sentire, una presa di posizione che rivelava al contempo l’adozione di una precisa linea di condotta che non verrai mai abbandonata e che venne inizialmente presentata proprio sulle pagine della sua rivista La Torre, un bimestrale fondato nel 1930, che già nel primo numero avvertiva: “La nostra rivista è sorta per difendere dei principi che per noi sarebbero assolutamente gli stessi, sia che ci trovassimo in un regime fascista, sia che ci trovassimo in un regime comunista, anarchico o democratico. In sé questi principi sono superiori al piano politico; ma applicati al piano politico, essi possono solo dar luogo ad un ordine di differenziazioni qualitative, quindi di gerarchia, quindi anche di autorità e di Imperium nel senso più ampio.
L’intima coerenza del discorso evoliano si esplicò nella sua interezza nella rappresentazione dell’Idea tradizionale, del mito archetipico della stessa, dell’Idea del vero Stato, con il sentito convincimento che determinati richiami ad una visione metastorica e metafisica potessero veicolarsi anche mediante l’utilizzo degli strumenti culturali e politici che i regimi nazionalpopolari offrivano, almeno quelli a cui poteva tranquillamente accedere – confrontandosi con il Fascismo e con il Nazionalsocialismo, con il loro patrimonio di idee – per poi indirizzare il suo discorso verso una riproposizione – restaurazione dell’Ordine tradizionale; attraverso proposte di riorientamento tradizionalistico dei movimenti nazionali, ovviamente andando anche ben oltre le forme che si andavano plasmando mediante l’azione degli stessi regimi.
Suoi significativi contributi apparvero sulle pagine delle riviste Lo Stato di Carlo Costamagna, La Vita Italiana di Giovanni Preziosi, La Difesa della Razza di Telesio Interlandi, anche su Carattere – rassegna del lavoro italiano di Luigi Fontanelli, Critica Fascista di Giuseppe Bottai, Bibliografia Fascista di Cornelio di Marzio; come anche su vari quotidiani tra i quali, Corriere Padano di Italo Balbo, Lavoro Fascista sempre di Luigi Fontanelli, e poi sulle pagine del famoso Regime Fascista di Roberto Farinacci, dove ebbe l’opportunità di curare in assoluta indipendenza e piena responsabilità, una pagina di approfondimento culturale specificatamente dedicata ai problemi dello spirito nell’etica fascista, denominata Diorama filosofico.
Un importante lascito che ha testimoniato nel tempo la serietà e la costanza dell’impegno che venne profuso da Julius Evola dagli anni venni fino a guerra inoltrata, e la ricchezza dei contenuti che traspariva dai suoi scritti pubblicati sulle più significative testate e a larga tiratura del ventennio fascista.
Nel corso della sua attenta ricognizione volta alla ricerca delle persone, delle intelligenze più marcate e degli ambienti più qualificati dell’arcipelago fascista, si trovò soprattutto a guardare con simpatia e attenzione all’esperienza della Scuola di Mistica Fascista, fondata a Milano il 10 Aprile 1930 da universitari dei GUF, con il patrocinio di Arnaldo Mussolini. Studenti che erano cresciuti respirando l’atmosfera del Fascismo, maturando una profonda convinzione nei miti fondatori del regime e una fedeltà assoluta nella persona del Duce.
Il 29 Novembre 1931, la Scuola di Mistica Fascista sarà poi intitolata a Sandro Italico Mussolini, in onore del figlio prematuramente scomparso di Arnaldo Mussolini.
Niccolò Giani, Guido Pallotta, Fernando Mezzasoma e molti altri giovani entusiasti, avvalendosi della guida di Arnaldo Mussolini, nutrirono l’ambizione di poter diventare una autentica e intransigente avanguardia intellettuale, morale ed etica nella pienezza dei valori espressi dalla Rivoluzione Fascista: una élite destinata ad incarnare e ad approfondire la dottrina fascista, da loro concepita come una totale e rivoluzionaria visione spirituale del mondo e della vita.
Proprio per questi motivi, il Duce il 20 Novembre 1939 decretò che la Scuola di Mistica fascista avesse ufficialmente in custodia il famoso “Covo” milanese di via Paolo da Cannobio, il “Covo” del fascio primogenito, un luogo altamente simbolico per il Fascismo, carico di suggestivi richiami emozionali. Con questo atto, la Scuola, ricevette dal Duce un imprimatur che riconosceva in essa una ortodossa manifestazione del pensiero e dello stile fascista e la consacrava come la depositaria e la trasmettitrice della purezza dell’Idea fascista, della sua Dottrina e dello spirito rivoluzionario delle origini.
Come disse Mussolini alla delegazione della Scuola: La mistica è di più del partito, è un Ordine. Chi vi partecipa deve essere dotato di una grande fede.
Il cosiddetto “Covo” del fascio primogenito andò quindi a rivestire per i mistici fascisti un ruolo centrale nel loro immaginario dottrinario: rappresentava la fonte mitica della fede mussoliniana, il principio fondante della Dottrina fascista, era per loro come trascendere il tempo profano per riapprodare al tempo mitico della purezza dell’Idea, un riaccostamento di ordine metafisico a cui si poteva accedere soltanto attraverso i miti e i simboli, e la Mistica fascista era satura di richiami, di miti e di simboli.

Niccolò Giani
Parlarono di una rivoluzione culturale, del carattere e dello Spirito che, attraverso la riappropriazione della centralità del mito della romanità, della forza evocatoria olimpico-romana e della sacralità originaria della Stirpe, visti come manifestazioni metastoriche e metafisiche della migliore tradizione ario-romana, avrebbero dato una superiore legittimazione al processo di riconoscimento della Stirpe italica nel Fascismo, e avrebbero giustificato all’Italia fascista il diritto-dovere di adempiere ad una missione universale facendo del Fascismo il crocevia della storia del ventesimo secolo e il riformatore dei tratti essenziali della Civiltà europea, in ogni suo aspetto.
Insomma, un insieme di aspetti interessanti che non potevano certo lasciare indifferente Evola, che si mostrò disponibile alla collaborazione entrando a far parte del corpo redazionale di Dottrina Fascista, la rivista della Scuola.
Parteciperà anche al Convegno nazionale di Mistica fascista, organizzato dalla Scuola il 19/20 Febbraio 1940 a Milano – il più importante avvenimento politico-culturale dell’epoca – con una propria relazione intitolata: Sul concetto di mistica fascista e sui rapporti con la dottrina della razza.
Nel sentire dei mistici, si trattava appunto di una visione intransigente del Fascismo che voleva collegarsi all’Idea tradizionale, facendo di ambedue un solo momento così rivoluzionario e potente da scuotere la modernità fin nelle sue fondamenta, trasformare gli uomini e la società.
Una rivoluzione integrale che, nelle intenzioni, sarebbe dovuta procedere come una autentica rivolta contro il mondo moderno: ecco il felice punto d’incontro che si verificò tra il pensiero di Evola e quello degli uomini della Mistica fascista.
Le verità metapolitiche della Tradizione potevano quindi coniugarsi con le aspettative rivoluzionarie del Fascismo, e il richiamo agli insegnamenti di Julius Evola apparve più che evidente nelle significative parole che Niccolò Giani utilizzò per spiegare tale convincimento: “Il Fascismo è un richiamo violento alla Tradizione, non un ritorno o una ripetizione. Per noi fascisti la Tradizione come lo dice il significato etimologico del termine e come Evola ha documentato, è e non può essere che dinamica. Altrimenti si parlerebbe di conservatorismo o di reazione. Invece, la Tradizione è continua coniugazione, attraverso il presente, del passato e dell’avvenire; è processo inesausto di superamento, è una fiaccola accesa con la quale ogni popolo illumina la propria strada e corre nel tempo verso l’avvenire. Ecco perché, oggi, Rivoluzione e Tradizione non si escludono, ma anzi si identificano e questo spiega il culto che noi abbiamo pel passato e dice ai soliti uomini dai paraocchi che l’italiano del secolo XX non può che essere fascista.”
(segue nella seconda parte)
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