Pubblichiamo oggi, in ordine di tempo, l’ultima risposta (critica) che la Fondazione Evola, nella persona del suo Presidente, ci ha rivolto dalle pagine del libro “Julius Evola e la sua eredità”. A differenza della prima e della seconda occasione, in cui rispondemmo ad altrettante critiche, stavolta non abbiamo nulla da rispondere perché nulla v’è da aggiungere rispetto a quanto già detto. Anzi, saremmo lieti di ricevere risposta (nel merito) alle nostre riflessioni una volta per tutte. Spiace, dunque, dover constatare come le nostre tesi ancora una volta non siano state affrontate né smentite, limitandosi a coniare (per noi) epiteti davvero infelici come “Refrigerazione Evola” o di coloro i quali percorrono la strada “senza sbocchi, quella angusta della sezione di partito”. Lasciamo dunque al lettore, ripartendo magari dalle precedenti risposte, la libertà di farsi un’idea nel merito. La nostra ce la siamo già fatta: l’eredità di Evola non la lasceremo in mano a massoni e ‘professori’.
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Premessa di Gianfranco De Turris a “L’eredità di Julius Evola”
Un pensatore che non lasci, alla sua scomparsa fisica, un’eredità culturale e/o spirituale ha evidentemente fallito la sua missione. La sua eredità di scritti, di idee, di esempio potrà essere dimenticata, o misconosciuta, o criticata, o ghettizzata, o falsificata, magari addirittura demonizzata, ma ci deve pur essere. Ecco il motivo di un convegno che ha come titolo “L’eredità di Julius Evola”, per capire quale essa sia a quaranta anni dalla sua morte, per confermare che esiste sempre un lascito che ha percorso sotterraneamente la cultura italiana e anche internazionale.
Curiosa sorte di questo pensatore che ha ancora molti nemici dentro e fuori i confini, o che si preferisce bellamente ignorare. Ma è proprio da quest’ostilità, attiva e passiva per così dire, che si può misurare quanto egli non sia stato e non sia un intellettuale minore, di scarso conto, poco incisivo, da dimenticare, Fosse stato tale non ci sarebbero le diverse indignate, inviperite e addirittura intimidatorie reazioni di certuni nei suoi confronti e anche verso questo convegno. Il che vuol molto semplicemente dire, a contrario, che il pensiero, anzi i vari filoni del pensiero di Julius Evola sono ancora vivi e vegeti, controcorrente, urticanti tutti coloro – e sono veramente parecchi – i quali ragionano in modo ovvio e conformista, e che sono sempre utilissimi per capire e criticare la deriva, che parte ormai da lontano, imboccata dalla società odierna e dai suoi rappresentanti intellettuali, per indicare invece nuove strade e orizzonti di idee.
Come tutti sanno, nel corso di quasi sessant’anni di attività Julius Evola si è occupato di vari ambiti, argomenti, tematiche che è inutile elencare. Affrontato un tema, lo portava alle estreme conseguenze per poi passare a uno successivo inquadrandolo nella sua Weltanschauung, senza per questo ammantarsi dell’etichetta di specialista o esperto di questo o quest’altro. Sicché evidenziare quale sia stata la sua “eredità” significa affrontare questi diversi ambiti, argomenti e tematiche nel loro complesso per capire il segno da lui lasciato, le indicazioni originali date, le vie aperte anche con grande anticipo sui tempi: arte, filosofia, teoria dell’eros, storia delle religioni, esoterismo ed ermetismo, simbologia, orientalismo, politica e metapolitica e così via.
In una cultura italiana e internazionale che ormai vivacchia di luoghi comuni, e in cui vige un unico pensiero dominante, e che si autoalimenta cercando di sopravvivere a se stessa autoincensandosi e autogiustificandosi per illudersi di non essere moribonda, parecchi sentono (ma spesso non lo esprimono) la necessità di cercare orizzonti diversi, dato che l’evolversi stesso della situazione sta mettendo in crisi lo status quo. I vari territori in cui si è addentrato Julius Evola, e i nuovi percorsi da lui tracciati, potrebbero essere utili a molti, purché scevri di sovrastrutture pregiudiziali.
Come accade sempre a un ceto in agonia, che si aggrappa con disperazione al passato contingente e che non vuole ammettere che il tempo ormai dà loro inesorabilmente torto, la casta di certi intellettuali italiani e stranieri utilizza nei confronti di chi naviga controcorrente un’arma vecchia e stantia, ma purtroppo sempre efficace dopo decenni di condizionamento massmediatico. La critica squisitamente ideologica che non affronta il quid di un pensiero per smontarlo “scientificamente”, vale a dire con critiche sulle quali è possibile un dibattito anche aspro, ma semplicemente utilizzando riferimenti di tipo “politico”, grazie a una serie di termini che ancora oggi hanno un effetto demonizzante, se non addirittura criminalizzante, e rispetto ai quali non è dunque possibile aprire alcun dibattito serio.
Crocefisso dalle accuse, la questione si chiude lì. In tal modo si pensa di chiudere la partita, di mettere all’angolo e schiacciare il pensiero anticonformista, di zittire l’interlocutore, relegarlo in un ghetto da cui non può uscire contornato com’è da un filo spinato ideologico. Mi pare ovvio che se si usa questo solo metodo terroristico, si dimostra di non possedere altri metodi e argomenti, nessuna vera ragione. È un modo di comportarsi da sciacalli, da gaglioffi, da vigliacchi, da veri inquisitori. È la dimostrazione che altre armi intellettuali non esistono, la dimostrazione di grettezza e ignoranza, anche quando ipocritamente ci si nasconde dietro l’accusa di “non-scientificità” del pensiero evoliano, facendo tinta di non conoscere invece tutti gli apprezzamenti “scientifici” di cui esso è stato oggetto negli anni passati da parte di studiosi italiani e internazionali. Ne peraltro si è capito (o si fa finta di ignorare) quale fosse il metodo di Evola ben spiegato sin dal 1934 nell’introduzione a Rivolta contro il mondo moderno: non disprezzare il dato scientifico, non rifiutarlo affatto, ma al contrario utilizzarlo a supporto delle sue analisi, delle sue interpretazioni, delle sue deduzioni.
Insomma, oggi, negli anni Dieci del XXI secolo, Julius Evola dovrebbe tornare a essere come negli anni Settanta/Ottanta del XX secolo, vale a dire il filosofo proibito, proprio come si intitolava un saggio a lui dedicato e pubblicato nel 1994. Nei suoi confronti dovrebbe vigere un caveat: guai ad avvicinarlo, guai a citarlo, guai a occuparsene perché potrebbe portare pregiudizi in ambito culturale, intellettuale, giornalistico, editoriale, accademico. Possibile? Per certuni è così, dove si dimostra che la visione della democrazia non appare diversa da quella di una dittatura, dove la libertà di pensiero, di espressione, protetta della Costituzione italiana cui spesso impudicamente si fa riferimento (definita non senza sprezzo del ridicolo da qualcuno “la più bella del mondo”), non vale sempre e per tutti, ma è condizionata da quali argomenti ci si occupa. Vale addirittura per le opere di autori condannati per omicidio e per ex terroristi anche non pentiti, ma per un pensatore anticonformista non lo dovrebbe.
La casta accademica, come si è detto, si difende come può e nel suo bunker impedisce che vi entrino coloro i quali non sono organici: le commissioni per le docenze universitarie respingono con regolarità sospetta quasi tutti coloro i quali si occupano di pensatori non ortodossi con le scuse “scientifiche” più ridicole e pretestuose, giacché essersi ad esempio interessati seriamente di Julius Evola per questi tracotanti professori è una colpa imperdonabile, un peccato mortale. Ecco come costoro si autoperpetuano, da vera casta, anche se il sistema non potrà durare in eterno.
L’aspetto paradossalmente grottesco e ridicolo di tutto ciò è che la “proibizione” di occuparsi della molteplice attività di Julius Evola giunge dall’alto dell’Accademia “di sinistra” e dal basso della Militanza “di destra”. Ovviamente di una certa Accademia e di una certa Militanza, dato che in sé questi termini e quel che s’intende per essi non sono aprioristicamente negativi e bisogna vedere cosa esprimono. Per nostra fortuna questi ambienti lanciano dei caveat che si annullano tra loro e azzerano la “proibizione” in quanto tale. L’Accademia “di sinistra” s‘indigna e chiama alle armi perché si cerca di “rivalutare scientificamente” il filosofo che non avrebbe nulla di “scientifico” (secondo la particolare accezione data al termine) e teme che in tal modo s’inquinino le menti vergini e ignare dei giovani studenti universitari. La Militanza “di destra” s’indigna e chiama alle armi perché l’interesse di docenti e studiosi “sterilizza” e “annacqua” e “depotenzia” il medesimo pensiero del filosofo, sottraendolo così alla vera interpretazione della “base”, dei giovani “duri e puri”.
Ovviamente si tratta di frange minoritarie ancorché rumorose assai, e oggi, a settanta anni dalla fine della seconda guerra civile europea e a quaranta dalla morte di Julius Evola, le generazioni sono mutate e ci sono sia accademici che militanti i quali la pensano in modo assai diverso. Le cose cambiano e certa gente non se ne sta accorgendo. Rinverdire determinati lontani fasti significa solo che si ha paura del tempo che passa.
I più penosi sono però i nostri accademici, penosi e in mala fede, pura espressione di un ipocrita pensiero politicamente corretto. Per due motivi. Strillano tanto al lupo!, al lupo!, però hanno rimosso il lampante fatto che la classe accademica italiana del dopoguerra era sostanzialmente la stessa dell’anteguerra, quella cioè che in massa – esclusi una dozzina di nomi – giurò fedeltà al fascismo. Tutti lo fecero, compreso Norberto Bobbio, il “papa laico”. Avrebbe dovuto essere epurata integralmente, ma così facendo le cattedre degli atenei sarebbe rimaste vuote. Le “epurazioni” furono pochissime, spesso temporanee, anche se eclatanti. Continuarono quindi a insegnare senza troppi problemi e senza quelle contestazioni che si fanno oggi nei confronti di uno che accademico non fu e che non giurò fedeltà al fascismo e non fu neppure iscritto al PNF o al PFR.
Il secondo e più sospetto motivo è che questa violenta levata di scudi è giunta – ma guarda un po’ il caso -non da parte di esponenti delle varie discipline rappresentate al convegno su “L’eredità di Julius Evola”, ma di una sola disciplina, la Storia delle Religioni. Il che fa pensare legittimamente che sotto sotto ci sia un fatto personale, personalissimo, e ciò inficia la buona fede della loro protesta e la rende un regolamento di conti interno all’ambiente italiano dei docenti di Storia delle Religioni. Un fatto veramente indecoroso. Castoro hanno rimosso anch’essi il fatto che i loro Maestri furono tutti, senza eccezione, “fascisti”: da De Martino a Brelich, da Pettazzoni a Sabbatucci. E allora come la mettiamo? La strumentalizzazione dell’evento è più che evidente.
Però, come una certa categoria di mariti, entrambi gli ambienti ci hanno in seguito ripensato. Premesso che le rispettive polemiche sono state assolutamente pregiudiziali, nel senso che nessun rappresentante degli Accademici e dei Militanti critici del convegno era presente ad ascoltare e quindi giudicare e valutare quanto è stato detto, ecco che gli uni e gli altri in separata sede hanno voluto dire la loro nel merito. I sinistri Accademici organizzando a inizio dicembre 2015 presso la Facoltà di Lettere de “La Sapienza” un miniseminario con il pretenzioso titolo di “Relazioni pericolose. La storia delle religioni italiana e il fascismo”, che ha inteso fare i conti con i loro “padri nobili” fascisti di cui sopra si diceva, freudianamente uccidendoli sul piano scientifico e ideologico-politico per redimere se stessi e prenderne – solo adesso! – le debite distanze, ma trascinando del tutto il casus belli Evola da cui prendevano le mosse per loro esplicita ammissione, limitandosi a pochi e superficiali accenni qua e là senza alcun costrutto, neppure critico. Con risultati talmente ridicoli e penosi data la disparità dei relatori intervenuti, in certi casi neppure docenti né storici delle religioni (non essendo infatti mancati interventi al limite dell’isteria), che, se questo è quanto riesce a mettere in cambio certa Accademia trinariciuta, non ci si dovrebbe preoccupare più di tanto sul piano culturale.
I destri Militanti da parte loro hanno fatto eco agli Accademici mettendo in piedi a gennaio 2016 un convegno dall’impegnativo titolo di “Rigenerazione Evola”, che forse sarebbe stato più giusto chiamare “Refrigerazione”, dato che hanno congelato un pensiero multiforme a solo loro uso e consumo prendendo in considerazione unicamente quella parte da essi ritenuta “politica”, e per di più limitata alla politica fra le due guerre, ed escludendo, anzi rigettando, tutte le altre, trasformando cosi il filosofo tradizionalista in un guru, in un totem, in una statua da venerare quale egli mai avrebbe voluto essere, e mai avrebbe accettato di essere. Sono, a pensarci bene, la versione odierna di quelli che lo stesso interessato aveva con autoironia definito “evolomani” e che, travisandone il pensiero in buona o mala fede non importa, sono stati spesso i maggiori responsabili della cattiva fama che si guadagno tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Costoro non capiscono – o meglio si rifiutano pervicacemente di capire – che Evola è una delle figure più importanti del pensiero del Novecento e non solo, e che la sua grandezza sta nel fatto di aver espresso la propria visione del mondo tradizionale in molteplici ambiti. Fosse stato un semplice teorico della politica non avrebbe l’importanza che in effetti ha. Rifiutandosi ottusamente di far parlare documenti e testimonianze ormai numerosi, disconoscendo studi e analisi, non leggendo nel modo giusto neppure le parole dello stesso Evola e non contestualizzandole, costoro si ostinano in una strada senza sbocchi, quella angusta della sezione di partito. Non vogliono capire che i piani della “militanza” e quello di chi studia Evola nei suoi molteplici aspetti potrebbero benissimo camminare in parallelo, addirittura con reciproci scambi. Avere i paraocchi non porta nulla, se non ad andare a sbattere contro i muri e ad abbassarsi sino a polemiche pubbliche ad personam, che non sono proprio il massimo dell’onorabiIità.
Et de hoc satis.
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