di Julius Evola
(tratto da “Il Conciliatore”, 15 Agosto 1971)
Nel nostro precedente articolo Che cosa è la Tradizione non abbiamo accennato che l’autore che ha preteso di trattare, in un libro recente, tale argomento, fra l’altro ha una specie di fobia per le forme della realtà politica e sembra confinare il concetto della tradizione in un ambito estraneo, in fondo, a questa realtà, dunque anche a tutto ciò che è Stato, gerarchia politica e imperium. Questa è una assurdità dovuta ad una idiosincrasia personale e a certe sfasate vedute spiritualistico-cristiane[1]. Invece sta di fatto che la Tradizione si manifesta nella sua piena potenza formatrice e animatrice proprio nel dominio dell’organizzazione politico-sociale, a conferire ad essa un significato e una legittimazione superiore.
Qui vogliamo presentare un esempio precipuo di simili strutture tradizionali, il quale si è continuato fino all’epoca moderna: l’esempio del Giappone.
L’ideale politico nazionale del Giappone, designato col termine Yamato tamashi, corrisponde alla tradizione imperiale, intesa come una «tradizione dall’alto». In una formulazione mitica, nel Ko-gi-ki, testo fondamentale della tradizione in parola, al capostipite dei sovrani del Giappone vien fatto dire: «Seguendo il comando, scenderò in terra». Come è noto il «mandato celeste» fu anche il centro dell’idea politica della Cina tradizionale. Un equivalente, pero assai indebolito, era quel «diritto divino» o «per grazia di Dio» che fu conosciuto anche nell’Occidente di ieri. Però la concezione nipponica è caratterizzata dall’assenza di ogni dualismo e dal supporre, per così dire, una dimensione non-umana, o non soltanto «umana» nel sovrano; per il che, entra anche in quistione una sua connessione misteriosa e mitica con una entità «solare», Amaterasu-o-mikami.
L’accennata assenza di un dualismo si ritrova anche nell’idea che l’atto del governare fa tutt’uno col culto; il termine matsurigoto significa sia governo in senso stretto, cioè come potere temporale, sia culto, «esercizio delle cose religiose». E la stessa sintesi rilevabile in civiltà molteplici delle origini, non esclusa la prima Roma dei re e poi, in parte, la Roma imperiale. Così in Giappone si poteva dire che la religione era politica, e che la politica era religione; formula questa, la quale aveva precise conseguenze anche nel campo etico e nella teoria dei doveri. La religione ufficiale giapponese, lo Shintoismo, ha avuto per caposaldo il cû-ghi, ossia la fedeltà assoluta al sovrano. Peraltro, anche ogni virtù o azione della vita individuale o collettiva finiva col giustificarsi nei termini di detta fedeltà, in un certo modo, trascendente. Fedeltà e lealismo in Giappone sono valsi non soltanto sul piano guerriero e cavalleresco, ma hanno ripreso il rispetto per i genitori, la solidarietà fra parenti e fra amici, la pratica delle virtù, il rispetto delle leggi, l’armonia fra i coniugi col giusto rapporto gerarchico fra i due sessi, la produttività nel campo dell’industria e dell’economia, il lavoro e lo studio, il compito di formare il proprio carattere, la difesa del sangue e della razza.
Tutto ciò è «fedeltà» e, in ultima istanza, fedeltà di fronte al sovrano. Ogni atto antisociale, immorale, criminoso, su tale base non significa la trasgressione di una norma astratta, di una legge sociale più o meno anodina o convenzionale, bensì tradimento, slealtà, ignominia, paragonabile a ciò di cui si macchia il combattente che diserta il suo posto o che tradisce l’impegno da lui virilmente contratto col suo capo. Non vi sono dunque dei «colpevoli» ma piuttosto dei «traditori», degli esseri incapaci di onore.
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Per quel che riguarda i simboli nipponici della sovranità, si può far cenno al cosidetto «triplice tesoro», sam-shu no-shin-ghi: specchio, pietra e spada. In Giappone non esisteva nessuna cerimonia di investitura; il nuovo sovrano, appartenente ad una stirpe secolare, diveniva tale in quanto assumeva il triplice tesoro che ne contrassegna e suggella il diritto dall’alto. La corrispondente tradizione è così antica, che spesso il suo significato originario non si è conservato che in una forma attenuata o velata.
Il primo dei tre tesori, lo specchio, viene chiamato kaga-mi-memitamo, ossia «augusto spirito». In un quadro quasi magico, si ritiene che in esso sia presente quella stessa forza «solare», che, come si è detto, è stata associata alle stesse origini mitiche della dinastia nipponica. Praticamente, lo specchio invita il sovrano a scorgervi la sua vera imagine, conforme al «mandato dall’alto».
Nel secondo simbolo, la spada, o sciabola, vanno considerati diversi aspetti. Oltre al potere temporale, si fa riferimento alla capacità di «discriminare» (separare tagliando) il reale dall’irreale, il giusto dall’ingiusto, tanto da potere essere un vero giudice sulla terra. Un ulteriore significato ci riporta nel mito. Infatti, si vuole che nelle origini quell’arma fosse stata brandita dal fratello della divinità solare per uccidere il «drago dalle otto teste». Così essa rimanda al compito di una lotta quasi metafisica contro le forze «infere», «telluriche» e selvagge agenti sui vari piani dell’esistenza (personificate dal drago, anche il numero otto delle sue teste ha un suo significato, su cui qui non ci si può soffermare).
Di passata, si deve rilevare il particolare significato che la sciabola ha avuto in Giappone, nelle caste superiori. Già per forgiarla una speciale corporazione usava anche dei rituali, tenuti segreti. La sciabola era connessa al rango di una persona in termini quasi mistici, tanto da venir considerata come un suo inalienabile attributo e un possesso, trasmissibile eventualmente solo al proprio discendente diretto.
Quanto al simbolo della pietra, tama, come «perla di pietra» negli ambienti buddisti la si è voluta riferire alla «sacra perla della compassione» della loro dottrina, però nel senso più alto di comprensione, di sentimento umano, di apertura e grandezza d’animo (in sanscrito: mahâtmâ). Però il termine giapponese vuol dire anche «anima» o «nume». Il simbolismo della «pietra celeste» lo si ritrova in contesti diversi e interessanti. Ricorderemo che nell’epos di Wolfram von Eschenbach lo stesso Graal ci viene presentato come una pietra divina o celeste, lapis ex coelis, non disgiunta dall’idea di regno da restaurare, mentre l’antica tradizione inglese ha conosciuto la cosidetta «pietra del destino», lia fail, alla quale fu attribuita una parte importante per il riconoscimento e la consacrazione dei veri re. Del resto, più in genere, spesso una pietra sacra è attestata là dove si stabilì il centro di una organizzazione tradizionale in senso superiore, quasi nel senso di un «centro del mondo»: si ricordi l’Omphalos di Delfo.
Tornando all’etica di una fedeltà personalizzata, essa era naturalmente vigente al massimo fra gli elementi più vicini al sovrano, ossia fra i bushi o samurai, concepiti come il fiore della società giapponese secondo l’antico proverbio: «Ciò che è il ciliegio fra le fioriture, tale è il bushi fra gli uomini». Essi erano eminentemente gli esponenti della tradizione; la loro organizzazione come casta risale ad alcuni secoli fa, però la dottrina che ad essi ha fatto da anima e da legge, il bushido, è più antica.
Dei samurai ci si è fatta, in Occidente, una idea piuttosto stereotipa. Viene generalmente trascurato un aspetto essenziale, ossia una interiorizzazione della forza e dell’eroismo, la vittoria sulla parte naturalistica dell’essere umano, intesa anche come il presupposto per il comportamento nobile, lo stile e la «bellezza», tutti elementi che sono parti integranti di questo ideale tradizionale giapponese. E interessante, in tale contesto, che al bushido, alla «via del samurai», non sono state estranee dottrine e discipline come quella dello Zen, il quale è una scuola esoterica del buddismo, giunta in Giappone attraverso la Cina. Proprio a questa scuola è stato proprio il postulare una controparte interna, perfino iniziatica, per attività molteplici: non solo per le «arti marziali» (a tale riguardo entrando naturalmente in prima linea i samurai), ma altresì per l’artigianato, per le arti vere e proprie, per la lotta e via dicendo. La veduta essenziale era che la maestrìa esterna non doveva essere il frutto di un mero forzato addestramento tecnico bensì di un compimento interno, in un certo senso superindividuale.
Tutto ciò per un quadro generale della tradizionalista nipponica.
Nei riferimenti fin qui dati, tutto quel che si collega a forme storiche culturali e nazionali particolari può essere separato da ciò che può valere in se e per sé come modello tradizionale.
Del resto, vi sono aspetti per i quali non mancano certe corrispondenze analogiche nello stesso Occidente pre-moderno. Cosi all’etica del bushido si potrebbe mettere a fianco quella che fu propria agli antichi Ordini ascetico-guerrieri cavallereschi europei, e si potrebbe ricordare tutta la parte che il principio romano-germanico della fedeltà ebbe egualmente nella società medievale. In essa, peraltro, non mancarono nemmeno alcune forme di sacralizzazione dell’impero (specie in relazione agli Hohenstaufen), sebbene esse incontrassero un limite per il dualismo, inesistente in Giappone, grazie alla sua religione, fra il principio imperiale e la Chiesa cattolica nelle sue pretese egemonistiche (donde anche l’antitesi fra Guelfi e Ghibellini).
Pertanto, non sarebbe azzardato dire che se l’Europeo moderno ha potuto sentire estranei ed «esotici» alcuni degli aspetti del modello nipponico, di cui abbiamo detto, ciò non e dovuto solamente ad una differenza di aree etnico-culturali; nel lato più essenziale, ciò è dovuto invece, in buona misura, al fatto che l’Europeo, in sèguito alla secolarizzazione del tipo di civiltà, specie nell’idea politica e aristocratica, si è estraniato da forme tradizionali che in precedenza anche lui aveva in proprio.
Ci ricordiamo di quel che nel periodo dell’Anti-comintern ebbe ad affermare un ideologo giapponese, ossia che soltanto la dottrina tradizionale dello Stato nipponico rappresenta l’antitesi completa e irriducibile ad ogni comunismo. Ciò era effettivamente vero. Da noi, il De Poncins e il Malinski hanno dichiarato che, quando, in ordine al fondamento della sovranità, dal «per grazia di Dio» si passa al «per volontà della nazione», il grande salto è già compiuto; di là dalle varietà della «democrazia», tutto andrà a gravitare fatalmente verso il comunismo.
Nel parlare del modello giapponese abbiamo usato i verbi al passato prossimo e al passato remoto, perché dopo il crollo della seconda guerra mondiale sembra che quel paradossale e mirabile equilibrio fra Tradizione nel campo spirituale, e modernizzazione nel campo materiale, in Giappone si sia spezzato, a favore del secondo termine. Il recente tragico gesto dimostrativo, costituito dal suicidio da samurai di Yukio Mishima, per l’insignificante risuonanza che esso ha avuto è, a tale riguardo, significativo. Il «miracolo economico» giapponese (dovuto in parte proprio alle potenze vincitrici: interdicendo al Giappone gli armamenti esse hanno permesso la concentrazione di tutte le risorse sul piano economico tanto da farne un temibile concorrente come terza potenza industriale mondiale) ha avuto per controparte, esattamente come il «miracolo economico» della Germania occidentale, un allarmante svuotamento spirituale, accentuato da forme molteplici di occidentalizzazione, se non pure di americanizzazione, del costume, specie nelle grandi città. Non si può dire se sussistono ancora, allo stato latente, forze tradizionali capaci di riaffermarsi ove il clima generale mutasse per qualche imprevedibile circostanza.
Però tutto questo è estraneo al tema del presente scritto, e non è, per esso, rilevante. Noi abbiamo voluto soltanto presentare in sintesi un modello tradizionale nelle sue valenze intrinseche, ma non astratte, dato che ad esso ha potuto corrispondere una realtà la quale è durata per secoli.
Note
[1] Evola si riferisce ad Elémire Zolla, ed in particolare al suo libro “Ce qu’est la tradition”, pubblicato per la prima volta in Italia da Bompiani nel 1971 con il titolo “Che cos’è la tradizione”. L’articolo di Evola dal titolo omonimo, uscito sul mensile “Il Conciliatore” del 15 giugno 1971, da lui citato all’inizio del presente scritto e da noi ripubblicato, è stato anche inserito nella raccolta “L’arco e la clava”, Edizioni mediterranee (N.d.R.).
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