Dopo gli approfondimenti sulle orde di Gog e Magog e sulle fenditure della Grande Muraglia, proseguiamo su questa linea proponendo altri articoli molto significativi su tematiche attinenti ai tempi ultimi nei quali stiamo vivendo. In questo articolo pubblicato nel febbraio 1957 sul “Roma”, Julius Evola trattava – richiamando anche quanto da lui scritto su Gog e Magog esattamente un anno prima, nel febbraio 1956 – del “mito dell’avvento”, da intendersi come il tema, ricorrente nelle varie tradizioni, del rimanifestarsi del principio della regalità divina dallo stato di latenza, in prossimità della fine dei tempi, della chiusura del ciclo storico in atto. Indubbiamente il tema – come accennato dallo stesso Evola, con riferimento alla regalità meramente ultraterrena di Cristo e del suo Regno – è concettualmente e cronologicamente centrato anche con l’Avvento cristiano, inteso come il tempo liturgico che precede il Natale e ad esso preparatorio (tempus adventūs Domini), che, dopo varie dispute storiche, si è stabilizzato tradizionalmente in quattro settimane nelle Chiese occidentali (con quattro domeniche di Avvento, di cui la prima compresa tra il 27 novembre, come avvenuto quest’anno, e il 3 dicembre), mentre nelle Chiese Ortodosse è di sei settimane. Da notare che la festività del Cristo Re si celebra nell’ultima domenica dell’anno liturgico, che è quella precedente la prima domenica d’Avvento (quest’anno, il 20 novembre).
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di Julius Evola
Tratto dal “Roma”, 8 febbraio 1957
Per chi ha familiare il mondo delle antiche tradizioni dei diversi popoli, un tema che presenta un particolare valore suggestivo è quello della connessione fra l’idea di una «fine dei tempi» – cioè praticamente, del chiudersi o esaurirsi di un ciclo storico – e quella del rimanifestarsi del principio della «regalità» nel punto decisivo. A tale riguardo, si potrebbe parlare di un «mito dell’avvento» e rilevare che se le formulazioni religiose e apocalittiche di tale mito sono per noi le più note, pure in quelle originarie è piuttosto il tema di una regalità, diciamo così, metafisica, cioè una figura regale che incarna un potere dall’alto e un principio eterno, superstorico, ad aver il maggior risalto.

Kalki (opera del pittore indiano Raja Ravi Varma, XIX secolo)
L’idea di fondo è che in ogni civiltà nel punto massimo del disordine e dell’anarchia, quasi per una brusca inversione si manifesta una forza rettificatrice, e che come per un ritorno alle origini può iniziarsi un nuovo ciclo. La formulazione più sistematica e antica di tale idea è forse la teoria indù degli avatâra, «discese» o manifestazioni periodiche di una forza dall’alto quando, in una società, la legge è violata, le caste più non esistono, l’empietà, il disordine e l’ingiustizia prevalgono. In particolare, concependosi che attualmente si vive in una «età oscura», per il punto più critico, terminale di tale età si attende la venuta del cosiddetto Kalki-avatâra, ossia di una figura del genere, che insieme ai re di semi-leggendarie dinastie (la «dinastia solare» e la «dinastia lunare») darà battaglia alle forze del caos.
A ciò fa riscontro l’antico mito persiano riguardante l’avvento di Shaoshyant. Nell’eterna vicenda della lotta fra il dio di luce e l’anti-dio Arimane, sarà, questa, l’apparizione di un sovrano inviato dal dio per instaurare un nuovo, trionfale regno dei fedeli del principio dell’ordine, della verità e della luce, queste tre idee essendo, in quella tradizione, strettamente connesse. Ora è interessante notare, perché di solito lo si ignora, che gli Ebrei proprio da questa antica concezione irànica trassero la loro idea del Messia, la quale solo nel tardo profetismo assunse tratti unicamente mistici e religiosi che anticiparono la teoria cristiana dell’avvento di un Regnum sovraterreno. Altrimenti stavano le cose nell’antica concezione ebraica: qui il Messia era invece colui che avrebbe assicurato al popolo ebraico il potere su questo mondo e la vittoria su tutti i suoi nemici, secondo la promessa fatta al «popolo eletto».
È parimenti poco nota la parte che il mito dell’avvento ebbe nel periodo imperiale romano. Proprio come adventus venne designata l’ascesa al trono di ogni nuovo Cesare. Se già Virgilio nella nota ecloga quarta aveva preannunziato, in relazione all’avvento di Augusto, la fine dell’età del ferro (esatto equivalente classico della «età oscura» degli indù) e il sorgere di una nuova età aurea, anche successivamente a Roma si visse il clima di una specie di attesa messianica incentrata nella figura di ogni imperatore, che in effetti veniva salutato con la formula liturgica: «Vieni, tu che noi aspettiamo!». In una sua interessante opera, ricca di nuovo materiale, lo Staufen ha messo in luce proprio questi aspetti della mistica romana del Regnum, la quale in una certa misura involontariamente preparò il terreno alla successiva idea cristiana, che però fu diversa, esclusivamente superterrena.
Il tema, di cui parliamo, ci si presenta con particolare risalto nel Medioevo. La restauratio imperii romano-germanica e ghibellina vi si associò ad un gruppo di leggende e di miti nei quali l’idea politica si potenziava in un suo significato superiore, trascendente, universale. Questo clima, del resto, in un certo modo si rispecchia nella stessa teoria dantesca del De Monarchia. Forme più mosse, spesso drammatiche, il motivo assume nelle saghe, e in prima linea in quelle relative al Graal. Come abbiamo mostrato in un nostro libro, il nucleo centrale e più autentico di tali leggende ha poco a che fare con le divagazioni mistico-cristiane e romantiche del Parsifal di Wagner. In esse, si tratta piuttosto dell’attesa di un eroe predestinato che, grazie al potere conferitogli dall’aver ottenuto la visione del Graal, farà risorgere a nuovo splendore un regno decaduto, una terra devastata, ripristinerà il vero principio della regalità – cosa, questa, data in certi testi come il suo sostituirsi ad un sovrano e solo in apparenza era vivo.

Federico I Hohenstaufen, detto il Barbarossa, in una miniatura tratta dalla Historia Hierosolymitana (1188)
Molte altre varianti ebbe il mito imperiale nel Medioevo ghibellino. Ci si può riferire di nuovo a Dante, al tema del rifiorire dell’Albero dell’Impero nella Divina Commedia. In più, l’accennato motivo dell’«ultima battaglia». L’idea della funzione regale che sussiste latente anche nel periodo di un oscuramento o interregnum prende spesso la forma di una figura regale o imperiale simbolica – identificata, dalla leggenda, all’uno o all’altro personaggio storico – che non sarebbe mai morta. Essa si sarebbe invece ritirata in un soggiorno inaccessibile (per es. Federico Barbarossa nel monte Kyffhäuser) ed attenderebbe la giusta ora per ridestarsi e per combattere, insieme a tutti coloro che le sono rimasti fedeli, una battaglia decisiva contro le forze del disordine, dell’ingiustizia e delle tenebre. È interessante che secondo una variante della saga quest’ora coinciderebbe col tempo del prorompere delle genti di Gog e Magog, alle quali già Alessandro Magno aveva sbarrato la via mediante una muraglia di ferro. Senza tornare su tale leggenda, di cui del resto in queste stesse colonne altra volta abbiamo già parlato, ci limiteremo a dire che queste genti demoniche possono ben simboleggiare il mondo delle masse materializzate e senza Dio in rivolta, e che è interessante il dettaglio, che il loro scatenamento avverrebbe nel momento in cui ci si accorge che nessuno più suona le trombe poste al sommo della muraglia, che è solo il vento a suonarle. Cioè: è quando ci si accorge che non esiste più nessuno dietro le apparenti difese di un mondo in crisi a dare ad esse consistenza e vera legittimità, è allora che si produce lo scatenamento delle forze dal basso.
Giunti che siano al limite estremo l’usurpazione e il conseguente disordine, si ha la crisi e il momento decisivo: è il momento dell’ultima battaglia; per ripetere le parole di un grande pensatore e uomo politico spagnolo del secolo scorso, Donoso Cortes, è il momento «delle negazioni assolute e delle affermazioni sovrane». Così un significato non peregrino appare chiuso in tutte queste varie forme del «mito dell’avvento» che testimoniano lo sfondo di una tradizione da dirsi quasi perenne.
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