di Julius Evola
(tratto da “Il Secolo d’Italia” del 27 gennaio 1953)
La “libertà dal bisogno” è, come si sa, uno degli articoli programmatici della cosidetta Carta Atlantica. Esso non è del tutto privo di relazioni con certe prognosi messianiche dello scientismo sociologico, che si presentano più o meno nei seguenti termini: i progressi della tecnica, specie dopo che si sarà riusciti ad utilizzare per le industrie l’energia atomica, condurranno ad un punto tale, che le macchine lavoreranno quasi interamente per l’uomo, che l’uomo, solo in minima misura costretto ancora a lavorare direttamente, sarà praticamente liberato dal bisogno e avrà di nuovo le vie libere per costruirsi un’esistenza superiore e felice.
Circa tali prospettive, vanno svolte considerazioni di due specie. Anzitutto, sul piano materiale, affinchè qualcosa di simile possa attuarsi altre considerazioni utopiche dovrebbero essere realizzate: per primo, la distruzione del capitalismo, in secondo luogo la realizzazione di un sistema di economia mondiale, razionalizzata e affatto privo di vincoli, tale da permettere una uniforme distribuzione dei beni sulla terra e da distruggere la disoccupazione. Si sa infatti che, nelle condizioni attuali, il lavoro che la tecnica risparmia all’uomo si traduce quasi sempre automaticamente in un incremento della disoccupazione e che, d’altra parte, la volontà di lucro del capitalismo e di ogni sussistente monopolio nazionale contrasteranno sempre ogni sviluppo economico-sociale nel senso ora accennato.
Pertanto la “libertà dal bisogno” dovrebbe avere per presupposto una riforma così vasta e generale, come quella sognata dal marxismo utopico e, soprattutto, tale da coinvolgere un mutamento profondo di mentalità nell’homo oeconomicus moderno.
Passiamo ora al secondo ordine di considerazioni, che è quello; per noi, più importante. Supponiamo pure che le prospettive in parola possano esser realizzate, cioè che la vita degli uomini moderni possa esser liberata dal bisogno nel senso che per ognuno, grazie ai progressi tecnici, la necessità di lavorare fosse ridotta ad un minimo, tanto che tutti avrebbero tempo e possibilità per occuparsi di altro a loro talento, senza più l’assillo e la fondamentale non sicurezza della vita di oggi. Ebbene, sarebbe da attendersi, solo per ciò, la realizzazione di una vita migliore, più felice, e la rinascita di forme superiori di civiltà?
Può pensarla in tal modo, solo chi scambia le condizioni necessarie con quelle sufficienti e chi crede che una volta eliminato il negativo, il positivo venga fuori da per sé. Ma non è così. Di fatto, le premesse vere per una esistenza e una civiltà superiore sono sempre di carattere interno, dipendono cioè da quel che l’uomo – un dato tipo umano – è, spiritualmente, senza esser necessariamente legate alle circostante esterne e ambientali: proprio al contrario di come il marxismo la pensa.
Immaginiamoci dunque l’uomo moderno relativamente senza bisogni, cioè senza preoccupazioni materiali immediate che lo prendano quasi tutto. Ebbene, che farà, di che si interessa? Il mondo di oggi permette già un prognostico poco edificante per la grandissima maggioranza dei casi: cinema e riviste, faccende sportive, edonismo spicciolo, radio e televisione, spensierata prolificazione, aggiungiamoci al massimo ciò a cui oggi si è ridotta la “cultura” qualcosa di estetizzante, di intellettualistico o di sensualeggiante, che serve solo per distrarre e per eccitare: ecco tutto ciò che dall’ipotetica “libertà dal bisogno” avrebbe un incremento inaudito, e che diverrebbe alla portata di ognuno, di ogni classe e di ogni popolo “civile”.
In altre parole: se la devastazione spirituale, se l’atrofia di ogni più alto interesse e di ogni più alta vocazione, che caratterizzano “l’uomo moderno” in genere, permarrà, nessun mutamento di livello sarà da attendersi grazie alle mutate condizioni economiche-sociali. E non solo non nascerà – magicamente –una civiltà superiore, ma, dopo una prima fase euforica, potrà anche darsi che, ove l’umanità non affondi in un’ottusa beatitudine da bestiame bovino, essa vada incontro alla più paurosa delle crisi: a quella del vuoto assoluto di un’esistenza, vuoto non più nascosto come prima dai pseudofini di una vita alle prese con necessità di ogni genere.
Avremo forse una situazione analoga a quella tratteggiata da un’operetta impagabile, considerata “provocatoria” sia nel contenuto che nella musica: Mahaggoni di Brecht e Weylli [1]: il paese immaginario in cui gli uomini hanno a disposizione donne, giochi e whisky, ma ove essi appunto per la mancanza di bisogni si sentono spinti alla “disperazione bianca”, presso al sentimento espresso dal motivo–guida ossessionante: “Und doch es fehlt etwas – eppur manca qualcosa!”. Questo qualcosa che manca e che, andando di questo passo, sempre più mancherà all’uomo moderno, questo qualcosa senza di cui nessuna civiltà superiore potrà sorgere, non v’è “libertà atlantica” che potrà darlo: perché solo per le vie di un interno risveglio e di un’interna reintegrazione esso potrà esser conosciuto. Ora, per molti la sfida e la prova costituite da un clima duro possono esser incentivi per qual risveglio: proprio come per altri la vita materialmente facile e comoda può propiziare, quasi come stupefacenti, un’intera abdicazione e regressione, la lenta discesa dagli ideali di una umanità vera, eroica ed eretta a quelli “fisici” che sono il fondo del vangelo predicato, sia pure in forme diverse, da Russia ed Usa – dalle due “civiltà dell’avvenire”.
Pur senza cadere all’eccesso opposto, agli zelatori del “progresso sociale” cose del genere sarebbero bene di tempo in tempo ricordarle.
Note
[1] Evola, con qualche imprecisione letterale, si riferisce esattamente all’opera musicale teatrale Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny), nata dalla collaborazione tra il celebre drammaturgo Bertolt Brecht ed il musicista Kurt Weill, rappresentata per la prima volta all’Opera di Lipsia nel marzo 1930 e ripresa a Berlino nel dicembre dell’anno successivo (N.d.R.).
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