L’idea del “demonico” nella nuova psicologia

Nei mesi scorsi ci eravamo occupati con Julius Evola del tema della psiche umana e dei suoi mutamenti, osservando che una delle caratteristiche principali dell’uomo contemporaneo risiede proprio nella sua instabilità psichica, nell’incapacità ormai sistematica di dominare le correnti del subconscio attraverso una centratura su sé stesso, una intima tendenza ad “appartenersi”, ad essere per sé, a darsi una forma, un ordine, una libertà che domini, sovrasti l’elemento prepersonale e subpersonale, caotico e informe, “vitalistico” e primordiale, che si anima con forze promiscue e indifferenziate che agiscono nella parte sotterranea dell’uomo.

René Magritte, “La memoria”, 1948

Nell’articolo che proponiamo oggi, pubblicato su “Regime Fascista” nel settembre 1933, Evola appofondiva, in tale contesto, il concetto di “demonico”. Sviluppando quanto sopra osservato, Evola ci spiegava, citando il teologo protestante Paul Tillich, che soltanto quando quelle forze promiscue ed indefferenziate restano soggiogate, chiuse entro la «forma», obbedienti al più alto ordine di fini che caratterizzano la personalità umana, ciò che in sé stesso significherebbe solo distruzione, diviene intimo principio animatore, intima potenza di una determinata forza o di un determinato essere.

Se tale equilibrio viene meno, queste forze riemergono ed irrompono nella subcoscienza, il “luogo” psichico di loro “operatività”,  fino a subordinare a sé tutto ciò che ha forma e che sarebbe loro superiore, prendendo possesso dell’individuo. In tal senso si manifesta il “demonico”, la “regressione demonica”,  non solo sul piano individuale, ma anche collettivo (si pensi ai fenomeni psichici di massa: sport, demonia del sesso e dell’economia, ecc.): l’uomo, preda di continui cambiamenti nella propria polarità psichica e di variabili, inquiete ossessioni, pulsioni e dipendenze, non appartiene più a sé stesso, pur non essendone consapevole. All’inizio, quando tale scollamento si verifica (nell’uomo moderno ciò è generalmente un fattore innato, messo solo in discussione, talvolta, da fattori esterni, come residue cristallizzate regole etico-morali, o dogmi religiosi ormai vissuti come incomprensibili, e così via), l’uomo avverte un senso illusorio di esaltazione e di liberazione, dato che le facoltà del proprio essere passano al servigio di una forza più forte, subpersonale, vitalistica, istintiva: a tale allentamento inconsapevole della tensione interna, segue poi un’instabilità, un’incapacità sistematica di essere padroni di sé, che raramente, peraltro, assume un connotato realmente consapevole: l’uomo, infatti, difficilmente prenderà mai coscienza, durante la propria vita, di questa condizione, se su di lui non operaranno forze o persone in grado di “risvegliarlo”.

Questo rapporto tra caos e ordine, tra forze indifferenziate e promiscue prepersonali ed il principio ordinatore che dà forma e criterio, non può non far tornare alla mente, con i dovuti adattamenti, l’operare,  secondo la terminologia propria alla Tradizione Induista, del principio attivo “maschile” (Purusha) sulla sostanza indifferenziata primordiale “femminile” (Prakriti), che genera la manifestazione; un’articolazione metafisica che, qui, trova applicazione “esteriore” in un rapporto analogico tra ambito microcosmico e macrocosmico.

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Da notare anche un interessante parallelo con quanto Evola osservò, a suo tempo, circa le modifiche individuali e collettive dell’uomo e delle comunità umane nel passaggio tra Medievo e Rinascimento: “Là dove forze prima contenute rigidamente in una unità per via di una tensione superiore passano di nuovo allo stato libero, si può aver la sensazione ingannevole di una maggiore vitalità, di un dinamismo, di un risveglio. invece non si tratta che di dissoluzione e di dispersione centrifuga“. Di nuovo, si tratta di un’applicazione analogica del medesimo principio universale, che possiamo trovare d’altronde in ogni ambito umano; si pensi, ad esempio, al campo artistico in generale (in cui rientra una parte del discorso su Medioevo e Rinascimento), con la regressione al caos ed all’informe susseguente alla perdita della forma, effettuata non in senso anagogico, cioè verso l’alto, com’era nelle intenzioni dell’Evola artista, ma in senso catagogico, verso il basso. Il Barone stesso ce lo spiegò in modo chiarissimo, con parole, di nuovo, estensibili anche a contesti ultronei rispetto a quello meramente artistico: “vi sono due modi diversi, anzi antitetici, di abbandonate la «forma»; e l’uno è il distruggerla e il retrocedere in ciò che sta prima della forma, nell’informe; l’altro è l’andar di là da essa, il passar, cioè, a ciò che alla forma (e in un certo senso anche alla «bellezza» nell’accezione più corrente e convenzionale) è superiore (…). Per caratterizzare quel che di veramente negativo ha l’arte modernistica, non basta dunque dire che essa nega la forma, ma bisogna aggiungere che essa la nega in una direzione effettivamente involutiva, giungendo non ad un superamento, ma ad una degradazione”.

Di fatto, anche nell’individuo, la “forma” ordinaria potrebbe esssere superata verso l’alto, o meglio realizzata, portata a compimento verticalmente solo nel senso di giungere, in vita, ad una liberazione metafisica dal condizionato: ma si tratta, ovviamente, di una prospettiva totalmente incompatibile con la struttura umana dell’epoca moderna e contemporanea, dove la sola centratura su di sé, intesa come dominio orizzontale sulle forze subcoscienti, nel senso sopra indicato, appare appunto un vero e proprio miraggio.

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di Julius Evola

Tratto da “Regime Fascista”, 22 settembre 1933

Alcune riprese e rivalorizzazioni di antichi concetti presentano, nella cultura contemporanea, un particolare interesse e uno speciale significato. Così, ad esempio, fino ad ieri, chi è che non sorrideva dinanzi alla nozione del «demonico»? Chi non vi riconosceva un avanzo di superstizione medievale, trovante credito ormai solo fra donnicciuole e bigotti? Eppure una simile nozione oggi è stata ripresa e, sopratutto in certe correnti psicologiche tedesche, va acquistando valore di un punto di riferimento positivo in ordine alla considerazione di quel che vi è di più essenziale nella interiorità umana, ed anche nei rapporti di essa con le forze del demos e della stessa storia.

Naturalmente, in queste assunzioni nuove del «demonico» non è da ritrovarsi nulla dei precedenti rivestimenti teologici e morali: da tali rivestimenti, condizionati dal tempo, e quindi contingenti, è stato liberato un contenuto, atto, come dicevamo, a valere positivamente e oggettivamente, con piena indipendenza da qualsiasi credenza religiosa e da qualsiasi riferimento teologico.

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Il «demonico» non è più ciò che procede da una entità malvagia, concepita quasi come una persona, intenta ad opporsi alla volontà del Creatore e a traviare gli uomini. Il «demonico» è invece il nome che si applica ad una determinata forza dell’essere umano, e che vale semplicemente a caratterizzarne la natura e il modo di azione nei confronti del principio stesso della personalità.

La premessa fondamentale, è un dualismo di tipo quasi classico. Nell’interiore così come nell’esteriore, nell’uomo così come nel mondo e nella stessa storia, esiste un principio di caos e esiste un principio di ordine. Esiste l’informe, ed esiste ciò che ha forma e che ha potenza di imprimere una forma. Apeiron e peras, dicevano i greci. Tali principi coesistono nello stato di una mutua tensione. L’elemento «caos», in fondo, è l’elemento primordiale, è il substrato stesso di ogni vita e di ogni movimento, la materia originaria di ogni creazione. Solo che, se creazione deve esservi, esso va frenato dall’opposto principio, va strappato per così dire, alla sua natura selvaggia e ridotto a forza strumentale nei confronti di un determinato fine. E’ allora che si entra in un ordine di chiarezza e di realtà: ciò che in se stesso significherebbe solo distruzione, diviene intimo principio animatore, intima potenza di una determinata forza o di un determinato essere.

Ora, può accadere che un simile rapporto ad un tratto sia spezzato. Può accadere che il principio «caos» in un determinato momento ritorni alla sua natura originaria e, prorompendo, travolga e subordini a sé incondizionatamente tutto ciò che ha forma e che gli è superiore. Nella sua forma più semplice, questa sarebbe la manifestazione del demonico.

Chiariamo queste idee, che per ora abbiamo dovuto esporre in forma un po’ astratta, col riferimento all’uomo. Il «luogo» psichico da cui prorompe il «demonico» nell’uomo è la subcoscienza. E’ nota tutta la parte che la subcoscienza ha nella concezione dell’anima umana propria alla moderna psicologia. La personalità umana è continuamente vivificata da «complessi» subcoscienti, da correnti sotterranee le cui origini sono remote, da forze oscure attraverso le quali si stabilisce il rapporto del singolo col corpo, con il resto del mondo umano e con la stessa natura. Ma tutto ciò resta una profondità psichica anteriore alla forma e all’«io». Pur traendone la condizione, l’«io» non vi si esaurisce, in quanto sia un «io» personale: tutto ciò è, appunto, un substrato prepersonale e subpersonale, immergendosi nel quale il senso di sé sarebbe senz’altro distrutto.

Paul Tillich, teologo protestante tedesco (1886-1965)

A tal proposito, il Tillich, che è appunto fra quelli che maggiormente hanno contribuito alla precisazione moderna della nozione del «demonico», nota giustamente, che l’ «io», in tanto è, in quanto è una intima tendenza ad appartenersi, ad essere per sé, a costituirsi in una libertà «sovrannaturale», cioè superiore alle forze promiscue e indifferenziate che agiscono nella sua parte sotterranea. Quando simili forze restano soggiogate, chiuse entro la «forma», obbedienti al più alto ordine di fini che caratterizzano la personalità umana, e questa – come albero che pur avendo le sue radici nelle profondità si slancia in alto, oltre la terra che lo nutre – pur non staccandosene, mantiene sempre un rapporto dominatore rispetto alla subcoscienza e all’istintività in genere: allora si ha la condizione giusta e normale.

Tuttavia può accadere che l’intima tensione facente dell’io un essere personale e libero in senso superiore, si allenti; può accadere, che una specie di frattura interiore si verifichi e, venendo meno a se stesso, l’io cada in uno stato di passività che lo riapre e lo restituisce alle forze prepersonali del proprio essere. E’ allora che si manifesta il demonico. Il demonico è l’irruzione, dalla subcoscienza, quasi di un altro essere, che prende il posto del vero io. È, nel senso più generale della parola, l’ossessione. Si ha anzitutto la distruzione dell’unità e della libertà interna, e questa distruzione, in quanto si accompagna alla regressione in quel che non ha forma, dà una sensazione estatica, una sensazione ingannatrice di alleviamento e di affrancamento. Infatti, il duro compito di essere se stessi, è sospeso.

E’ importante sottolineare che parlando di «ossessione» non ci si deve necessariamente riferire ad un fenomeno patologico in senso stretto, medico; e, così pure, che parlando di «estasi», non ci si deve riferire necessariamente ai fenomeni mistici. L’irruzione del «demonico» può avvenire quasi inavvertitamente — con una imagine, si può dire che è come il semplice girare un interruttore, che fa passare istantaneamente la stessa forza motrice da un congegno ad un altro. Il non appartenere più a se stessi, il senso illusorio di esaltazione che ne segue quando le facoltà del proprio essere passano al servigio di una forza più forte, subpersonale, collettiva e istintiva — non è certo fenomeno ristretto fra le mura di una clinica psichiatrica o di un convento, ma è quanto di più comune può trovarsi, e specie al giorno di oggi.

Nelle antiche forme del «demonico» sotto aspetti animaleschi o deformazioni animalesche della figura umana, si ha il simbolo del caso più semplice, della regressione «demonica», ossia quello, in cui ciò che prende il luogo dell’io e che guida tutte le facoltà superiori della persona è un istinto, una passione, tutto ciò che la psicanalisi chiama libido e eros, dando però a questi termini un significato assai più largo che non quello di semplice sessualità.

Sopra un diverso piano, ha carattere «demonico» – per paradossale che ciò che possa sembrare ai più – ognuno di quei rivolgimenti «spiritualistici» i quali, anziché basarsi sul potenziamento della personalità quale principio distinto, e anziché tendere ad una elevazione veramente sovrannaturale, virile e eroica di essa, fomentano il ritorno alle «Madri», il collasso panteistico nel «Tutto», la regressione nella semplice «vita» indifferenziata e proteiforme: la quale invece è il mero punto di partenza, il substrato prepersonale, di là dal quale si innalza e si differenzia ogni uomo all’atto di esser veramente se stesso. In una opera recente (Maschera e volto dello Spiritualismo contemporaneo, Torino, 1932), noi stessi abbiamo mostrato che la gran parte delle tendenze neomistiche, occultiste, psicanaliste e teosofiste moderne finiscono appunto in questa direzione negativa.

A questi due aspetti — psicologico l’uno, spirituale l’altro — del « demonico», fa riscontro poi l’aspetto sociale di esso. E’ la cosidetta demonia del collettivo. Anche qui, al principio della personalità si sostituisce quello, essenzialmente subpersonale e prepersonale, della collettività, del mero demos. Ed ecco che, prima di sentirsi come persona, come io, il singolo viene a sentirsi come gruppo, o razza, o nazione, o internazionale — e tutte le sue facoltà superiori passano al servigio di questa entità, la cui azione distruttrice si palesa come livellamento, come standardizzazione, come creazione di una amalgama impersonale incondizionatamente spinta da forze istintive imprevedibili o da una selvaggia volontà di potenza. Il Tillich considera due forme principali della «demonia del collettivo» nel nostro tempo: il nazionalismo, e l’autonomia sovrana. Per il primo, non si tratta naturalmente di un nazionalismo spirituale, basato sulla virile gerarchia di libere forze raccolte intorno all’alta statura di un capo, ma si tratta di quel nazionalismo di tipo plebeo e democratico, nel quale il feticcio collettivo e le mere forze del sangue, come nelle tribù primitive, dominano incondizionatamente su ogni principio di natura superiore. Del pari, nell’«economia sovrana» il «demonico» si manifesta nell’onnipotenza della finanza senza volto, della macchina, del trust — di questo insieme arimànico creato dal mondo moderno, che sempre più soffoca tutto ciò che è personalità, qualità e libertà. E’ così che la presenza del «demonico», lungi dall’essere una superstizione del passato, è fin troppo constatabile nel mondo attuale.

Quali rapporti vi sono fra la nozione tradizionale, cattolica, del «demonico», e il nuovo concetto di esso? Vi è sì l’opposizione fra due forme — teologico-mitologica l’una, immanentistica e psicologica l’altra: tuttavia una certa continuità sussiste. Vi è chi ha rilevato giustamente che tutto ciò che nella scolastica è stato detto teologicamente circa gli angeli e i demoni, potrebbe tradursi psicologicamente, in relazione a stati, rispettivamente, superpersonali e sub-personali dello spirito. Al centro della veduta tradizionale cattolica resta un punto saldo e valido: il riconoscimento della personalità umana e della sua dignità e finalità sovrannaturale. L’azione del «demonico» è l’attentato contro questa personalità, fino a «far perdere la propria anima». Modernamente, vi è solo da intendere quest’ultima frase non nel riferimento ad un mitologico aldilà, a inferni o paradisi, ma nel riferimento delle forze effettive, naturalistiche o irrazionalistiche o collettivistiche, che, scatenandosi, dalla sub-coscienza, tendono oggi a travolgere l’io e a distoglierlo da quegli interessi trascendenti, che solo misurano ogni vera grandezza umana.

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