di Mario Polia
Uno dei meriti spettanti a Julius Evola deriva dall’aver egli delineato i limiti e gli errori sia del materialismo che della cultura borghese contemporanea da una prospettiva definita dall’autore di “Destra” connotando il termine in senso culturale e spirituale prima ancora che politico.
In antitesi, Evola ha fatto conoscere a quanti ripudiano i valori su cui si poggia il mondo moderno i valori fondanti delle civiltà la cui ragion d’essere e il cui stile di vita sono fondati sul sacro, civiltà “tradizionali” nel senso specifico del termine. Evola propone un ritorno coraggioso e cosciente a quei valori che, per essenza, sono immuni dalle leggi del tempo e della storia. Perché ciò avvenga, egli traccia le linee direttrici seguendo le quali possa prendere forma un’etica ed uno stile di vita propri ad un’aristocrazia del pensiero e dell’azione in grado di compiere una rivoluzione restauratrice.
Se molte delle idee di Evola possono essere condivise, le perplessità sorgono quando si consideri il “come”, da un punto di vista propriamente spirituale, secondo l’autore, l’auspicata rivoluzione dovrebbe compiersi. In queste brevi considerazioni ci atterremo esclusivamente ad una prospettiva critica “tradizionale” in quanto fondata su principi comuni alle varie tradizioni. Faremo riferimento soltanto a due delle opere di Julius Evola fra le più lette specie negli ambienti della Destra: “Gli uomini e le rovine” e “Rivolta contro il mondo moderno“.
Passiamo dunque in rassegna alcune delle idee considerandole dalla prospettiva cui abbiamo accennato.
1.”Tradizione” e tradizioni
Scrive l’autore de Gli uomini e le rovine: “Quando non si abbia in vista ciò che personalmente e pragmaticamente una data credenza può valere pel singolo, ma si abbia in vista un movimento, seguire una via autonoma abbandonando la Chiesa al suo destino, data la sua attuale incapacità di dare un crisma ufficiale ad una vera grande Destra tradizionale e supertradizionale, è la norma che a nostro parere s’impone”. (Evola, Gli Uomini e le Rovine, 1967: pagg. 165-166)
L’affermazione di Evola sconcerta e non in quanto si riferisce al Cattolicesimo: sconcerterebbe non meno qualora fosse stata applicata ad altre aree geografiche e ad altri contesti religiosi come,ad esempio, il Buddhismo o l’Islam, sistemi che presentano anch’essi sintomi di decadenza non meno allarmanti di quelli che affliggono la Chiesa cattolica, sebbene a volte tali sintomi risultino più circoscritti e meno vistosi.
Ponendosi da una prospettiva condivisa dalle varie tradizioni, l’errore che si configura pienamente come tale consiste nello spezzare il patto di fedeltà col mos maiorum, nel non restare saldi e fedeli al proprio posto contro vento e tempeste cercando di difendere – nella propria vita e negli spazi in cui essa si svolge – quanto ancora resta di valido e di spiritualmente operativo nella tradizione d’appartenenza.
In breve, l’errore consiste proprio nel tentare le “vie autonome” suggerite dall’autore de “Gli uomini e le rovine” abbandonando al proprio destino la tradizione cui per nascita si appartiene e sulla quale si fondano millenni di storia, di lotte e di civiltà della propria gente.
Nel primo secolo a. C., a Roma, il pontefice massimo Muzio Scevola (omonimo dell’eroe delle origini) non credeva più nell’esistenza degli dèi della tradizione romana, tuttavia egli ne conservava il culto degradato a fattore politico di coesione, utile a servire come instrumentum regni. Fino ad oltre tre secoli dopo il suddetto pontefice, i legionari romani impegnati nella difesa dei confini dell’impero e dell’idea che con Roma si era manifestata nella storia, non abbandonarono al proprio destino il mos maiorum rappresentato, come nel caso citato, da un’aristocrazia spirituale contagiata dal morbo del razionalismo e corrosa dalle mode culturali perfino in alcune delle sue massime gerarchie. I legionari di Roma seguitarono a compiere fino in fondo, con silenzioso eroismo, il proprio dovere. Il combattente, infatti, è giudicato dalla propria fedeltà e dal proprio valore. A lui non sono imputabili gli errori e i tradimenti compiuti da chi dovrebbe essergli di guida.
Seguendo l’esempio dei padri, dunque, invece di tentare “vie autonome”, occorre piuttosto mantenersi fedeli al cuore vivente della tradizione del proprio popolo e dei propri avi attingendo vita spirituale e conoscenza alla fonte della sapienza in essa presente. Tale fonte va ricercata oltre ogni degenerescenza avvalendosi rettamente dell’esercizio della conoscenza e dei riti che agiscono all’interno della propria tradizione. I riti, infatti, permettono di operare la connessione reale con la forza vivente che legittima ed anima l’azione e rendono possibile l’aderenza alla norma che serve da guida per il proprio essere e da riferimento per il proprio agire.
In questo modo, attuando un patto di fedeltà col mos maiorum, fedeltà che è la garanzia del mantenimento o della restaurazione dell’ordine tradizionale, ci si renderà disponibili all’azione dello Spirito divenendo supporti coscienti, attivi e sani della sua azione nel mondo e nella storia. Attraverso quanti restano fedeli lo Spirito può agire dall’interno della forma tradizionale vigente per una purificazione della medesima operando una restaurazione. Quest’ultima, per sua natura, pur essendo attuata visibilmente da uomini e realizzandosi nel tempo storico, prescinde contemporaneamente e dalla storia e dall’uomo:
“Emitte spiritum tuum et renovabis faciem terrae”.
Il riconoscimento dell’ordine tradizionale non comporta scelte autonome, per quanto sofferte e coraggiose, esso presuppone invece la piena coscienza della fedeltà al mos maiorum. Questa, infatti, è l’unica scelta che può essere definita eroica in massimo grado. In tale scelta esiste una sola autonomia pienamente legittima consistente nel non seguire gli errori altrui, nel prendere coraggiosamente le distanze differenziandosi da ogni forma di corruzione che insidia dall’interno la propria tradizione. Consiste nel rimanere fedeli alla dottrina originaria ed alla parte ancora sana delle gerarchie visibili -la quale spesso risulta essere così esigua e nascosta da sembrare assente- restando nel contempo fedele alla dottrina, alla preghiera ed al rito secondo le forme originarie e non corrotte della propria tradizione.
“Tradizione” si definisce come “tramandamento” di una verità d’ordine metafisico incarnata in un sistema dottrinale, trasmessa e custodita da una gerarchia spiritualmente qualificata, l’accesso alla quale è reso possibile da mezzi idonei quali il rito, la disciplina interiore, la meditazione e la preghiera. Rompere con la propria tradizione significa assumersi la responsabilità di cooperare con le gerarchie corrotte all’interruzione del tramandamento rendendo inaccessibile l’accesso alla fonte spirituale. Rompere con la propria tradizione adducendo motivi di degenerescenza della stessa significa dimenticare che la Fonte resta immune da qualunque tradimento e decadenza delle forme esteriori del sistema tradizionale. Con autentica sapienza tradizionale i pastori delle mie parti dicono che gli uomini abbandonano Dio ma Dio non abbandona gli uomini.
Riferendosi ad una possibile gerarchia restauratrice cui appartiene “chi si tiene veramente in piedi” Evola scrive: “La sua parola d’ordine sarà piuttosto Tradizione (…) suo sarà lo stile di chi, ove le circostanze mutino (…) conserva il suo sangue freddo, sa abbandonare ciò che va abbandonato affinché l’essenziale non ne resti compromesso, sa portarsi avanti studiando impassibilmente forme adatte alle nuove circostanze e con esse sa imporsi, tanto che una immateriale continuità sia ristabilita e mantenuta”. (Evola, Gli Uomini e le Rovine, 1967: pagg.27-28)
Ecco, dunque, definirsi e porsi il problema in tutta la sua interezza ed importanza: che senso attribuire al concetto di “Tradizione”?
L’autore scrive il termine “Tradizione” con la maiuscola ogni qualvolta intende riferirsi non ad una data forma tradizionale ma ad una sapienza posta, per essenza, alle origini ed al disopra d’ogni forma tradizionale manifestata nel tempo e nella storia. Alla Sophia perennis.
A tal riguardo, come fa Evola in varie delle sue opere, occorre innanzitutto scartare senza ambagi la possibilità che una persona, per quanto intellettualmente dotata e spiritualmente predisposta, possa estrapolare dalle forme tradizionali le idee-base atte a valere per ogni tradizione ed, oltre a queste, possa elaborare un sistema rituale ugualmente valido. In altre parole: occorre scartare come valida la possibilità che qualcuno possa inventarsi una tradizione, almeno che non si tratti della formulazione di un sistema filosofico il quale, però, per sua natura non presenta necessariamente la garanzia di validità spirituale. “Inventarsi” una tradizione è in antitesi col concetto stesso di tradizione.
Occorre scartare questa possibilità poiché‚ essa, da un punto di vista tradizionale, è da considerarsi irrealizzabile, anzi blasfema: la tradizione è frutto di una rivelazione diretta, gratuita e non mediata da parte dell’Assoluto. Ciò è ribadito a chiare lettere in ogni sistema tradizionale come, ad esempio, in quello vedico in cui si fa menzione del Verbo (Vak, latino vox) che rivela la sapienza ai saggi-veggenti dell’umanità delle origini: i rishi.
Scartata dunque tale ipotesi, resta una sola possibilità: la “Tradizione” cui l’autore allude viene a coincidere con la Tradizione Primordiale, la medesima che la tradizione greca arcaica definisce come “iperborea” identificandola con la sede spirituale di Thule e che altre tradizioni, come ad esempio quella vedica, identificano con la prima età dell’umanità o “età dell’oro”. Ciò, francamente, ci sembra a dir poco azzardato.
Esiste, certo, una Tradizione Primordiale -intendendo “primordiale” non unicamente in senso temporale ma come grado massimo di prossimità alla Rivelazione originaria- esiste ed è presente come impulso formatore e come anima in ogni tradizione legittima, immune dal trascorrere del tempo e da ogni degenerescenza ed allontanamento operato dall’uomo. Nell’esperienza spirituale della persona, essa è presente in interiora cordis, coincidendo con il raggiungimento di uno stato dell’essere in cui la Sapienza si sostituisce alla conoscenza basata sui sensi e la mente e coincide con l’esperienza diretta dell’Assoluto.
Questo stato, tuttavia, rappresenta il compimento di un cammino e non l’inizio di esso. Rappresenta il telos, il fine di un lungo percorso che pochi intraprendono e, fra questi, pochissimi riescono a seguire sino in fondo. Mai, in ogni modo, rappresenta l’inizio!
Avvalendosi di un raffronto tratto da una tradizione iniziatica occidentale, chi ha ritrovato il Santo Graal è lo stesso che è pervenuto all’Isola Bianca ove il Graal e custodito. “Isola Bianca”, “isola di Avallon” alludendo a stati dell’essere ed essendo analoghe al simbolo della mitica Thule, sede di Kronos e della Tradizione Primordiale.
Per usare un paragone, tutte le tradizioni scaturiscono dalla Rivelazione la quale coincide con la manifestazione del Verbo all’origine d’ogni tradizione. Le varie tradizioni scaturiscono da un’unica Fonte così come avviene per i vari ruscelli, torrenti e fiumi che da essa si originano. Avviene però che la loro acqua contenga in sé, oltre a quella della fonte originaria, acque provenienti da altrove, oltre alle impurità che possono essere state raccolte lungo il cammino. Per chi intenda ritrovare la fonte originaria e bere alla purezza incontaminata delle sue acque, il metodo più sicuro è quello di seguire a ritroso il percorso delle correnti. In caso contrario, oltre al rischio di perdersi, esiste anche quello concreto di morire di sete cammin facendo. S’interpreti il paragone in senso allegorico.
Tornando ad Evola, leggiamo nell’opera citata che la nuova aristocrazia dello spirito prescinderebbe dall’appartenenza ad una data forma tradizionale per aderire ad un’idea “supertradizionale”, come spesso da lui viene definita. Evola afferma che “La rivoluzione restauratrice dovrà presentarsi (…) come un fenomeno anzitutto spirituale ed avente come base la pura idea” (Evola, Gli Uomini e le Rovine, 1967: pag. 23).
Orbene, perché ci si possa riferire propriamente ad un “fenomeno spirituale”, ossia ad una autentica manifestazione dello spirito al quale soltanto è dato di agire come causa efficiente per innescare il processo di restaurazione, occorre, rifacendosi all’espressione dianzi citata, che “una immateriale continuità” con la Tradizione “sia ristabilita e mantenuta”.
Affinché‚ ciò avvenga, l'”idea”, per quanto pura, da sola non può bastare. Senza il contatto vivente con lo Spirito, infatti, l’idea degenera ben presto in ideologia passando dal dominio spirituale a quello della psiche: “Perduta la Via viene la virtù…” avverte Lao Tzu.
2. Il rito
Accennavamo sopra al rito come mezzo efficace per realizzare l’unione col cuore vivente della tradizione e, considerando quest’aspetto, entriamo nel vivo di un secondo problema: come vantare la propria appartenenza ad una data tradizione senza mettere in atto i mezzi efficaci che permettono di accedere alla sostanza stessa della tradizione?
Ancora una volta, è la tradizione cinese a ricordare che “attraverso i riti si colgono le vie del Cielo”.
A questo proposito Evola scrive: “Il rito fu il cemento originario delle organizzazioni tradizionali (…) Riti e sacrifici erano determinati da norme tradizionali minute e severe, le quali non ammettevano nulla di arbitrario e di soggettivo (…) Il rito o il sacrificio tralasciato, compiuto da persona non qualificata o eseguito in modo comunque disforme dalle regole tradizionali, era principio di sventura: esso rimetteva allo stato libero forze temibili (…) sia per gli individui che per la collettività” (Evola, Rivolta contro il Mondo Moderno, 1969: pag.49).
In queste sue asserzioni Evola resta aderente a ciò che ogni tradizione intende per “rito” ma resta pur sempre aperta la domanda: a quale sistema rituale dovrebbe attenersi l’aristocrazia restauratrice ed il singolo componente di essa impegnato in questa battaglia?
Al di fuori delle organizzazioni tradizionali strutturate attorno al valore fondante ed al potere del rito, che consiste nel rendere attivo ed operante il sacro, e prescindendo da quelle “norme tradizionali minute e severe” le quali non ammettono “nulla di arbitrario e di soggettivo”, al di fuori di questi parametri, dove e come una “via autonoma” potrebbe ritrovare la perfetta aderenza alla Norma che fa sì che il rito sia legittimo e, perché legittimo, efficace?
Una via autonoma al sacro non rischia piuttosto, come del resto giustamente paventa l’autore, di eseguire i riti in modo “disforme dalle regole tradizionali”?
E, se così è, una tale via autonoma non corre il pericolo ad ogni passo di cadere nella hýbris che spinse i Titani a dare l’assalto all’Olimpo? Quando la persona sia priva di quell'”azione sacrificale retta e diligente” (ibidem: 54) le si spalanca dinanzi quello che Evola stesso chiama “il destino di coloro che non hanno più riti”: gli “inferni”.
Il differenziarsi dalla massa; il rispetto di norme morali dettate dalla tradizione o coscientemente rifacentisi ad essa; la pratica diligente e continua di una disciplina interiore che privilegi la fedeltà, l’obbedienza, il coraggio; la volontà di superamento dei limiti dell’io e la pratica dell’azione disinteressata non sono solo da raccomandare come componenti di uno stile di vita. Questa volontà e queste pratiche possono certamente propiziare un’apertura attraverso la quale lo Spirito può agire nella persona. Si tratta, tuttavia, pur sempre di una possibilità, per quanto seria, mai di una causa determinante.
Virtù morale e disciplina interiore, anche nelle forme eroiche e solari proprie all’asceta ed al guerriero – intendendo con questo termine colui che fa della fede, del sacrificio e della lotta la propria divisa – non esulano dal campo psichico sebbene attraverso di esse spesso possa agire lo Spirito.
Affinché l’azione sia pienamente “sacrificale”, risponda in altre parole ai requisiti che definiscono il sacrificio e sia in grado di operare il sacro (sacrum facere), occorre che essa s’innesti al soprannaturale divenendo in tal modo veicolo per una manifestazione dello Spirito. Divenendo essa stessa rito che ordina il mondo.
La virtus disgiunta dalla pietas religiosa non basta, da sola, anche quando il valore sia estremo, a garantire l’ordine nella persona e nello stato. La vecchia lezione romana non saprebbe essere più eloquente ed attuale: il pius Numa scioglie l’istituzione della guardia del corpo del rex fondata da Romolo, prescinde dall’uso delle armi , nonostante ciò il territorio su cui si estende la sua auctoritas prospera in pace e nella giustizia. Di contro, lo strenuus Tullo Ostilio, succedutogli al trono, fulmine di guerra ma poco incline alla pietas, non riesce a garantire in punta di lancia l’ordine fra umano e divino né a stornare i flagelli che si abbattono sul suo regno. La sua in-pietas unita all’orgoglio finirà per travolgerlo ed egli morirà colpito dalla folgore di Giove.
Millenovecento anni più tardi, le saghe graaliche coi simboli della Terra Desolata e dell’Albero Secco riaffermeranno il concetto che il potere è inefficace se disgiunto dalla potenza vivente del divino in esso. La spada del Re senza la Santa Coppa non può restaurare l’Ordine leso: è il potere spirituale che promana dall’imperium a far rifiorire la Terra Desolata.
Certo, è pur vero che, in casi del tutto eccezionali che non dipendono unicamente dalla qualità della persona ma obbediscono ad una logica che sfugge ad ogni criterio e ad ogni sforzo umano, può operarsi l’azione autonoma dello Spirito nella persona. Si tratta, in ogni caso, di un’azione non-mediata, non condizionata e non consequenziale. Si tratta di un carisma da intendersi nel significato letterale del termine: un libero dono, o una grazia che dir si voglia. Proporre l’eccezione come regola, sia pure valida nel ristretto ambito di un’aristocrazia del pensiero e dell’azione, sembra, oltre che arbitrario, inesatto dal punto di vista metafisico e può risultare, nella pratica, sommamente pericoloso.
“In Grecia, in Roma antica e anche in estremo Oriente, la dottrina era nulla o quasi nulla: soltanto i riti erano obbligatori ed imprescindibili” (Evola, Rivolta, 1969: pag.68). Se ciò è vero, come in effetti lo è, a quali riti dovrebbe ricorrere l’aristocrazia restauratrice auspicata dall’autore per poter usufruire del contatto reale col divino e poter garantirsi in tal modo la piena legittimità?
Ancora una volta la lezione romana è chiara e non dà adito a dubbi: è Giove Padre, Auctor per eccellenza, la fonte dell’imperium e della auctoritas. É Juppiter Optimus Maximus a dotare la persona da lui designata del potere di “portare ad essere” (*in-parere da cui imperium) e di “incrementare” (augere da cui auctoritas) la giustizia e l’ordine, la vittoria come compimento del bellum iustum, la pace e la prosperità garantita dall’ordinato succedersi dei cicli stagionali. In una visione tradizionale, come Roma insegna, tutti questi sono doni concessi dalla divinità qualora esista, nella persona e nello Stato, la condizione imprescindibile della pax deorum garantita dall’osservanza delle norme tradizionali.
A proposito dello Stato, inoltre, vi è da dire, e lo diciamo con le parole di Evola, che “Uno Stato che non abbia una legittimazione spirituale e una legittimazione dall’alto non può nemmeno chiamarsi Stato” (Evola, Rivolta, 1967: pag.166). Affinché lo Stato possa contare sulla indispensabile legittimazione dall’alto, senza la quale l’esercizio del potere diverrebbe illecito, occorre che lo Stato riconosca, al suo interno, l’esistenza di un ordine tradizionale capace di veicolare nella storia la auctoritas intesa come carisma divino per il quale si è capi e senza il quale si è usurpatori. Compito dello Stato è, dunque quello di difendere l’ordine tradizionale su cui esso si poggia – il mos maiorum – ma, per difenderlo, occorre riconoscerlo come norma e fondamento. Un’azione restauratrice non può non avere in vista la creazione di uno Stato spiritualmente legittimato.
Il mese scorso [l’articolo risale al maggio 2005, n.d.R.] la nuova costituzione di questa pseudo-Europa mercantile e sanculotta, in nome del nuovo ordine mondiale, ha fatto piazza pulita dell’eredità di duemila anni di civiltà cattolica e di ogni forma precedente di civiltà. La “aristocrazia” auspicata da Evola, “abbandonando la Chiesa al proprio destino”, contribuirebbe -sia pure dal versante opposto- a realizzare il sogno giacobino e massonico preparato da tempo dietro le quinte della storia. Un sogno che oggi si sta facendo realtà.
Si potrebbe obiettare, e in alcuni ambienti della Destra si obietta che il mos maiorum non debba coincidere con la tradizione vigente ma con quella che l’ha preceduta: nel caso italiano con la tradizione romana.
Vi è tuttavia una considerazione di ordine squisitamente tradizionale da tener presente a questo proposito: dopo l’eclisse della religione romana, le notizie frammentarie e i frustoli di formule rituali tramandati dalle fonti antiche e pazientemente raccolti dai filologi, anche se per ventura altre fonti inedite dovessero aggiungersi un giorno a quelle conosciute, non sarebbero in alcun modo sufficienti a legittimare il tentativo di ricostruire, in modo tradizionalmente corretto e dunque spiritualmente efficace, ad esempio, le cerimonie compiute dal sodalizio dei Fratres Arvales, o il rito dell’augurium che manifestava l’assenso divino sulla scelta del rex e, dopo la caduta della monarchia delle origini, sulla scelta dei consules. Allo stesso modo, il cosiddetto “fegato di Piacenza”, pur essendo un oggetto liturgico ad uso degli aruspici, non è sufficiente nonostante le minuziose indicazioni delle divinità agenti in ogni regione dello spazio, a permettere l’esercizio dell’arte aruspicina degli Etruschi. Come pure i riti così minuziosamente descritti nelle Tavole di Gubbio non potrebbero essere riattualizzati legittimamente per ufficiare il persklum, il sacrificio degli antichi Umbri.
Perché un rito sia efficace, oltre a dover essere eseguito in perfetta aderenza alla forma codificata e trasmessa dalla tradizione cui il rito appartiene, deve poter contare su una continuità non interrotta nel tempo garantita da una trasmissione diretta la quale in nessun caso può essere unicamente affidata a formule scritte. In altre parole, il rito è inscindibile dal sacerdozio e il sacerdozio dal rito. A questo proposito, la tradizione dell’India vedica per definire la legittimità di una forma tradizionale, o di una pratica iniziatica, prescrive che sia riconosciuta in ogni suo passaggio la catena non interrotta (parampara) risalente, da maestro in maestro, alla Rivelazione primordiale operata dal Verbo e consegnata ai primi rishi.
Una tradizione, per esser tale, deve garantire una trasmissione qualificata e ininterrotta nel tempo della sostanza spirituale dalla fonte a chi ne usufruisce e deve anche garantire l’ininterrotta attuazione delle operazioni liturgiche, rituali e sacrificali senza la quale, mancando la trasmissione, o tramandamento, cessando il tradere verrebbe a cesare la tradizione stessa. Ove tali requisiti manchino, non vi è tradizione pur quando sussista, nella persona, la tensione verso un archetipo tradizionale.
In mancanza di tradizione, non si vede come ci si possa definire uomini della tradizione o appartenenti ad un tradizionalismo, se con esso si intende la difesa e la tutela di una tradizione. Un tradizionalismo senza tradizione denota l’uso improprio del termine ridotto ormai alla pura accezione culturale. Un siffatto tradizionalismo culturale (o politico), pur celando alle volte al suo interno pulsioni verso una trascendenza ed un vissuto autenticamente spirituali, di per sé non è sufficiente a garantire l’inserimento del singolo in una via legittimamente tradizionale riducendo la sua funzione ad un puro fatto di cultura.
Quando risulti privo di legittimità spirituale il tradizionalismo ha solo due esiti possibili: innovare tentando vie autonome che sovente portano ad innovazioni arbitrarie, o conservare pedissequamente le pure forme esteriori scadendo in un conservatorismo sterile.
Si può obiettare a tale proposito che, se pur sotterranea e limitata ad una cerchia ristretta, esista ancora una continuità tradizionale che, passando di mano in mano veicola ancora ai nostri giorni la sostanza e le forme dell’antica tradizione romana. Questa obiezione, fondata su una sorta di dogma accettato acriticamente da parte di certo tradizionalismo che definiamo, in sintesi, neo-pagano, apre la possibilità a che forze antitradizionali, operando sotto le mentite spoglie di una tradizione, possano far confluire la tensione di individui spiritualmente immaturi, verso forme pseudo-tradizionali inerti dal punto di vista dell’azione del sacro o, peggio, veicolanti una sacralità di ordine negativo in quanto le azioni rituali presenti in tali forme sono illegittime. La massoneria, specie in Italia, è stata ed è particolarmente attiva in questo genere di parodie pseudo-tradizionali della tradizione romana, parodie confezionate ad uso di una certa parte della “destra”.
Per quanto riguarda il rito, infine, vi è da rilevare come Evola abbia di esso un concetto prettamente “magico” secondo cui un rito, se correttamente eseguito, deve produrre gli effetti sperati piegando mediante il suo potere le forze spirituali simboleggiate dagli “dèi”. L’autore, prendendo le distanze dalla magia volgare, identifica “magia” con una “attitudine di centralità di fronte alla realtà spirituale” traducendo il concetto con quello di “virilità spirituale”. In questo senso, la “magia” è fatta coincidere con l’esercizio del potere regale. Per avvalorare questa idea, Evola cita la tradizione vedica e fa riferimento a quella egizia che, nei confronti del divino, considerava il faraone il condizionante più che il condizionato (Evola, Rivolta, 1969: 67; 70).
L’identificazione del rito con un esercizio di magia, anche se in Evola “magia” viene connotata come abbiamo accennato e fatta coincidere con il carisma regale, si presta a non pochi fraintendimenti e cela errori non lievi dal punto di vista metafisico. Accenneremo qui soltanto a due di essi.
Per quanto riguarda la regalità, specie quella delle origini che assommava in sé il potere del comando supremo e quello del supremo sacerdozio, ancora una volta è la tradizione romana a permettere un corretto intendimento circa l’origine e la natura del potere che distingue il rex.
Innanzitutto, in chi è destinato ad essere rex esiste un carisma innato di origine divina preesistente al riconoscimento legale da parte degli uomini liberi in armi e del consesso degli anziani. Questo carisma, d’ordine sacerdotale preesiste altresì alle cerimonie augurali le quali non creano il rex ma certificano mediante signa certa stabiliti dalla tradizione che la persona designata è effettivamente in possesso del carisma che la legittima a regnare. Emblematico è il caso archetipico di Romolo e Remo i quali, pur essendo entrambi di origine divina e nati dallo stesso parto, quando i signa certa si manifestano mediante il volo degli uccelli, ottengono risposte differenti le quali legittimano l’uno all’esercizio del potere regale e ne escludono l’altro.
Ciò che distingue il rex è l’imperium, potere numinoso che fa sì che cose ed eventi passino dalla sfera della possibilità a quella dell’esistere, che si tratti della vittoria in guerra o della fecondità, della salute e dell’ordinato succedersi dei cicli stagionali. Dall’imperium discende l’auctoritas, ossia, alla lettera il potere di incrementare (augere) ciò che è buono, utile e giusto per la vita dello Stato. Il sovrano è augustus perché colmo di auctoritas. Nulla nella tradizione romana permette di identificare l’imperium e la auctoritas con alcunché di magico. Al contrario, la tradizione romana indica nella auctoritas di Giove -Iuppiter Auctor- la fonte suprema ed unica dell’imperium. Il rito d’investitura regale, alle origini, era ufficiato dal futuro rex il quale dimostrava in tal modo di possedere la qualità sacerdotale indispensabile per regnare (rex augur). Il rito d’investitura non crea l’imperium ma rende solo manifesta, attraverso i signa, la sua effettiva presenza in chi è stato designato a regnare. Dopo la morte del rex, l’imperium torna a Giove per ridiscendere di nuovo sul successore. Non vi è potere umano, o rito che possa trasmetterlo legittimamente da uomo ad uomo. Questo è, facendo salve ragioni di natura politica, il motivo d’ordine metafisico che impedì che a Roma la regalità delle origini fosse trasmessa per discendenza genetica.
La cerimonia del trionfo è, in questo senso, significativa e rivela come l’elemento “magico” sia del tutto alieno ad essa, anzi vi sia l’esplicito riconoscimento di un potere di ordine superiore a quello dell’uomo: il trionfatore, giunto al tempio capitolino di Iuppiter Optimus Maximus, si toglie dalle spalle il mantello di porpora (paludamentum) e ne riveste l’effigie di Giove; si toglie dalla fronte la corona d’alloro e ne cinge le tempie della statua e, per finire, nelle mani di Giove rimette lo scettro d’avorio sormontato dall’aquila ad indicare che la divinità è la fonte del potere militare, la fonte della vittoria e della gloria ed è Giove il vero trionfatore.
La stessa immagine dell’aquila ad ali spiegate che precedeva in battaglia le legioni può spiegarsi in un duplice modo: o come una sorta di amuleto teso ad allontanare la sconfitta e ad assicurare magicamente la vittoria, o come il simbolo del potere supremo di Giove che garantisce la vittoria essendo presente alla testa delle legioni. Con buona pace della libertà d’opinione, resta il fatto che se non si vuole distorcere il significato del dato culturale, occorre interpretare l’insegna dell’aquila come Roma la intese e cioè nel secondo modo e non nel primo. In senso eminentemente religioso, non magico.
Ed ancora: il re Numa era un mago dal potere straordinario, o un sapiente che aveva saputo usare appieno il potere dell’imperium che Giove gli aveva concesso?
Passando all’India, Evola definisce la casta sacerdotale dei brahmana come signora del brahman, ossia del principio vitale primordiale “attraverso la forza del rito”. Se si tiene presente ciò che la tradizione vedica intende con “brahman” appare quanto mai improprio definire la casta sacerdotale “signora del brahman” attribuendole un potere che essa può esercitare secondo il proprio volere, ossia nel senso “magico” che Evola annette al potere detenuto dalla casta sacerdotale.
Brahman, nome di genere neutro, designa, infatti, l’Assoluto: il non-manifesto, il potere supremo da cui, ad ogni ciclo cosmico, viene generato il creatore designato dal nome di Brahma, di genere maschile il quale, alla fine del ciclo, cessa anch’egli di esistere per essere riassorbito nell’Assoluto. Dal punto di vista etimologico, brahman discende dalla medesima radice indoeuropea da cui deriva il latino flamma e flamen alludendo a quel “fuoco sempre vivente” che Eraclito pone al centro dell’universo, origine di ogni manifestazione immune da ogni divenire.
Orbene, si può essere signori e re mediante l’unione con l’Assoluto ma non signori dell’Assoluto. Se questo fosse possibile, ciò che per sua natura è ab-solutus, libero cioè da qualsiasi condizionamento o vincolo, sarebbe vincolato al potere del rito e cesserebbe di essere Assoluto.
La tradizione vedica, al contrario, pone correttamente il problema rimandando al significato del termine rta che, oltre che al rito, si riferisce in primo luogo all’ordine, alla ratio o logos che permette al cosmo di esistere e regge l’intera manifestazione. Il sanscrito rta, assieme al latino ritus ed ordo e al greco armonia discende infatti dalla medesima radice *ar- dalla quale deriva anche in greco areté intesa come nobiltà interiore, eccellenza spirituale ed argòs (latino argentum), termini che rimandando al simbolismo del bianco e della luce, suggerisce lo stato di purità spirituale.
L’aderenza all’ordine universale, al rito cosmico compiuto incessantemente dalla divinità, fa sì che l’azione compiuta dall’uomo giunga a buon fine ed ottenga il risultato che si propone giacché l’azione avviene in conformità alla norma celeste di cui realizza in terra il potere ordinatore.
Parimenti, a Roma il concetto di jus e di justus esprime l’aderenza del rito, della norma giuridica e dell’azione al fas, alla parola pronunciata da Giove. Il concetto romano di “pax deorum” esprime lo stato di conformità alla norma celeste il quale garantisce l’armonia fra umano e divino. Come si vede, da una tale prospettiva metafisica l’elemento “magico” resta del tutto escluso.
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