Lo Stato del Lavoro e il suo equivoco

di Julius Evola

(Tratto da La rivolta ideale, 9 ottobre 1952)

Raramente ci è stato dato di leggere un articolo così giusto, di così preciso pensiero politico come quello di Carlo Costamagna, pubblicato recentemente, con adeguato rilievo, da questo foglio (“Il dogma della Repubblica”, n.37. Le idee e le critiche di Costamagna non sono diverse da quelle che noi stessi in più occasioni abbiamo formulate, col medesimo intento di accusare l’inconsistenza di una certa corrente del M.S.I., la quale vorrebbe rivendicare per sé una linea di “intransigenza” e di “ortodossia” mentre il tutto si riduce ad un tenersi fanaticamente attaccati a idee pensate a metà, insuscettibili a costituire un vero punto di riferimento contro i nostri avversari.

discorso-sulla-socializzazioneOra, per l’articolo di Costamagna è accaduto più o meno lo stesso che per la sua ottima brochure Discorso sulla socializzazione: la parte dall’entrare  in una seria disamina dottrinale, di uscire dall’equivoco, di abbandonare lo stile delle semplici parole d’ordine.

La tesi principale di Costamagna è che, a volersi attenere agli slogans della Repubblica, dello Stato del Lavoro e della “socializzazione”, non si vede in che termini si possa parlare di una vera opposizione nazionale, dato che, dal punto di vista formale, tutti questi sono concetti già sanciti dalla Costituzione del 1947; così, al massimo, tutto si ridurrebbe a discutere su dei dettagli e su delle modalità di applicazione, cioè a ben poca cosa. Ciò è assolutamente esatto; per conto nostro vorremmo aggiungere qualche considerazione per quel che riguarda, in particolare, la nozione di “Stato del lavoro” in sé e per sé.  Sarebbe proprio ora che gli elementi più qualificati del nostro schieramento accusassero in tale nozione il prodotto di un pensiero politico mutilo e degradato, anzi di un pensiero addirittura anti-politico, muoventesi essenzialmente nell’orbita stessa del marxismo; chè essi, pertanto, si rendessero conto dell’abdicazione, della mancanza di coraggio intellettuale e della larvata demagogia che sempre comporta l’adesione passiva a questa formula.

L’ideale dello “Stato del lavoro” non può essere che un ideale proletario, nel senso più deteriore del termine. Anche quando si aggiunge “nazionale” (“Stato nazionale del lavoro”) le cose cambiano poco: ove si assolutizzi il concetto di lavoro facendone una specie di comun denominatore, ove dunque non si sappia pensare se non in termini di lavoro, salario, produzione e simili, si resta su di un piano in cui è impossibile far valere un vero principio di differenziazione, a partire da quello stesso cui corrisponde l’idea della nazionalità. Nel grigio dominio di ciò che è mera economia non vi è vera differenza, differenza di qualità e di tradizione, che possa davvero valere.

Lo “Stato del lavoro” è più o meno lo “Stato-cantiere”.

Abbiamo detto che esso corrisponderebbe ad un pensiero addirittura anti-politico, perché secondo l’idea tradizionale la sfera della politica e dello Stato ha sempre corrisposto a qualcosa di sopraelevato rispetto a tutta la parte fisico-vitale, materiale, “economica” della nazione. Essa si è sempre definita con un puro principio di autorità e sovranità, e non con una mera organizzazione di competenze; con valori spirituali, etici, ed eroici, e non con semplici strutture economico-produttive.

La scalata dello Stato da parte dell’economiIl quarto statoa, scalata che per unica soluzione coerente ha il marxismo, si riflette nell’ “ideale” dello Stato del lavoro. Il quale, pertanto, rappresenta qualcosa o di mutilo, o addirittura di invertito. L’analogia, riconosciuta ovunque fin da tempi remoti, dell’organismo umano con quel più grande organismo che è lo Stato, mostra ciò nel modo più chiaro. Nel migliore dei casi, lo “Stato del lavoro” corrisponderebbe, in una simile analogia, ad un organismo in cui le facoltà superiori non avessero nessuna attività autonoma ma agissero e si sviluppassero unicamente in funzione dei bisogni del corpo e del loro esclusivo, unilaterale soddisfacimento, degli scambi vitali, dei processi della pura vita vegetativa- nemmeno passionale.

In uno Stato del lavoro o viene ignorato un ordine dei fini – ed allora si ha appunto qualcosa di mutilo, un organismo privato della sua parte superiore – oppure l’ordine dei fini viene ridotto all’ordine dei mezzi – e allora si ha il fenomeno dell’inversione. Perché, secondo qualsiasi concezione normale della vita, il lavoro è sempre un mezzo. Costituire il lavoro come un fine, come qualcosa che va voluto ed esaltato in sé e per sé, su tutti i piani dell’esistenza, è davvero una perversione. Ma il presupposto, per cui si può concepire e giustificare uno Stato- la suprema forma di organizzazione umana- nei soli termini di uno “Stato del lavoro” è proprio questo. Pertanto, non sarà inutile soffermarci ancora, in un prossimo articolo, su tale singolare mito dei tempi ultimi.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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