Presentiamo da oggi un’altra serie di articoli di Julius Evola sul tema della concezione dello Stato e della politica, che uscirono su “Il Popolo Italiano”, diretto da Pino Romualdi e su “Il Conciliatore” fra il 1957 ed il 1959. Era terminata da tempo la fase in cui il barone si era messo a disposizione dei gruppi giovanili di destra e aveva cercato di dare il proprio contributo per la creazione di una corrente spiritualista in seno al MSI, scrivendo vari articoli su testate soprattutto giovanili dal 1949 in poi, fino alla pubblicazione de “Gli uomini e le rovine” nel 1953, come abbiamo osservato qualche tempo fa ricordando le premesse che portarono alla elaborazione di “Cavalcare la tigre”. L’allontanamento progressivo di Evola dalla prospettiva politica, dopo il tramonto delle speranze di una rinascita ideale e spirituale della Destra italiana, non gli impedirono di continuare a fornire spunti, con i suoi scritti, per chi, nell’ambiente, continuava indomitamente la propria lotta, anche sul fronte propriamente politico in senso stretto, come dimostra questo “pacchetto” di scritti pubblicati sul finire degli Anni Cinquanta.
I primi due scritti di tale serie, “Destra rivoluzionaria” e “Rivoluzione dall’alto”, usciti su “Il Popolo Italiano”, furono ripresentati sulla rivista bresciana “Carattere”, sotto l’intitolazione “Idee sulla Destra” nel numero del marzo-aprile 1957, e da noi pubblicati sul nostro portale nel 2016: ad essi ovviamente rimandiamo.
Oggi riprendiamo il discorso con l’articolo “Lo Stato Eterno”, suggestivo titolo per uno scritto presentato sempre su “Il Popolo Italiano”, con cui il barone tratteggiava brevemente le caratteristiche salienti dello Stato concepito da Platone nella sua celebre Politeia.
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di Julius Evola
tratto da “Il Popolo Italiano”, 20 agosto 1957
E’ d’uso giudicare la concezione platonica dello Stato come una utopia, che può interessare solo come una curiosità a chi studi la storia della filosofia. Le cose stanno altrimenti, da un duplice punto di vista.
Anzitutto tale concezione, nei suoi tratti essenziali, rifletteva lo spirito delle razze doriche, creatrici di Sparta, non senza un certo riferimento alla stessa legislazione di Licurgo; e si sa come queste razze fossero apparentate a molte altre dalle origini indoeuropee, comprese quella della primissima Roma. E lo stesso Platone, nel Timeo, accenna che la sua concezione ripete i principii che informavano una serie di organizzazioni politico-sociali effettivamente esistite, e non soltanto in Occidente.
Il secondo e più importante punto, è il carattere normativo attribuito da Platone alla sua concezione dello Stato. Platone parla di uno «Stato eterno», che esiste come idea al disopra e prima di qualsiasi particolare Stato reale, e al quale ognuno di questi va misurato nella sua legittimità. Parla anche di una appartenenza ideale a quello Stato eterno prima che ad ogni Stato soggetto alle condizionalità storiche e umane – il che vale quanto dire: occorre che alcuni uomini, pur vivendo in forme politiche non conformi, mantengano costantemente e incrollabilmente quell’ideale politico come norma e misura, senza lasciarsi far violenza dalla realtà di fatto. Il che, è cosa abbastanza diversa dalla «utopia».
Ciò premesso, qui può aver interesse ricordare rapidamente quale sia l’essenza dello Stato platonico. La sua prima caratteristica è l’organicità; esso prende per modello l’organismo umano, per cui lo si potrebbe dire «naturale» in senso eminente. Nell’uomo esistono, gerarchicamente ordinate, tre potenze principali: l’istintività unita alla vita vegetativa, la volontà o animo, lo spirito. In corrispondenza, ogni vero Stato deve essere un ordinamento organico e gerarchico che comprende tre distinti gruppi umani, composti dagli individui nei quali l’una o l’altra di quelle tre facoltà ha il predominio e che quindi hanno in proprio disposizioni e vocazioni distinte: sono il popolo (lavoratori e borghesia), i «guerrieri», i capi spirituali. Non si tratta, dunque, di classi nel senso moderno, meno che mai in senso economico; al massimo, si può parlare di «classi funzionali», in relazione alle loro specifiche attività. L’esigenza fondamentale è però che le divisioni sociali benché nette, non siano artificiali ma naturali, fondate, cioè, sulla «natura propria» dei vari individui, diversa in ognuno. Ma non è diverso, secondo noi, il principio che, ieri quanto oggi, dovrebbe conformare ogni sano ordinamento sociale.
Per Platone, i tre gruppi non sono rigidamente chiusi a guisa di caste nel senso peggiorativo. Egli riferisce il mito secondo il quale in origine gli uomini, quali figli della comune Madre Terra, sarebbero stati tutti uguali (questo, si può dire, è lo stadio naturalistico nel quale si potrebbe far valere la concezione societaria acefala e egualitaria). Ma gli Dei celesti provvidero a mettere negli uomini oro, argento e ferro, facendoli così diversi, secondo una diversità che è appunto quella delle tre anzidette caste funzionali gerarchicamente ordinate nel vero Stato. Ora, Platone riconosce che in dati casi la qualità «oro» può non esser presente in un dato numero di individui della casta superiore, e figuri invece eccezionalmente in individui delle altre classi, contrassegnate da argento e ferro. In tali casi, il limite va rimosso, gli indegni vanno allontanati, i degni vanno aggregati affinché in ogni casta regni il principio che le corrisponde e pel tutto vige realmente la giustizia: quella che vuole che ad ognuno spetti il posto, la funzione e la dignità conforme alla sua vera natura. Ieri il Pareto, oggi il Toynbee hanno ripreso una tale idea, riconoscendo in essa il presupposto per garantire la stabilità ad uno Stato gerarchico e per prevenire ogni sovversione, ogni pervertitrice «circolazione delle élites».
L’idea di giustizia si attua nello Stato di Platone anche nel senso che la gerarchia politico-sociale è qualitativa, riflette quella esistente fra interessi umani superiori e interessi umani inferiori. Ciò non impedisce che nell’ambito di ogni gruppo, al livello che gli è proprio, sia possibile realizzare una corrispondente «virtù» o perfezione.
Se, come si è detto, le tre ripartizioni – in basso, gli strati in cui predominano i soli interessi materiali, vitali ed economici, sopra ad essi i «guerrieri», al sommo i capi – corrispondono analogicamente a istinto, volontà e spirito, a tali facoltà corrispondono, a loro volta, tre virtù da sviluppare: sul piano degli istinti, la temperanza e il controllo di sé; su quello della volontà il coraggio e la virilità («andreia»), la capacità di discernere ciò che eticamente è da temere da ciò che non è da temere; infine sul piano dello spirito la sapienza sacra, la conoscenza super-razionale dell’«essere» (non la «filosofia», come spesso, letteralmente ma goffamente, s’intende), di cui, secondo Platone, i capi dovrebbero essere anche, e eminentemente, dotati per ordinare ogni cosa secondo un principio superiore. Solo quando incorporano queste virtù le tre caste sono all’altezza del loro principio o loro «idea», e lo Stato ha una struttura ben sagomata, stabile, tale da escludere ogni disordine e ogni prevaricazione.
Merita speciale considerazione la classe platonica dei «guerrieri» o «phylakes». – Essa ha i tratti di un «Ordine», di una «élite» virile. Giustamente qualcuno l’ha definita: «la coscienza armata dello Stato». Per questa casta non dovrebbe esistere la proprietà privata, individuale, dei beni. Ma in ciò non si tratta di un principio economico, bensì di un principio ascetico, come il voto di povertà, di non possedere nulla in proprio, negli Ordini monastici. E, del resto, chi possiede la potenza – come quella casta – non ha bisogno della ricchezza, non ha interesse per la ricchezza. È dunque assolutamente erroneo considerare lo Stato platonico come «comunista», sia per questa ragione, sa perché in esso la proprietà individuale al di fuori della casta guerrieri sotto il controllo di essa, è ammessa.
Inoltre di «ascesi» può parlarsi anche nei riguardi del vertice gerarchico, della casta di coloro che costituiscono il centro vero dello Stato, quale Platone lo concepisce. Infatti secondo Platone coloro per i quali il potere politico significasse ascesa e accrescimento quali persone, del potere supremo per ciò stesso non sarebbero degni. Merita davvero il potere supremo chi lo assume per necessità – perché non vi sono uomini uguali o superiori a lui cui affidarlo – che ha superato la «libido dominandi» e ha realizzato in sé l’idea impersonale della giustizia. Avendo costoro, lo sguardo fisso a cose non temporali, per essi il potere – dice Platone – significa più una rinuncia che una acquisto, ma solo in essi la superiorità può essere il fondamento della potenza, anziché essere la potenza il fondamento (effimero ed estrinseco) della superiorità del predominio.
Anche a limitarci a questi pochi punti essenzialissimi, si vede tutto ciò che la concezione di Platone offre di valido di là dal suo e da ogni tempo. Né mancano moniti di una singolare attualità. Eccone uno: «Da nessun’altro regime la tirannide sorge e prende piede se non dalla democrazia, cioè dall’estrema libertà la servitù più piena e dura». Ed ecco, anche, una sua parola valevole per coloro che oggi, malgrado tutto, restano fedeli all’idea: «Non vi è nulla di grande che non sia pericoloso».
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