di Julius Evola
(tratto da “Cavalcare la tigre“, paragrafo 27 del capitolo “la dissoluzione nel dominio sociale”)
I fatti sociali presentano una più stretta connessione con quelli della privata e del costume, se si considera il problema delle relazioni i sessi, del matrimonio e della famiglia nell’esistenza di oggi. Per quel che concerne l’istituto familiare, la sua crisi ai nostri giorni non è meno manifesta di quella dell’idea romantica ottocentesca di patria, a tale riguardo trattandosi degli effetti di processi in larga misura irreversibili per il loro legarsi all’insieme dei fattori che caratterizzano ormai il genere dell’esistenza dei tempi ultimi. Naturalmente anche la crisi della famiglia suscita oggi preoccupazioni e reazioni moralizzanti, con tentativi più o meno vani di salvataggio, senza che qui si sappia far valere altro che delle istanze conformistiche e un vuoto e falso tradizionalismo.
Anche a questo riguardo le cose per noi si presentano in modo diverso e, come nel caso degli altri fenomeni già considerati, è necessario riconoscere freddamente la situazione nella sua realtà. Si debbono pertanto trarre le conseguenze dal fatto che la famiglia già da tempo ha cessato di avere un qualche significato superiore, di essere cementata da fattori vivi d’ordine non semplicemente individuale. Il carattere organico e, in un certo modo, «eroico» che la sua unità presentava in altri tempi, è andato perduto nel mondo moderno [1], come è svanita, o sta per svanire, la stessa vernice residuale di «sacralità» che all’istituto veniva dal crisma del matrimonio religioso. Nella realtà della grandissima maggioranza dei casi la famiglia nei tempi moderni si presenta come una istituzione piccolo-borghese determinata quasi esclusivamente da fattori conformistici, utilitari, primitivisticamente umani e al massimo sentimentali.
Soprattutto è venuto meno il suo fulcro essenziale costituito dall’autorità, in primo luogo spirituale, del suo capo, del padre: quella raccoglibile dalla stessa derivazione etimologica della parola pater da «signore», «sovrano». A questa stregua una delle principali finalità della famiglia, la procreazione, si riduce alla mera, opaca continuazione di un sangue: continuazione, peraltro, promiscua, dato che con l’individualismo moderno è caduta, per le unioni coniugali, ogni limitazione di ceppo, di casta e di razza, e dato che, in ogni caso, essa non ha più come controparte la continuità più essenziale, cioè la trasmissione di generazione in generazione di una influenza spirituale, di una tradizione, di un retaggio ideale. Peraltro, come potrebbe essere altrimenti, e la famiglia come potrebbe continuare ad avere un saldo centro che la tenga insieme, se il suo capo naturale, il padre, oggi cosi spesso da essa è quasi estraneo, perfino fisicamente, preso come è nell’ingranaggio praticistico della vita materiale, in quella società di cui abbiamo indicato l’intrinseca assurdità? Che autorità può rivestire il padre, se, specie nelle cosiddette «classi superiori», egli oggi si riduce ad una macchina per far danaro, al professionista indaffarato e giù di lì?
In più, spesso ciò vale perfino per entrambi i genitori, per effetto della emancipazione della donna, del suo entrare nel mondo delle professioni e del lavoro, mentre evidentemente può giovare ancor meno al clima interno della famiglia e ad una influenza positiva sui figli l’altra alternativa della donna moderna, rappresentata dalla «signora» che si dà ad una esistenza frivola e mondana. Così stando le cose nella maggioranza dei casi, come riconoscere all’unità familiare moderna un carattere diverso da quello di una connessione estrinseca esposta di necessità a processi erosivi e disgregativi, e come non annoverare tra le ipocrite menzogne della nostra società il preteso «carattere sacro» dell’istituto familiare?
La interrelazione il meno del preesistente principio di autorità e lo svincolamento individualistico dei singoli, da noi già rilevata nel campo politico, si e manifestata anche nel campo della famiglia. Al decadere di ogni prestigio del padre ha fatto riscontro il distacco dei figli, lo iato sempre pin netto e crudo fra nuove e vecchie generazioni. Alla dissoluzione dei nessi organici nello spazio (caste, corpi, ecc.) fa riscontro, ai nostri giorni, quella dei nessi organici nel tempo, cioè la rottura della continuità spirituale fra le generazioni, fra padri e figli. Il distacco, la estraneità degli uni, agli altri è un fatto innegabile di crescenti proporzioni, che nel mondo d’oggi e anche propiziato dal ritmo sempre più rapido e disordinato dell’esistenza.
È poi significativo che tale fenomeno appare in modo particolarmente crudo nelle classi superiori e in ciò che resta dell’antica aristocrazia nobiliare, dove ci si sarebbe invece aspettata una maggiore forza di persistenza dei vincoli del sangue e della tradizione. Non è solo una battuta umoristica, che pei figli «moderni» i genitori sono «un male inevitabile». La nuova generazione desidera che i genitori «pensino ai fatti loro» e non si intromettano nella vita dei figli, perché essi «non la capiscono» (anche quando non vi è assolutamente nulla da capire); e ad avanzare una tale pretesa non è più il solo sesso maschile, al fianco di esso si è schierato in una «contestazione» anche quello feminile. Naturalmente, tutto ciò acutizza la condizione generale di sradicamento. La carenza di ogni significato superiore della famiglia presso ad una civiltà materialistica e disanimata e pertanto una delle cause anche di fenomeni liminali, come quelli costituiti dalla «gioventù bruciata» e dalla stessa crescente criminalità o corruzione giovanile.
Comunque, dato tale stato di fatto, quale pur ne sia la causa principale si connetta, questa causa, soprattutto ai figli o ai genitori -, la stessa procreazione assume un carattere assurdo e non può continuare sensatamente a valere come una delle principali ragioni d’essere della famiglia. Cosi, come dicevamo, solo la forza di inerzia, le convenzioni, la convenienza pratica e la debolezza di carattere in un regime di mediocrità e di accomodamenti e ciò a cui in innumeri casi oggi la famiglia deve il suo sussistere.
Né é da pensare che con misure esterne si possa venire a un mutamento. Ripetiamolo: l’unità familiare poteva mantenersi salda solo quando un modo di sentire superpersonale aveva una certa forza, tanto da far passare in secondo piano i fatti semplicemente individuali. Allora in un matrimonio si poteva anche non essere «felici», si potevano non vedere appagati i «bisogni dell’anima»; eppure l’unità sussisteva. Nel clima individualistico della società attuale non si potrebbe invece indicare nessuna superiore ragione a che l’unità familiare debba sussistere quando l’uomo o la donna «non vanno d’accordo» e i sentimenti o il sesso li conducano a nuove scelte. E perciò naturale il moltiplicarsi, nella società contemporanea, dei cosidetti «matrimoni falliti», e il correlativo regime dei divorzi e delle separazioni di coniugi. Ed è assurdo pensare all’efficacia di misure infrenatrici, la base dell’insieme essendo ormai una modificazione d’ordine esistenziale.
Dopo questo bilancio, sarebbe quasi superfluo specificare quale può essere, oggi, l’atteggiamento dell’uomo differenziato. In via di principio, nel dominio ora accennato, egli non può dare un qualche valore a matrimonio, famiglia, procreazione. Tutto ciò non può che essergli estraneo; non può riconoscervi nulla di significativo, di meritevole di una sua attenzione (su quel che riguarda il problema dei sessi in sé, e non secondo la prospettiva sociale, torneremo più oltre).
Circa il matrimonio, per lui sono palesi le contaminazioni fra sacro e profano e il conformismo borghese, anche quando si fa entrare in quistione il matrimonio religioso indissolubile cattolico. In realtà, tale indissolubilità, che nell’area cattolica dovrebbe tutelare la famiglia, non riguarda ormai che la facciata. Le unioni indissolubili nominalmente, di fatto sono spesso profondamente tarate e labili, e in quell’area la piccola morale non si preoccupa minimamente che il matrimonio sia effettivamente indissolubile; ad essa importa solo fare come se fosse tale.
Che uomini e donne, una volta debitamente sposati, facciano più o meno quel che vogliono, che fingano, si tradiscano o semplicemente si sopportino, che restino insieme per semplice convenienza riducendo la famiglia a quel che si è detto sopra, ad essa poco importa. La morale è salva, e si crede che la famiglia resti la cellula fondamentale della società solo che si condanni il divorzio e si accetti quella sanzione o autorizzazione sociale – come tale impertinente – per ogni convivenza a base sessuale, che corrisponde al matrimonio. Peraltro, anche quando non si tratta del matrimonio «indissolubile» di rito cattolico, quando si tratta di società nelle quali il divorzio è ammesso, l’ipocrisia sussiste perché si esige che si sacrifichi all’altare del conformismo sociale nello stesso caso in cui uomini e donne si separino e si risposino in ricorrenza pei motivi più frivoli e ridicoli, come accade tipicamente negli Stati Uniti, sì che il matrimonio finisce con l’essere poco più di una vernice puritana per una specie di regime di alta prostituzione o di libero amore legalizzato.
segue nella seconda parte
Note
[1] Cfr. al riguardo l’articolo di Evola La famiglia quale unità eroica. Riscoprirne il significato più alto e originario, contenuto nella presente sezione di questo portale (N.d.R.).
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