di Julius Evola
Nel settembre 1941 fui chiamato a Palazzo Venezia. Non supponevo che Mussolini stesso volesse parlarmi. A Lui fui accompagnato da Pavolini che presenziò al nostro colloquio. Mussolini mi disse di avere letto la mia opera “Sintesi di dottrina della razza”, edita da Hoepli, di approvarla e di vedere, nelle idee in essa esposte, la base per dar forma ad un razzismo fascista autonomo e antimaterialista. “E il libro che ci occorreva” disse testualmente.
Per rendersi conto della portata di queste dichiarazioni, occorre ricordare come le cose, in Italia, stessero col razzismo. Già parecchi mesi prima, Mussolini aveva creduto necessario prender posizione rispetto al problema della razza e allinearsi con l’alleato tedesco anche a tale riguardo. Il movente più immediato era stato la volontà di energizzare il sentimento di razza e di dignità di razza nei rapporti con gli indigeni nel nuovo Impero. Avevano poi agito informazioni precise circa l’atteggiamento antifascista dell’ebraismo internazionale e soprattutto nord-americano. Vi si univano problemi d’ordine interno, selettivo, culturale e etnico. Per cui, Mussolini aveva promosso la pubblicazione del cosiddetto “Manifesto del razzismo italiano”, comprendente una decina di punti; si mise su una rivista, “Difesa della Razza” e successivamente si crearono due uffici-razza, uno alla Cultura popolare e l’altro agli Interni.
Purtroppo l’insieme presentava tratti poco soddisfacenti. Si è che per un’azione del genere mancava in Italia ogni precedente di seria preparazione e di studi specifici, e le idee razziste erano terra affatto incognita per gli “intellettuali” italiani. Così già il gruppo che aveva compilato il “Manifesto”, e quello stesso dei collaboratori di “Difesa della razza”, si presentava quanto mai eteroclito e raffazzonato. A qualche antropologo del vecchio indirizzo scientista, si univano giornalisti e letterati fattisi avanti per l’occasione e svegliatisi razzisti dall’oggi al domani. Per cui, l’impressione generale era quella di un dilettantismo ove troppo spesso la polemica spicciola e lo slogan tenevano il posto di una seria e unitaria dottrina: dottrina, che non avrebbe dovuto perdersi né nello specialismo biologista né nel volgare antisemitismo, ma presentarsi essenzialmente sul piano di una visione generale della vita, e agire come una idea politicamente ed eticamente formatrice. In buona parte, furono dei giudizi poco lusinghieri uditi all’estero sul rivolgimento razzista del fascismo che m’indussero ad applicarmi a tale materia. Dalle idee, di carattere tradizionale e aristocratico, cui io mi collegavo, mi detti a trarre tutto ciò che in sede di applicazione e deduzione particolare, poteva valere come una dottrina organica della razza. Furono prima articoli e saggi accolti in vari periodici fascisti, poi fu il libro già accennato.
La tesi centrale da me difesa era, in breve, questa: per l’uomo, il problema della razza non può porsi negli stessi termini, né avere lo stesso significato, che in un gatto o in un cavallo purosangue. L’uomo vero, infatti, oltre alla parte biologica e somatica, è anima e spirito. Quindi, un razzismo completo deve considerare tutti e tre questi termini: corpo, anima e spirito. Si avrà così un razzismo di primo grado, riguardante i problemi strettamente biologici, antropologici e eugenici; poi, un razzismo di secondo grado, riguardante la “razza dell’anima”, cioè la forma del carattere e delle reazioni affettive; infine, come coronamento, la considerazione della “razza dello spirito”, riguardante le supreme frontiere che in fatto di visione generale del mondo e dell’aldilà, del destino, della vita, dell’azione, insomma, di “valori supremi”, differenziano e rendono disuguali gli uomini. L’ideale classico, razzisticamente interpretato, è l’armonia e l’unità di queste tre “razze” in un tipo superiore.
Mussolini approvò incondizionatamente siffatte vedute. La responsabilità di tanti memorialisti, che mettono senz’altro fra virgolette le parole testuali che il Duce avrebbe detto loro, non me la prenderò. Posso però rispondere senz’altro del senso di ciò che Mussolini mi disse, dimostrando una singolare preparazione. “La concezione del razzismo tripartito – disse dunque Mussolini – evita l’errore zoologistico e biologistico proprio a un certo razzismo germanico; in essa vi è posto per il primato di quei valori dello spirito, che fan parte essenziale della nostra tradizione e dell’idea fascista. Inoltre essa ha un alto valore politico. Voi avete messo in relazione i tre aspetti del problema della razza con le tre parti dell’essere umano, quali anche Aristotele le distinse. Ma un miglior riferimento sarebbe stato Platone (qui oso dire di ripetere proprio le parole di Mussolini), che, in più, quelle tre parti mette in relazione con tre strati del corpo sociale. Perché la razza del corpo corrisponde nello Stato alla mera massa, aldemos, “che in sé non è nulla ma che è la forza con cui i dominatori agiscono” (parole testuali); la razza dell’anima può corrispondere ai “guerrieri” o “guardiani” di Platone, mentre alla razza dello Spirito potrebbe corrispondere l’apice, essa comprenderebbe i pensatori, i filosofi, gli artisti.”
A dir vero, a questo punto, malgrado i segni allarmati che mi faceva l’amico Pavolini, mi permisi di interrompere Mussolini, dicendo: “Badate, Duce, che Platone i pensatori, i filosofi e gli artisti in senso moderno, li avrebbe messi al bando dal suo Stato. Sono invece i sapienti – sophoi – i quali rappresentano tutt’altra cosa, non degli “intellettuali”, che Platone vedeva al vertice del suo Stato ideale”.
“Ebbene, diciamo i sapienti”, fece Mussolini sorridendo.
Il mito della Nuova Italia
Mentre la razza viene abitualmente considerata come un dato fisso, naturalistico e fatale, nel mio libro avevo sostenuto una concezione dinamica: razze nuove possono formarsi, altre mutare o tramontare per effetto di fattori interni, spirituali, ossia di ciò che avevo chiamato la “razza interna”. Come esempio di ciò indicavo lo stesso tipo ebraico, derivato non da una razza pura originaria, ma plasmato da una tradizione millenaria; e oggi un tipo yankee sta sorgendo con tratti già abbastanza uniformi e caratteristici da un inverosimile miscuglio etnico, sotto la influenza di una data forma di civiltà, o di pseudociviltà, quale quella U.S.A. Mussolini nel nostro colloquio approvò incondizionatamente questa idea, come base di un “razzismo attivo” che andava incontro a compiti formativi, corrispondenti alla più alta aspirazione del fascismo. L’ideale era che – per opera di fattori interni, di precise discipline e di un’alta tensione ideale – prendesse via via forma e si stabilizzasse, dalla sostanza eterogenea del popolo italiano un tipo nuovo d’elite, la “razza dell’uomo fascista”. Il Duce mi disse di esser convinto della profondità a cui possono giungere processi del genere; mi accennò di essere stato colpito dall’avere egli stesso riscontrato più di una volta, nella gioventù del Littorio e nella Milizia, un tipo nuovo non solo come atteggiamento ma, appunto, persine nei tratti fisici, somatici, quasi come effetto spontaneo di una selezione e formazione nel senso che io avevo detto. Un inizio, che purtroppo è stato stroncato. Col tracollo dell’Italia, non la nuova superrazza ma la sub-razza del popolo nostro doveva venire alla superficie e determinare le glorie della “liberazione” e del “secondo Risorgimento”.
Il razzismo politico e spirituale abbisogna di un “mito”, cioè di una idea-forza atta a cristallizzare le energie di un dato ambiente collettivo. Tale è appunto l’idea della razza superiore. Si sa che, nel riguardo, già da tempo era stato messo su il mito ario; cosa che, del resto, se intesa nei giusti termini, è assai più di un “mito”. Infatti non dai soli razzisti vien riconosciuto che le antiche civiltà dell’India, dell’Iran, della Grecia, di Roma, e poi quella germanica, derivarono da ceppi di un’unica razza o superrazza primordiale preistorica, detta “aria”, allo stesso modo che le rispettive lingue, religioni, concezioni del diritto ecc., denotano comuni radici. Naturalmente, il razzismo tedesco aveva cercato di volgere la cosa pro domo sua, considerando i ceppi nordico-germanici come gli eredi diretti della pura razza “aria” delle origini e ponendo l’idea nordico-aria al centro dell’azione politica e della visione nazionalsocialista della vita. Ma una tale pretesa mono-polizzatrice è priva di ogni serio fondamento. Partendo dalle stesse premesse, io avevo posto l’idea aria-romana come punto centrale di riferimento per il razzismo fascista: il riferimento andava a quelle forze che, differenziatesi dal comune ceppo ario, avevano dato alla romanità originaria e virile il suo volto. L’idea ario-romana, pur essendo parallela a quella nordico-aria, manteneva una sua autonomia e una sua propria dignità; cosa, l’una e l’altra, che potevano venir assicurate al nostro movimento, allontanando il sospetto di esser comunque succubi delle concezioni naziste, senza però perder quota rispetto ad esse, superandole anzi pel rifermento a valori e ad elementi di stile di una tradizione più augusta e universale.
Mussolini mi disse che anche questa parte del mio libro l’aveva particolarmente interessato. Un suo detto era già stato: “Sogniamo un’Italia romana”. Si presentava ora la possibilità di concretizzare questa formula. Riprendere, fuor dalla retorica e dalle riesumazioni accademiche, l’idea ario-romana come forza formatrice, in primo luogo, di una visione generale della vita (“razza dello Spirito”), poi del carattere, di uno stile del comportamento (“razza dell’anima”), infine, se possibile, persine di un nuovo tipo somatico, fisico (“razza del corpo”), affinchè la stessa esteriorità riflettesse degnamente la razza interna; per contro, limitare e rettificare le componenti sospette del nostro popolo, denunciare le promiscuità “mediterranee” e le “fratellanze bastarde” (in tali termini Mussolini aveva già parlato della cosidetta “latinità”) affiancandosi così anche spiritualmente agli eredi del Sacro Romano Impero – questo era il programma di massima del razzismo attivo che Mussolini veniva ad approvare. Come dottrina, nel nostro colloquio il Duce toccò anche problemi alquanto tecnici come quello dell’ereditarietà. Poi si parlò di alcune iniziative pratiche. Di esse dirò nel prossimo articolo. Ma qui vale accennare ad un punto particolare. Vi è della gente per la quale dire razzismo vorrebbe solo dire antisemitismo, campi di concentramento, camere a gas e simili. Ora, bisogna mettere in chiaro che di un razzismo serio l’antisemitismo non è che un capitolo particolare e subordinato, per nulla l’essenziale. Nella fattispecie, esiste certo un pericolo ebraico, ma esso bisogna sentirlo e individuarlo come un pericolo interno, oltre, e perfino più, che non come un pericolo esterno. Questo era un punto fondamentale nelle idee da me formulate: poco vale esser degli “arii” e di “razza pura” nel corpo e nel sangue ove si sia ebrei, levantini o giù di lì nello spirito e nel carattere, nella “razza ulteriore”. Grave responsabilità, dunque, nel dirsi “arii”, quando questa non debba essere una vuota e presuntuosa designazione. Così era data la possibilità di affrontare i problemi razziali fuor da ogni fanatismo e da ogni faziosità, guardando all’essenziale, dando ad ognuno il suo. Con l’approvare le mie formulazioni, Mussolini entrava in quest’ordine di idee, che avrebbe differenziato il razzismo fascista da quello nazista, negli aspetti estremistici e poco meditati di esso.
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