Prima parte di un mini-saggio di Evola pubblicato sulle colonne de “La Vita Italiana” nel 1936, in cui il corso decadenziale della storia e dell’umanità viene descritto dal barone mediante un’interessante analisi dell’involuzione del concetto di “mito” e di “simbolo” nella storia, che da “vie di approssimazione e partecipazione alla realtà metafisica” diventano a poco a poco strumenti in mano alla sovversione, in grado di creare nuove vere e proprie (sotto)mitologie, ormai del tutto svuotate di contenuti superiori, e funzionali unicamente all’affermazione ed all’animazione della società delle masse, dell’epoca della quarta casta, in cui l’irrazionale, l’inferiore, il collettivo prorompono con tutta la loro potenza dal basso, raggiungendo il loro più alto potenziale proprio affermandosi in forme mitologiche e simboliche capovolte, pericolosi misticismi invertiti di natura unicamente psichica: immagini, forme e simboli si caricano pericolosamente di forze di segno contrario.
Contro questo neo-spiritualismo che si nutre di forme e d’immagini, di suggestioni e pulsioni irrazionali e febbrili, di faustismo e passionalità, Evola invocava l’affermarsi di una nuova epoca di chiarezza, freddezza e dignità classica, dorica e romana, di essenzialità ed elementarietà di linee e forme, di caratteri e di personalità. L’affermarsi, come scriveva Evola e come leggerete nella parte finale del saggio, “di un mondo in cui vi siano solo gli uomini e le cose e le pure, assolute relazioni fra gli uni e le altre, senza imagini, senza febbri, senza slanci passionali, senza parole, senza ideologie, senza gesti”.
Inevitabile non notare le connessioni con quell’Uomo Nuovo di cui abbiamo ampiamente parlato, come prefigurato da Ernst Jünger tramite la figura del suo Arbeiter (e su cui infatti, non a caso, sarebbe caduta l’attenzione di Evola di lì a breve), freddo dominatore in un’era in cui l’impersonalità attiva, nuda e cruda, si sarebbe manifestata anche nella capacità di padroneggiare la Tecnica, infondendole un’anima, disciplinandola (come scrisse un certo Goebbels), creando i presupposti per la rinascita di forme di personalità superiore, e la cui costruzione, iniziata di fatto sotto la spinta dei dai fascismi europei, sarebbe stata prematuramente arrestata dall’esito della seconda guerra mondiale. Ripristinato il sotto-ordine borghese ed i fantocci degli stati democratici, si sarebbe riavviata l’elaborazione di sempre più perverse forme di miti e mitologie moderne, in grado di supportare l’avvento dell’uomo massificato, anonimo e senza identità, dominato dalla materia e dalla tecnica (e non certo dominatore di esse) e sottoposto senza protezione alle forze incontrollabili dell’irrazionale e dello psichico, che avrebbero definitivamente preso il posto di quelle dello spirito.
Nell’immagine in evidenza: “La distruzione dell’Impero romano” di Thomas Cole, quarto dipinto allegorico della serie “Il corso dell’Impero” (1836)
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di Julius Evola
tratto da “La Vita Italiana”, marzo 1936
Prima parte
Per un giusto orientamento nella materia che qui vogliamo trattare, dobbiamo partire da alcune premesse dottrinali generali, che per noi non hanno la portata di una costruzione filosofica personale, bensì quella di un dato di fatto rigorosamente oggettivo. Si tratta della dottrina della quadripartizione gerarchica e della comprensione della storia ultima quale processo di discesa dall’uno all’altro di questi quattro gradi gerarchici. Per rendere intuitiva una tale veduta, fermiamoci anzitutto al suo aspetto sociale. La quadripartizione si presenta allora come quella che in tutte le antiche civiltà tradizionali dette luogo a quattro caste distinte e gerarchicamente ordinate: servi, borghesi, aristocrazia guerriera e portatori di una paura autorità spirituale. Per casta, qui non si deve intendere qualcosa di artificiale e convenzionale, bensì il luogo che raccoglieva individui accomunati da una stessa natura e da una stessa vocazione. In ogni casta prendeva espressione e forma in modo specifico di esistenza.
La gerarchia risultava normale, quando confermava la naturale dipendenza dei modi inferiori di vita a quelli superiori, cioè a quelli aderenti ad un punto di vista puramente spirituale e alla realtà metafisica. Che solo in tal caso si abbiano dei rapporti retti di subordinazione e di partecipazione ciò risulta già dall’analogia con l’organismo umano. Nell’organismo umano, infatti, non si ha una condizione normale e sana, quando per caso l’elemento fisico, cioè lo strato servile, ovvero la vita vegetativa, cioè la borghesia, o infine l’incontrollata e impulsiva volontà, cioè la casta guerriera, assuma la parte direttiva e decidente. Si ha invece una condizione normale quando lo spirito costituisce il punto centrale e ultimo di riferimento per le rimanenti facoltà, alle quali non per questo viene negata una parziale autonomia, ma che anzi restano potenziate e trasfigurate nel tutto dell’unità complessiva.
E questa è effettivamente l’imagine dell’esistenza corrispondente a quei tempi primordiali, che oggi secondo una formula volgare sono chiamati «mitici». Tali tempi furono non quelli di una vita semianimale e prepersonale, bensì quelli delle grandi distanze metafisiche. Furono tempi, nei quali ciò che nell’uomo trascende l’uomo si manifestò in tutta la sua veemenza elementare, simile al libero vento delle altezze, come una potenza assolutamente organizzatrice, come una forza più forte della vita e della morte. Superuomo o età aurea, immanenza selvaggia o teocratica primordiale, tutto ciò non è che pallida formula, infetta dalle concezioni di un’epoca decadente. Quei tempi furono superbamente olimpici e eroici, una intenzione unica animava ogni attività, la liberava e la organizzava inesorabilmente intorno ad un asse metafisico. Nemmeno si può parlare, qui, di religione.
Religione è troppo poco, è un’apparizione posteriore, una cosa già condizionata e umana. Religione, religio, significa riconnessione. Ma non entra in quistione alcun riconnettere là dove esiste una presenza, là dove l’uomo non conosce la mutilazione individualistica, là dove la «supervita» è, direttamente o indirettamente, la vena più profonda e la giustificazione di tutto ciò che è vita.
Abbiamo detto: direttamente o indirettamente. Questa distinzione ci introduce anche al senso che in questo tipo primordiale e normale di civiltà ebbero il mito e il simbolo. Simbolo e mito non furono per nulla creazioni fantastiche, imagini poetiche o trasposizioni superstiziose di confuse rappresentazioni naturalistiche. Simbolo e mito furono invece vie di approssimazione e di partecipazione alla realtà metafisica formulate, secondo leggi rigorose e oggettive di analogia, dai rappresentanti di questa stessa realtà metafisica per gli strati inferiori degli organismi tradizionali, di cui essi erano i Capi. Simboli e miti comprendevano due aspetti. Il primo, era costituito da una imagine atta a produrre una galvanizzazione e dinamizzazione della fantasia, attraverso cui si produceva l’affioramento di energie profonde, un mutamento interiore di livello psichico. La seconda parte del mito andava a dare, coscientemente o incoscientemente, a questa energia dinamizzata il giusto orientamento attraverso un punto superiore di riferimento, tanto da avviare a presentimenti, illuminazioni o azioni di là da tutto ciò che ha forma e che materialmente o umanamente condizionato. A ciò corrisponde il significato etimologico originario dello stesso termine «mito».
Dal Guénon è stato recentemente ricordato come la parola greca mythos venga dalla radice my, che si ritrova nel latino mutus, muto, e nel verbo myô, tacere, tener la bocca chiusa, ma altresì in myeô, che significa iniziare e propriamente iniziare ai misteri. Infatti lo stesso termine mistero, mysterion, non ha diversa origine, e rivela il senso di un istruire tacendo, varcando cioè il limite di tutto quel che è nominabile, sensibile e legato ad una forma. Miti iniziatici e miti poetici, miti eroici e miti fisici, miti teologici e miti scendenti fino alle discipline delle più umili comunità corporative, non erano che applicazioni ai vari domini del conoscere e dell’agire di quest’unico principio. Il mito costituì dunque l’articolazione e la potenzialità metafisica di ogni forma della vita tradizionale. Esso fece sì che la conoscenza e l’azione si sviluppassero secondo significati e possibilità, che ormai da secoli non sono più conosciute, che anzi sono sistematicamente negate. Ma per virtù del mito e del simbolo si stabilivano e si fortificavano anche i contatti necessari a che élites non costituissero una vena isolata e occulta, ma la vena regale e solare di coloro che sanno e che sono, e che, come tali, si presentano, secondo l’espressione tradizionale conservatasi fino a Federico II e a Dante, come legge animata in terra, lex animata in terris.
La comprensione della storia della cultura come involuzione oggi appare come il riflesso di un periodo di crisi nella mente di alcuni dilettanti e letterati. Ciò non toglie che tale concezione corrisponda anche ad una conoscenza ritrovabile con grande uniformità e impersonalità di linee negli insegnamenti tradizionali dei popoli più vari. Per quel che qui ci interessa, non è una opinione, ma un fatto, constatare che sopra tutto in Occidente l’autorità e il potere sono passati progressivamente nelle mani di caste sempre più basse. A tipi metafisici e aristocratico-sacrali di Stato e di civiltà sono così subentrati Stati monarchico-guerrieri già in larga misura secolarizzati. Più tardi, la vera funzione politica direttiva passa, sotto coperture democratico-liberali, alle oligarchie capitalistiche, le quali corrispondono all’antico Terzo stato e all’antica casta dei borghesi e dei mercanti. Alla fine, fenomeni come il marxismo, il Comunismo, il collettivismo e sopra tutto il bolscevismo nelle sue forme originarie vengono a indicare la tendenza del potere a passare all’ultima casta, all’antica casta dei servi, che corrisponde appunto alla mera massa.
Questo aspetto politico è naturalmente solo il lato esterno e consequenziale di una involuzione interna, per cui ognuna di queste quattro fasi si accompagna ad una corrispondente mutazione del senso intimo di ogni istituzione, di ogni interesse, di ogni ideale del conoscere e dell’agire. Così non solo per lo Stato, ma anche per il concetto di nazione e di famiglia, per l’etica, per il diritto, per i tipi architettonici, per la speculazione, per l’arte, per il senso della guerra e così via si potrebbe tracciare una fenomenologia e riscontrare la stessa mutazione, lo stesso rigoroso passaggio regressivo attraverso i quattro stadi: metafisico o solare, semplicemente guerriero, borghese e umanistico, infine collettivistico e plebeo.
Ma, ai nostri fini, ci interessa solo sottolineare l’aspetto, per cui l’involuzione già detta corrisponde ad un franare della personalità, ad un progressivo venir meno dell’intima tensione che rende possibile una organizzazione sovrannaturale di tutte le potenze dell’essere umano, e, infine, ad un letterale discendere dalla supercoscienza ad una vera e propria subcoscienza. L’uomo può essere veramente libero e sé stesso solo quando mantiene il centro del suo essere su di un piano metafisico. Quando si distacca da tale piano e si concentra su scopi pratici, su realizzazioni temporali e, in genere, su quanto era dominio solo delle caste inferiori prese in sé stesse, egli abdica, egli si disintegra, si riapre a forze sotterranee, di cui presto, senza che se ne renda conto, è destinato a divenire lo strumento.
Ed è precisamente questo il senso di ciò che le persone illuminate moderne di massima hanno glorificato come evoluzione. Il punto di frattura è costituito dall’individualismo. Con l’individualismo l’uomo si costituisce come un centro illusorio fuori dal centro, considera come conquista ciò che è solo una sua vergognosa mutilazione e crede di poter supplire con costruzioni ad opera di facoltà puramente umane e naturali, a quelle certezze tradizionali, a quei princìpi «non umani» dai quali egli è ormai decaduto. Questa fase, possiamo definirla sia come umanismo che come razionalismo. Essa è di breve durata. Staccata da ogni punto superiore di riferimento, la ragione non può conservare la sua autonomia. Già essa stessa, con un lavoro critico autocorrosivo, si incarica a confutare le pretese dogmatiche e legislatrici della ragion pura e a limitare la validità della ragione ad un uso affatto inferiore, cioè pratico, sperimentale e utilitario. In un momento successivo lo stesso peso di una ragione così menomata sembra troppo grave: al primo piano affiora ora l’irrazionale e l’antirazionale come la sostanza di ogni realtà e si produce un capovolgimento: a guidare la ragione sta ora ciò che è effettivamente inferiore alla ragione, la ragione è ora uno strumento al servigio di impulsi vari che possono rivestire forma politica o religiosa, sentimentale o pratico-attivistica, ma che sempre hanno un carattere sub personale e che per principio hanno la semplice, cieca affermazione di sé stessi.
Tutto ciò che oggi è religione della vita, faustismo, pragmatismo, nuovo naturalismo, religione dell’immanenza e del puro divenire, dottrina dell’inconscio e nuovo misticismo, appartiene a questo piano: lungi dall’aver il valore di una reazione, tutto ciò che non corrisponde che alle ultime fasi di un processo di sgretolamento.
Lo stesso sviluppo si verifica in sede sociale. L’usurpazione individualistica chiama automaticamente la limitazione collettivistica. L’uomo tradizionale nella sua gerarchia e nella sua casta poteva esser libero, cioè sé stesso: aveva un suo diritto, una sua funzione organica, una sua dignità, qualunque fosse lo strato cui apparteneva. L’uomo moderno, orgoglioso di aver travolta ogni casta e ogni vera tradizione, trova di fronte a sé la massa degli altri senza-casta senza-tradizione. Anche qui si ripete il tentativo razionalistico e umanistico, cioè il tentativo di fissare mediante astratte formule giuridiche e politiche questa massa instabile e caotica di atomi. Ma anche qui il livello non è riguadagnato, nulla sorge, per cui l’obbedire sia anche un consentire e la sottomissione sia anche un riconoscimento e una elevazione; appaiono solo forme instabili e barcollanti, contro cui preme alla fine la marea di forze nuove. Queste forze appartengono ormai meno agli individui che alle masse, cioè a quel che negl’individui è massa, alla parte puramente vitale, preintellettuale e istintiva del loro essere. L’atomismo è superato, con esso anche tutto ciò che è liberalismo e individualismo, si stabilisce galvanicamente un nuovo cemento superindividuale sotto il segno di una radicale insofferenza per ogni principio d’ordine superiore e d’ogni disciplina vera. È un clima nuovo, saturo di enormi tensioni, di grandi forze in moto che non hanno più centro.
Segue nella seconda parte
'Nascita ed essenza del «mito» moderno (I parte)' has no comments
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