Naturismo e “ideale animale”

Circa sessant’anni fa Julius Evola scriveva sulle colonne del “Roma” quest’articolo che, letto oggi, risulta di incredibile lungimiranza ed attualità. L’uomo, privato della propria dimensione spirituale, impara a poco a poco a considerarsi una mera specie naturale tra le tante, e quindi finisce per avere come méta il soddisfacimento del proprio “ideale animale”, l’appagamento dei propri bisogni psico-fisici e la fuga dallo stress e dalla routine quotidiana. Una dimensione “bovina”, una prospettiva totalmente materializzata. Il perfetto fantoccio che crede, “darwinianamente”, di derivare dalle scimmie: da primizia del creato, modellata ad immagine e somiglianza di Dio, a sottospecie abbassatasi ad immagine e somiglianza della Bestia. Basta poco per rendersi conto del livello cui siamo giunti oggi, rispetto ai tempi in cui scriveva Evola. Fra alcuni giorni, come preannuncia Evola a fine articolo, vedremo come dall’ “ideale animale” si passi inevitabilmente alla crisi del pudore, con tutte le conseguenze del caso, non in senso moralistico ma in termini di rottura di determinate dinamiche all’interno di una comunità.

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di Julius Evola

Tratto dal “Roma”, 20 aprile 1957

La espressione “ideale animale” è stata coniata da uno scrittore centro-europeo di ieri in un esame della civiltà nord-americana. Ma essa può essere anche usata per caratterizzare un orientamento ormai assai diffuso dovunque nel mondo occidentale.

Si tratta di un ideale di benessere biologico, di comfort alla portata di tutti, di euforia ottimistica con rilievo di tutto quanto è semplice salute, giovinezza, vigore fisico, sicurezza e successo materiale, un appagamento primitivistico dei bisogni del ventre e del sesso, con la controparte di una atrofia di ogni forma superiore di sensibilità e di interesse. È l’ideale che della civiltà ha finito col formarsi un tipo umano evolutosi nei soli aspetti per i quali egli non è nulla più che una delle specie animali.

In esso è effettivamente da vedersi la conseguenza ultima e pratica dello spostamento di prospettive gradatamente realizzatosi nel corso della civiltà occidentale, partendo dapprima dal dominio intellettuale. Dalla cosiddetta Rinascenza in poi, l’uomo è andato a sentirsi sempre meno come un essere privilegiato della creazione, e sempre più si è abituato a considerarsi, invece, come lo appartenente di una delle tante specie naturali e, infine, persino animali. Per il che, per ultimo, la nascita e l’attecchire del darwinismo con la sua teoria della selezione naturale, doveva essere uno degli indici barometrici più significativi. Poi, di là dal piano delle teorie, dello scientismo e della biologia, le logiche conseguenze si sono sviluppate da sé in termini di mentalità e di comportamento.

Si tratta di quelle tendenze che ci descrivono il futuro come una specie di paradiso sulla terra in base alla premessa materialistica e naturalistica, che le conquiste scientifiche unitamente al miglioramento delle condizioni dell’esistenza materiale in virtù di una diversa distribuzione della ricchezza ed organizzazione della produzione ai fini di un razionale soddisfacimento dei bisogni fisici della collettività condurrebbero ad un superiore livello di vita e di civiltà. In questi termini, è evidente che fra americanismo e marxismo non esiste nessuna essenziale differenza; ad entrambi è comune l’“ideale animale”. Dell’equivoco proprio a tale ideologia vale appena soffermarsi: quando l’animale umano è pienamente soddisfatto e tutto gli è facile, allora di più vi è la probabilità massima che non si cerchi null’altro e che si produca una atrofia di tutte quelle forze e di quelle disposizioni che si destano e si temprano presso alle difficoltà, alle lotte e agli aspetti oscuri, se non perfino tragici, dell’esistenza. Per questo, non c’è dubbio che una esistenza vicina allo standard nord-americano più o meno tipo Babbit o Hollywood, oppure al summum bonum dell’utopia sociale marxista rappresenta poco meno che un pericolo spirituale: appunto perché in tal caso la tensione interna si abbassa, l’esistenza materiale può assumere il valore di fine anziché di mezzo, può nascere la propensione ad adagiarsi in essa anziché elevarsi di là da essa, come è richiesto per realizzare la vera perfezione individuale.

Uno degli aspetti speciali pratici dell’“ideale animale” che oggi sempre più si diffonde e a cui vale accennare riguarda il “naturismo” moderno. Qui non si tratta più di una teoria come ai tempi di Rousseau e dell’enciclopedismo. È un atteggiamento concreto. Dato il logorio prodotto dalla vita civilizzata specie nelle grandi città, non c’è di certo nulla da dire contro il riprender contatto con la natura, unitamente alla pratica di un certo numero di sport. Ma per il tipo umano che abbiamo in vista non si tratta semplicemente di questa legittima compensazione o distensione organica, si tratta anche di un primitivizzarsi. Si viene ad un culto del corpo e ad una cultura di semplici di sensazioni fisiche. Le connessioni che nei tempi ultimi si sono stabilite fra naturismo e sport sono innegabili, e non vi è dubbio che il moderno tipo sportivo sia un tipo più o meno meccanicizzato e imbastardito, appunto nel senso di una sensazione e di sviluppo unilaterale della personalità fisica.

Fra l’altro, a questo orientamento è proprio una banalizzazione del sentimento stesso della natura: perché la natura può rivelare il suo vero senso solo di fronte allo spirito. Affinché essa parli lasciandoci presentire ciò che in essa ha valore di simbolo dell’invisibile, del non-umano, del distante, occorre una certa elevazione interna, una sottilizzata sensibilità, cioè una condizione esattamente opposta a quella presente nei moderni, nei ragazzi e nelle ragazze che “vanno in natura” ottusamente o sportivamente, distendendosi in essa come un bestiame bovino o tuffandosi in sensazioni fisiche, con al massimo qualche contorno sentimentale romantico piccolo-borghese in incontri col “pittoresco” in un senso stereotipo e convenuto.

Ma l’uomo fortificato da una vera disciplina interna, eretto e non cadente, pur non rendendosi estraneo alla vita, pur non seguendo la vita di un intellettualismo fiacco, anemico e decadentista, non si confonde con le sensazioni della sua personalità fisica. Mantiene una dignità che si lega ad una certa naturale distanza, e il suo modo di sentire, di giudicare, di aderire, di reagire è appunto da uomo – vir – e non da animale umano. Solo allora egli è normale in un senso superiore, è conforme alla sua vera natura.

Un altro aspetto tipico dell’“ideale animale” riguarda il fenomeno della moderna crisi del pudore.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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