Nell’immagine in evidenza, “Faithful unto death”, “fedele fino alla morte”, di Edward John Poynter (1865).
di Julius Evola
tratto da “Il Conciliatore”, XXI, 2, febbraio 1972, pp. 66-67
Può non essere del tutto privo di interesse rievocare alcuni ideali etici che ebbero una particolare forza e un prestigio nelle precedenti civiltà delle nostre stesse razze e furono un fattore della loro grandezza, mentre sono quasi svaniti nelle bassure del mondo attuale. Uno di essi riguarda la fides.
In latino il senso di questo termine non è la «fede», è soprattutto la fedeltà: ad un impegno, ad un giuramento, ad un patto, alla parola data, ad un vincolo liberamente accettato. Di là dal mondo soltanto umano, la fides diviene «fede» si estende alle relazioni con potenze superiori, ed allora essa fonda la religio, termine che in origine significava «collegamento»: collegamento fra l’individuo e il divino. Il presupposto esistenziale della fides nel primo senso e, nel contempo, ciò di cui essa è la manifestazione, è la virtus, non nella sua accezione moralistica o addirittura sessuale, ma in quella di fermezza interiore, di drittura.
Pertanto è alla romanità antica che ci si può riferire in primo luogo, per l’ideale in quistione. Data alla fides la figura di una dea, a Roma essa fu l’oggetto di un culto fra i più antichi e sentiti. Fides romana, si diceva già in tempi preistorici; alma fides, fides sancta, casta, incorrupta, si dirà più tardi. Essa è una caratteristica romana, afferma Livio, essa definisce il romano di fronte al «barbaro», nell’antitesi fra la norma di una incondizionata aderenza ad un patto giurato e la condotta di chi invece segue le contingenze e l’opportunità, nel segno di quella entità che allora veniva chiamata «Fortuna». Massima era l’aderenza a quella norma fra gli antichi, riferisce Servio, maxima erat apud majores cura fidei. Al suo decadere, ammonisce profeticamente un Cicerone, anche la virtus decade, il costume, l’interiore dignità, la forza dei popoli.
È cosi che la fides a Roma poté avere un suo tempio simbolico, aedes Fidei populi romani, al centro della città, sul Campidoglio, vicino al tempio del massimo Dio, di Giove. Questa contiguità ha un particolare significato. Come Zeus per i Greci, Mitra per gli Irani, Indra per gli Indiani, così Giove, rappresentazione romana di un non diverso principio metafisico, era a Roma il dio del giuramento e della lealtà. Quale dio del cielo luminoso, Lucetius, egli era anche quello dei patti giurati, dell’impegno chiaro e privo di reticenze. Si diceva: Jovis fiducia: con ciò la fides riceveva un crisma religioso e una sanzione sovrannaturale.
E questo valore si inserì anche nella realtà politica. Così lo stesso senato poté apparire come un «tempio vivente della fedeltà», fidei templum vivum, e talvolta esso si riuniva intorno all’altare capitolino della dea. D’altra parte, l’emblema più corrente per la fides fu lo stendardo e l’aquila delle legioni, e la fedeltà assunse la forma precipua di fedeltà guerriera di fronte al capo e al sovrano, fides equitum, fides militum. L’accennata interferenza con la sfera sacrale trova una nuova conferma nel fatto che a Roma esistette una enigmatica relazione fra i concetti di fedeltà, di vittoria e di vita immortale.
Alla Victoria, concepita e personificata come una entità mistica, il senato romano prestava infatti il suo giuramento di fedeltà con un rito tradizionale che fu l’ultimo a resistere all’avvento dei nuovi culti cristiani: fides Victoriae. La sintesi più suggestiva fu, a tale riguardo, una figurazione dell’epoca imperiale nella quale la Fides personificata e divinificata reca fra l’altro l’immagine della Vittoria e un globo sormontato dalla fenice; ossia dal simbolico animale delle resurrezioni, mentre in alto si vede un imperatore in atto di sacrificare a Giove, mentre è coronato dalla Vittoria.
Come col Sacro Romano Impero nel Medioevo ritornò l’idea romana, così in esso si ebbe anche una ripresa dell’etica della fedeltà, che, come un comune retaggio indoeuropeo, era propria in modo perspicuo ai ceppi germanici. Cosi trust, Treue, fides o come altrimenti venisse designato lo stesso principio, ebbero una parte essenzialissima nel mondo medievale, specie in quello feudale, di cui costituì la premessa fondamentale. Si poté parlare di un sacramentum fidelitatis e un detto del Codice Sassone, del Sachsenspiegel, fu: «Il nostro onore si chiama fedeltà», mentre nella epopea dei Nibelunghi, nel Nibelungenlied, s’incontra il detto: «Fedeltà è più forte del fuoco».
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La tradizione si continuò di là dal Medioevo soprattutto nell’area germanica, tanto che in Germania si cercò quasi, con un monopolismo unilaterale, di farne una caratteristica nazionale o di razza coniando la formula Deutsche Treue, ossia «fedeltà tedesca». Non vi è dubbio però che il concetto della fedeltà ebbe un particolare rilievo nel prussianesimo, specie nell’esercito, nel corpo degli ufficiali e nella nobiltà, e si sa che l’impossibilità, che si sentì, di violare la fedeltà al giuramento prestato fu ciò che bloccò azioni tentate contro Hitler, nonostante tutto ciò che avrebbe potuto giustificare, da un certo punto di vista, tale infrazione. D’altra parte, uno degli aspetti ascritto in positivo pel nazionalsocialismo fu il tentativo di porre proprio il principio della fedeltà, associata a quello dell’onore, a fondamento di una ricostruzione organica e antimarxista dell’economia. Nella corrispondente legislazione, di contro al classismo, alla lotta di classe e al sindacalismo, veniva postulata una solidarietà etica. L’imprenditore avrebbe dovuto corrispondere alla figura di un capo (Führer), con una corrispondente autorità e corrispondenti responsabilità, le maestranze a quella di un suo «seguito» (Gefolgschaft) a lui associato e fedele nell’attività produttiva. Un cosiddetto «tribunale d’onore» era chiamato a comporre gli eventuali conflitti.

Meine Ehre heisst Treue, “il mio onore si chiama fedeltà”. Il Nazionalsocialismo tedesco riprese e valorizzò uno dei fondamenti spirituali della tradizione indoeuropea, nella sua accezione propria ai ceppi nordico-germanici
Purtroppo nell’area latina moderna gli accennati princìpi non hanno avuto uguale forza, anche per la predominanza della tendenza individualistica. Sul piano politico-militare si ricordi il caso, nell’ultima guerra, del comportamento del Sovrano quando diede all’ambasciatore tedesco l’assicurazione formale che l’Italia continuava a combattere con l’alleato, mentre egli aveva stabilito accordi col nemico; in più, il suo contegno nei riguardi di Mussolini. Quali pur siano le circostanze contingenti e deprecabili che possono aver giustificato una simile condotta dal punto di vista pragmatico, essa non rispecchia di certo quell’etica di cui Roma antica, come si è visto, andava così fiera. Forse in Italia l’ultima manifestazione dell’orientamento in quistione la si ebbe alla fine della seconda guerra mondiale, quando un numero non indifferente di italiani non esitò a battersi anche su posizioni perdute appunto in nome del principio della fedeltà e dell’onore.
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Oggi tutto ciò appare quasi anacronistico o vale come una mera retorica, tanto prevale un tipo di uomo sfuggente e senza carattere, pronto a cambiar bandiera a seconda della direzione in cui il vento spira e mosso soltanto da un basso interesse. La democrazia è il suolo più adatto per la «cultura» di un tale tipo. In realtà, esiste una stretta relazione fra fides e personalità. La fedeltà non la si può vendere né comprare. Ad una legge si obbedisce, ad una necessità ci si piega, una convenienza la si può soppesare, ma la fides, la fedeltà, solo l’atto libero di una interiore nobiltà può stabilirla. Fides significa personalità.
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