Novità editoriale – Cinabro Edizioni pubblica Fausto Gianfranceschi

Oggi diamo ancora spazio ad una nuova iniziativa editoriale di Cinabro Edizioni, che ha ripubblicato il libro “Svelare la morte” di Fausto Gianfranceschi (1928-2012), dato alle stampe in prima edizione da Rusconi nel 1980. Gianfranceschi, scomparso nel 2012, è stato un importante scrittore e giornalista: cattolico di area missina, fece parte in gioventù del gruppo di ragazzi che frequentarono Julius Evola nei turbinosi anni del dopoguerra in cui la destra italiana, parlamentare e movimentista, cercava una sua identità, e rimase coinvolto suo malgrado nella vicenda del processo ai F.A.R., a conclusione del quale, nel 1951 il Tribunale di Roma lo condannò ad un anno e undici mesi di reclusione. Nel 1957 Gianfranceschi divenne presidente nazionale della Giovane Italia; abbandonata la politica attiva nel 1966, proseguì la  prolifica attività di scrittore e giornalista, già avviata in precedenza: in particolare, per oltre vent’anni curò la terza pagina culturale de “Il Tempo”, celebre quotidiano romano con cui aveva già collaborato negli anni Cinquanta, periodo in cui aveva scritto su svariate riviste di orientamento conservatore. Sulla terza pagina de “Il Tempo” Gianfranceschi diede spazio ad autori come Augusto Del Noce, Mario Praz, Ettore Paratore, Franco Cardini, Marcello Veneziani e Paolo Isotta. Negli anni Novanta fu editorialista del Giornale. Nel frattempo, si era segnalato per svariate opere come saggista e narratore, in cui analizzò la società italiana del dopoguerra dagli anni del boom economico fino al post-tangentopoli, mettendo in evidenza ipocrisie, angosce esistenziali e costumi dell’italiano medio, nonché le rovine e le manchevolezze della classe politica e del mondo intellettuale italiano.

Gianfranceschi perse prematuramente due figli: Gianni e Federica. Dopo la scomparsa del figlio scrisse proprio l’opera “Svelare la morte”, pubblicata come abbiamo detto da Rusconi nel 1980 e che Cinabro Edizioni ha appena ridato alle stampe, impreziosita da una prefazione di Marcello Veneziani; dopo la scomparsa della figlia, pubblicò, nel 2008, un libro di memorie, “Federica. Morte di una figlia”, per la Casa Editrice Pagine.

Per celebrare questa ennesima, lodevole iniziativa editoriale di Cinabro Edizioni, pubblichiamo due brevi articoli dell’autore, legati al suo rapporto con Julius Evola. Il primo, L’influenza di Evola sulla generazione che non ha fatto in tempo a perdere la guerra, costituisce uno dei saggi inseriti nell’opera “Testimonianze su Evola”, Edizioni Mediterranee, prima edizione 1973. Il secondo articolo, In carcere con Evola, è tratto dall’opera “Il filosofo in prigione” di Guido Andrea Pautasso, Editore OAKS, pubblicato nel 2021, che raccoglie documenti e testimonianze sul Processo ai F.A.R., che vide com’è noto Evola inquisito come “mandante ideologico”. Ricordiamo che RigenerAzione Evola ha dedicato nel 2016 a questa vicenda giudiziaria degli approfondimenti, con una premessa e la successiva pubblicazione dell’autodifesa di Evola e dell’arringa dell’avv. Carnelutti.

Prima dei due articoli, riportiamo la scheda del volume, che potete acquistare qui, sul sito di Cinabro Edizioni.

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Fausto Gianfranceschi – Svelare la morte – Pagine 134 – euro 15,00  Prima edizione: Rusconi 1980; Seconda edizione: Cinabro Edizioni 2023 Collana: Paideia

Il libro
Nel mondo contemporaneo esiste un colpevole divieto di nominare la morte. Ha scritto, invece, Octavio Paz: «Le sole grandi civiltà sono quelle che riconciliano la vita con la morte. Bisogna che l’idea della morte ritorni nel cuore della vita». Questo trascinante saggio di Fausto Gianfranceschi studia, in forma rapsodica, il senso della morte e il suo tabù. La morte come fondamento della ricerca dei limiti naturali altro non è che il compimento della vita. Chi scruta la morte scopre l’azione dell’invisibile nel mondo, la virtù metamorfica della realtà. Il riconoscimento della morte svela il senso del bene e del male, disseppellisce il frutto che dà il nutrimento della conoscenza. Fare della morte un tabù sconveniente, sconsacrare la morte, circoscrivere diabolicamente la morte nell’ambito dell’inesistenza, ridurla ad una probabilità o ricorrenza statistica, significa, invece, legittimare il disordine e la violenza. Accettare la morte significa addomesticarla. Disconoscerla signfica renderla selvaggia. Occultando la morte – asserisce l’autore – se ne vuole occultare la forza metaforica. La morte non ha soltanto un significato pauroso; ne ha molti altri: come paradigma dei limiti invalicabili; come immagine della deperibilità dell’esistenza; come segno della corruzione umana; ma anche come pietra di paragone delle differenze, delle qualità, della forza d’animo, della coscienza personale, della serenità interiore, dell’eroismo. Fausto Gianfranceschi dimostra che il disconoscimento ideologico e verbale della morte è parallelo al disconoscimento materiale della vita, ossia che la morte innominata, nascosta, diventa più facilmente padrona delle coscienze e dei corpi. Queste pagine compongono, dunque, non tanto un libro sulla morte, quanto un libro sulla vita (dalla quarta di copertina della prima edizione).

L’Autore
Fausto Gianfranceschi (Roma, 15 febbraio 1928 – Roma, 19 febbraio 2012), scrittore e giornalista, è stato caposervizio per le pagine culturali de Il Tempo e ha diretto per primo Intervento, la rivista culturale fondata da Giovanni Volpe. Ha pubblicato diversi saggi e romanzi (Il sistema della menzogna e la degradazione del piacere, 1977 ripubblicato nel 2022 da Iduna), alcuni dei quali premiati (L’ultima vacanza 1972: Premio “Un libro per l’estate”), e curato le introduzioni critiche di diverse opere (tra cui Biondo era e bello di Mario Tobino, 1979). Giovane militante ed esponente della destra rivoluzionaria e nostalgica, ha patito il carcere per le sue idee contro il suo tempo. Polemista e narratore sanguigno e diretto (Stupidario della sinistra, 1992; Il Reazionario, 1996), Marcello Veneziani (La Verità, 2022) ha scritto della «sua fierezza stoica e cristiana» che «fece di lui un maestro di carattere e di coerenza, che visse la propria vita come milizia».

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di Fausto Gianfranceschi

L’influenza di Evola sulla generazione che non ha fatto in tempo a perdere la guerra

tratto da “Testimonianze su Evola”, Edizioni Mediterranee (1973)

Queste sono frammentarie annotazioni personali, che non pretendono di avere il valore di una testimonianza nei confronti di un’epoca (un quarto di secolo fa); sono il ricordo di uno stato d’animo, il mio, che forse era condiviso anche da altri; anzi ero certo che così fosse, ma non posso qui disegnare il ritratto di una generazione, che richiederebbe ben altro impegno e ben altro spazio.
Un giorno bisognerà scrivere la storia di quelli che, per la loro età (essendo nati poco prima del 1930), non fecero in tempo a perdere la guerra, o riuscirono a parteciparvi, in gran parte volontari, appena per pochi mesi, quando essa già appariva inevitabilmente perduta. Negli anni immediatamente dopo il 1945 costoro formarono una singolare categoria psicologica, numericamente modesta rispetto alla categoria di quelli che, stando dall’altra parte, avevano vinto o fingevano di crederlo.

Fausto Gianfranceschi

Per noi non era così. Qualcosa ci separava dagli altri, ed era l’amarezza, ma anche un’elettrizzante tensione che forse ci faceva sentire più vivi in quella condizione di sconfitti. Sconfitti e tuttavia decisi a non rinunciare al nostro modo di percepire la realtà.
Erano ancora piuttosto rozze le intuizioni che ci univano. Innanzitutto un elementare senso dell’onore che ci impediva di apprezzare la maniera in cui il nostro Paese aveva cambiato fronte durante la guerra; una guerra, d’altronde, della quale noi, così giovani, non eravamo stati responsabili, e che non avevamo vissuto in tutti i suoi più oscuri risvolti. Ci avevano colpito soltanto – ma profondamente – le scene finali. Personalmente, fra tante impressioni violente di quell’epoca, credo che non potrò dimenticare l’umiliazione sofferta allo spettacolo dell’entrata a Roma delle truppe americane, quando la folla applaudiva i vincitori, si azzuffava ubriaca al lancio di sigarette e cioccolata. Avevo sedici anni, e a quell’età i dolori dell’animo sono i più forti, lasciano una traccia difficile da cancellare.

Ma qualunque fosse la motivazione di fondo delle nostre scelte, alcune cose erano certe: avevamo un atteggiamento positivo di fronte alla vita (niente di crepuscolare, di maledetto, e niente del vittimismo che oggi è una componente essenziale dell’atteggiamento dei contestatori); e qualcosa tuttavia ci vietava di integrarci nella nuova vita della nazione, che sembrava aprirsi piena di promesse. Era l’epoca della ricostruzione, sia gli idealisti sia gli affaristi potevano approfittare di innumerevoli chances.
Noi invece rimanevamo ostinatamente fedeli alla nostra guerra. Ci sembrava che troppi equivoci fossero all’origine della «rinascita»: troppo odio verso un passato di cui quasi tutti erano stati complici; troppa inclinazione allo spezzettamento dello Stato in una partitocrazia che fece subito conoscere il suo volto meno raccomandabile, e di cui era parte condizionante una grande forza, quella marxista, che chiaramente agiva per interessi e concetti estranei alla vita come alla cultura della nazione; troppo desiderio di rinuncia a ideali forti, che non fossero quelli di una piccola esistenza, d’altronde insidiata dalla spinta comunista.

A tutto questo dicevamo no; ma qual era il si che ci muoveva? Non era forse una forma di sentimentalismo tenuta in vita dall’incapacità di dimenticare? Forse eravamo vittime di un anacronistico nazionalismo? Cercavamo la chiave dell’enigma sia sulle piazze – battendoci contro la tendenza del governo alla rinuncia, e contro la prepotenza del comunismo che non aveva ancora indossato i panni perbenisti – sia sui libri.
Trascorrevamo molte ore alla Biblioteca Nazionale, e lì non ricordo chi di noi scoprì i libri di Evola, a cominciare dalla Rivolta contro il mondo moderno, nella vecchia edizione Hoepli. Fu un incontro che probabilmente decise il nostro futuro. Su quelle pagine trovammo le risposte ai nostri interrogativi. Capimmo che le nostre scelte e le nostre ripulse non erano soltato storicamente delimitate, ma si inquadravano nel modo di essere, nel carattere, di un particolare tipo umano, il quale a sua volta è segnato da forme che trascendono i dati contingenti. Trovammo una coerente e convincente interpretazione, in un grandioso disegno, di alcune radicate impressioni che ci distinguevano nettamente dagli altri: l’impossibilità di accettare la sconfitta, qualunque sconfitta, come un inappellabile giudizio della Storia, così sublime e decisivo da imporre addirittura un mutamento esistenziale; il rifiuto non solo del comunismo, ma anche dell’americanismo (i due volti di una medesima realtà moderna); il fastidio, e il disprezzo, per ogni discorso basato sull’economia, sul benessere materiale, o anche su un astratto umanitarismo; il sospetto che il comfort macchinistico e tecnologico, al cui culto ci andavamo adeguando sul modello dei vincitori, comportasse una razzia di valori ben più pregnanti; la delusione per la decadenza della filosofia occidentale, che all’inizio degli studi al liceo ci aveva appassionato, e che invece nei suoi ultimi sviluppi ci era parsa trasformarsi in un mero gioco intellettualistico.

Inoltre Evola ci liberò dalle scorie del passato cui eravamo politicamente legati, senza concessioni agli orribili luoghi comuni dell’«antifascismo», semplicemente separando, in quel passato, ciò che era il riflesso di valori permanenti da ciò che era ambigua e corruttibile contingenza. E pur non essendo Evola cattolico, paradossalmente le sue opere riuscivano, in chi di noi lo era, a rafforzare la convinzione che la filosofia perenne della Chiesa fosse l’unica forma di pensiero vivente o istituzionalizzato in grado di dettare regole di azione e di giudizio a chi si lasciasse affascinare dalle ideologie materialiste.

Il palazzo dove abitò Julius Evola a Roma, in Corso Vittorio Emanuele n. 197

Dopo aver conosciuto i libri, conoscemmo l’uomo: prima nell’ospedale di Bologna dove era degente per un trauma subito durante un bombardamento a Vienna, poi nella sua casa romana, dove vive ancora oggi, senza essere mai guarito da quella grave infermità. Fu una conferma ed una lezione di vita, un eccezionale esempio di coerenza fra le idee professate e il modo di vivere; non nel bel gesto, non nell’abilità di giustificare magari in buona fede i piccoli compromessi con le esigenze di una superiore strategia, ma nell’eroismo estenuante del giorno per giorno. Ciò per Evola ha voluto dire l’assoluto disinteresse verso ogni forma di consenso. Nella misura in cui i suoi libri smascheravano i veri tabù della nostra epoca, egli sentiva crescere intorno a sé il silenzio della cultura ufficiale, un silenzio che significa soprattutto solitudine; e tuttavia non ha mai fatto nulla, assolutamente nulla, per incrinare questa congiura e per ottenere anche in minima parte il riconoscimento che il valore della sua opera merita. Era un esempio che ci confortava nel nostro sentirci diversi, insensibili ai miti volgari del dopoguerra.

So che anche Evola fu contento di averci incontrato. Per noi scrisse Gli uomini e le rovine, che uscì presso un piccolo editore nel 1953, come orientamento e come avallo della nostra decisione a contrastare la massiccia presenza di un mondo che sembrava e sembra tuttora invincibile, fra tutti i «maestri dello spirito» che abbiamo conosciuto prima o dopo di lui, egli infatti era ed è l’unico a non indicare soltanto la via del misticismo, a non disprezzare l’azione; a patto che non sia fine a se stessa, che non si sia trascinati da essa ma la si determini, e che non la si leghi all’idea di successo, ma valga soprattutto come testimonianza o come espressione di un inconvertibile modo di essere.
Ho voluto qui ricordare alcuni elementi di un incontro esattamemente collocato nel tempo, nei primi anni del dopoguerra. Sono tuttavia convinto che tale incontro, con apporti non identici ma analoghi, si sia rinnovato e continui a rinnovarsi. Sono convinto che forse mai come oggi il magistero di Evola è di eccezionale importanza per chi si affaccia a una vita consapevole. Esso offre la più potente vaccinazione contro tutti i feticci del materialismo e del progressismo che si fanno ogni giorno più assordanti; esso insegna la vera contestazione, nel momento in cui la falsa contestazione è una modo utile soprattutto a chi sembra più contestato; esso indica infine le vere vie dello spirito, nel momento in cui il falso spiritualismo offre ambigue evasioni a chi altrimenti potrebbe utilizzare con più efficacia le proprie energie.
Tutto questo mi induce a credere fermamente che in un futuro forse non molto lontano, quando e se finirà quest’epoca spiritualmente e intellettualmente oscura, Evola sarà riconosciuto come il più forte e coraggioso pensatore del nostro secolo.

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In carcere con Evola

tratto da “Il filosofo in prigione” di Guido Andrea Pautasso, Editore OAKS (2021)

In altre precedenti occasioni ho avuto modo di descrivere il provvidenziale incontro fra Evola e quei giovani che affrontavano l’immediato dopoguerra con la dolorosa amarezza della sconfitta e delle brutte vicende ad essa collegate. La nostra reazione era politica e psicologica: non apprezzavamo il regime democratico asservito ai vincitori, rifiutavamo l’alternativa pseudo-rivoluzionaria del comunismo, anch’esso asservito a una potenza straniera e culturalmente alieno.
L’incontro con le opere di Evola avvenne in biblioteca, e fu per noi una rivelazione. La nostra protesta, la nostra contrarietà, per cosi dire istintive (ma in realtà indotte da sentimenti educati con gli studi classici), ricevevano dai libri di Evola – specialmente da Rivolta contro il mondo moderno – un’ulteriore dignità, un’ulteriore investitura, che le collocava nell’alveo di una grande tradizione spirituale.

La conoscenza attraverso i libri si trasformò presto in conoscenza diretta, quando Evola tornò in Italia alla fine degli anni Quaranta. Ricordo che, tra noi giovani romani, per primi lo andammo a trovare nell’ospedale di Bologna dove era ricoverato, Fabio De Felice e io. Fu il primo contatto che Evola ebbe con la nuova realtà giovanile italiana, destinato a diventare un incontro allargato continuo nella casa romana del filosofo, in Corso Vittorio Emanuele. Evola ne fu molto confortato e sollecitato: per noi scrisse l’opuscolo Orientamenti da cui poi trasse il volume Gli uomini e le rovine. Per noi fu una conoscenza illuminante: non soltanto per gli spunti che ricevevamo dalle conversazioni con lui, sia anche per l’affascinante esempio di superiore, serena dignità in un personaggio di quel calibro, malato e completamente emarginato.

Benché Evola ci incitasse sempre all’azione interiore piuttosto che all’attivismo, alcuni di noi si trovarono implicati in azioni «clandestine». Nella primavera del 1951, di ritorno da un convegno politico internazionale in Svezia, io venni arrestato per quello che, celebrato nel successivo autunno, fu definito il “Processo dei F.A.R.”. Nella questura di Roma, in via San Vitale, fui interrogato da un giovane funzionario, Federico Umberto D’Amato (1), destinato a salire in alto e a diventare uno dei personaggi più oscuri e ambigui della Prima Repubblica. Fu allora che, nonostante l’abilità di D’Amato, compresi una cosa fondamentale: qualsiasi attività clandestina è sempre “infiltrata”, quindi eterodiretta.

A un certo punto degli interrogatori, siccome io negavo ogni addebito, D’Amato mi disse che se non confessavo lui avrebbe fatto arrestare anche Evola: e la minaccia fu subito messa in atto (probabilmente Evola sarebbe stato arrestato comunque, ma D’Amato mi presentò preliminarmente l’arresto come un’opzione, per intimidirmi).
Io continuavo a negare, e D’Amato mi rivolse una seconda minaccia; avrebbe fatto arrestare anche mia moglie, incinta, che era stata fermata con me e poi lasciata in libertà, con una minaccia di aborto (2). Visto il precedente di Evola, gli credetti, e confessai tutto quello che voleva. D’altronde non si trattava di niente di criminale né di disonorevole: erano pacchetti di volantini rivendicanti l’italianità di Trieste (allora non ancora restituita all’Italia), che scoppiavano con una piccola carica di notte davanti ai luoghi istituzionali, senza recare danno né alle persone né alle cose: uno scherzo, al paragone con gli eventi spaventosi degli anni di piombo.

Tuttavia il regime imbastì un grande processo con trentasei imputati (alla fine le condanne massime furono di anno e undici mesi, per me, per Clemente Graziani e per Franco Dragoni) nel quale Evola aveva il ruolo di mandante ideologico (assolto con formula piena). Sia l’autodifesa di Evola sia l’arringa conclusiva del grande Francesco Carnelutti rimangono come documenti esemplari di denuncia del primo processo, nell’Italia democratica, a un filosofo accusato per le sue idee.
In quelle vicissitudini avemmo modo di ammirare ancora di più le qualità umane (o sovrumane) di Evola. Benché per nostra colpa, certamente involontaria, egli si trovasse incarcerato – malato com’era, veniva portato nell’aula giudiziaria in barella – mai egli minimamente ci fece pesare le nostre responsabilità. Lo considerava un «incidente», come la bomba da cui a Vienna era stato paralizzato, che non toccava l’interiorità dove si svolgeva la sua vera vita. Una lezione che non ho mai dimenticato, forse superiore a quella dei suoi libri, ovvero totale incarnazione del pensiero nel rango esistenziale.

Note

(1) Federico Umberto D’Amato entrò in polizia durante la Seconda Guerra Mondiale e venne nominato vicecommissario di Pubblica Sicurezza a Roma. Dopo l’8 settembre 1943 lavorò alle dipendenze di James Angleton per l’Office of Strategic Services americano compiendo operazioni di controspionaggio. Nel 1945 fu assegnato all’Ufficio Politico della Questura romana diventando dirigente all’inizio degli anni Cinquanta (vedi Giacomo Pacini, La spia intoccabile, Federico Umberto D’Amato e l’Ufficio Affari Riservati, Einaudi, Torino, 2021; segnaliamo che nel volume non viene accennata la vicenda dei F.A.R. E del processo a Evola).

(2) La circostanza è confermata dalla cronaca processuale: vedi Uno che c’era, Il processo ai giovani in “Asso di Bastoni. Settimanale anticanagliesco”, anno IV, n. 44, Roma 4 novembre 1951 – VIII (dei puzzoni), p. 4, ora a pp. 260-263.



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