Nuova essenzialità: il manifesto della gioventù post-nichilista (seconda parte)

Seconda parte dell’articolo di Julius Evola pubblicato su “La Rassegna Italiana” nell’aprile 1933, intitolato “Neue Sachlichkeit” – una confessione delle nuove generazioni tedesche“, incentrato sull’omonimo movimento giovanile tedesco, il cui testo di riferimento era Jugend bakennt: So sind wir! di Frank Matzke, di cui Evola propone svariati estratti.  Il tema affrontato è quello, carissimo ad Evola, dell’esperienza, del contatto con l’elementare, con il primordiale, e con quella dissoluzione, con quello svuotamento, generato dallo sprigionarsi delle relative forze, che può condurre ad esiti potenzialmente liberatori in senso superiore per l’uomo, nella riscoperta di una oggettività, di un’essenzialità estrema, o distruttori-disgregatori in senso inferiore. Questa “nuova oggettività”, “nuovo realismo” o “nuova essenzialità” nello specifico, era collegata all’effetto che l’esperienza della Prima Guerra Mondiale, e quindi il contatto con le forze elementari scatenate dalla guerra, nella versione forse più cruda della storia fino a quel momento (e che sarebbe stata superata dalla Seconda Guerra mondiale, i cui esiti sarebbero stati però del tutto rovesciati) aveva prodotto nella gioventù europea.

Rimandiamo all’introduzione alla prima parte per ulteriori approfondimenti sul tema e sui suoi sviluppi e implicazioni; da notare che in questa seconda parte Evola, forte delle ampie citazioni dall’opera-manifesto di Matzke, affronta alcuni punti cruciali, e talvolta critici (sulla linea di confine nel nichilismo, dell’immanentismo e del solipsismo) di questa visione: dall’approccio asettico a Dio, alla Fede ed alla trascendenza, al rapporto con la tecnica e le macchine, con chiari lampeggiamenti jüngeriani, all’assoluta irrilevanza di qualsiasi tipo di mediazione (affettiva, letteraria, artistica, filosofica, mistica, ecc.) nell’approccio al reale, fino a riferimenti all’architettura, e ad altri punti di grande interesse.

Da notare la parentesi sul Realismo sovietico (su cui torneremo), che avrebbe ridestato la vera “anima russa”, o meglio, “della razza slava”, sborghesizzandola rispetto ai tentativi di “occidentalizzazione” operata dagli Zar; anima “primigenia” dei popoli slavi che, notoriamente, Evola ed altri interpretavano e ricostruivano in modo assai negativo. Per un diverso angolo visuale al riguardo e un ampio approfondimento sul tema dell’anima russa e delle alterazioni occidentali e non solo, partendo dall’analisi di Oswald Spengler, rimandiamo alla parte finale (IV parte, suddivisa a sua volta in quattro capitoli) della lunga intervista a puntate con Elio Della Torre.

***

“Neue Sachlichkeit – una confessione delle nuove generazioni tedesche”

di Julius Evola

Tratto da “La Rassegna Italiana”, aprile 1933

Segue dalla prima parte

Ora, passeremo ad accennare l’efficienza della neue Sachlichkeit nei domini della cultura in senso proprio. Ma prima, è da rilevarsi che secondo il nostro parere sbaglierebbe chi credesse di trovarsi dinanzi ad un semplice materialismo o a qualcosa di analogo alla mentalità bidimensionale e antimetafisica d’oltre oceano. Nell’esteriorità, possono esservi dei punti di contatto: il senso, però, è notevolmente diverso. L’anima nordica, a differenza di quella americana, ha tutta una sua tradizione d’interiorità che non può esser liquidata con un sol tratto.

A noi sembra che la neue Sachlichkeit non è l’eliminazione del metafisico, ma piuttosto il suo coincidere con la realtà in un esatto equilibrio di contenente e di contenuto. Come diremo, quasi un nuovo classicismo, un nuovo paganesimo dorico riaffiora sotto specie nordica, forse più duro, meno armonioso, meno luminoso, più serio ed attivo ma non privo di una sua metallica, chiusa interiorità. E ciò non ha nulla a che fare con la semplificazione praticistica e piatta anglosassone. La forma chiusa, inequivocabile, esatta di un oggetto fisico alle nuove generazioni nordiche non vale materialisticamente, ma piuttosto come simbolo per una tenuta dello spirito. L’indefinito dei sentimenti e delle effusioni non è tanto respinto per aridità, quanto sotto l’efficienza pratica di un ideale simile a quello classico della virtus, per una volontà di forma, per una passione per ciò che è forte, chiaro e semplice ad un tempo. Matzke ama il mondo della tecnica, ma come l’espressione di una «volontà dell’adeguato”: Wille zum Adaequaten», alle macchine in sé stesse restando indifferente come dinnanzi ad un coltello o una forchetta: vi apprezza il criterio della minima dispersione di forza e della via più diretta ma – ancora una volta – non per amore della comodità. Bensì per passione di chiarezza e di oggettività, per odio verso tutto ciò che è superfluo, che va nel vuoto, che è spinta senza oggetto (3). Infine, se si cerca e ama nella natura l’inumano della nuda Sachlichkeit, se si ha disgusto per il precedente culto dell’interiorità e della psicologia, non è per dar luogo ad un culto veristico o positivistico per la materia, ma perché più forte di ogni altra è la sensibilità per qualcosa che sia di più che non soltanto umana.

Su questa base va anche compresa la grande rinuncia a cui la nuova gioventù nordica si avvia: la rinuncia a credere. 

Affermiamo l’esistenza di Dio? La neghiamo? Né l’una cosa, né l’altra. Questi problemi per noi hanno perduto ogni senso: non li comprendiamo più, ci sono lontani. Non siamo né devoti, né romantici denegatori di Dio, meno che mai «liberi pensatori». Non siamo nemici delle Chiese. Tutte le religioni ci sembrano degne, ma tutte ci sono divenute in egual modo straniere, quanto i grandi sistemi metafisici. Consideriamo ancora le une e gli altri solo come opere d’arte, ovvero come fasi della realtà storica. Per noi tutto riposa in sé stesso, tutte le cose ci sono in egual misura vicine e lontane – così beatamente estranee e mute – e noi stessi andiamo fra di esse, agendo e contemplando. I nostri occhi si volgono da tutte le parti e verso tutti gli oggetti: i nostri cuori possono pur essere pieni di gioia o di tristezza, di elevazione o di miseria, ma siamo sempre soli. Non ci sentiamo più sotto gli sguardi di un Padre, ma sulla nuda terra. Nulla in noi ci parla più di Dio, né nella gioia né nel dolore. Noi abbiamo perduto Dio e la fede in lui, perduto nel senso letterale della parola. Ci si chiamerà impoveriti nello spirito: ma ci si può chiamar poveri per la mancanza di una cosa che in noi nulla più chiede? Non abbiamo un Dio, pure non siamo senza di lui, né ci sentiamo sdivinificati, wir haben keinen Gott, aber wir sind weder gottlos noch entgōttert” (4).

Questo stesso fenomeno caratteristico di caduta di ogni appoggio che pur non produce un vero e proprio crollo, si ripete in altri campi. Come è indifferente rispetto ad ogni fede, così questa nuova generazione nordica, senza volerlo, sperimentandolo come dato di fatto, non ha più che una scarsa sensibilità e che uno scarso interesse per le costruzioni filosofiche. Non sopravvaluta più il pensiero: al «pensatore» toglie quel primato e quel culto, che esso aveva goduto nelle epoche precedenti. Preferisce saper di non sapere che credere o speculare. L’investigazione di un «senso» o di una «essenza» dietro al mondo, essa non sa più che cosa voglia dire. Ogni «sintesi cosmica» le sembra vana e a buon mercato.

Noi oggi possediamo una sicurezza nella vita, a cui non precede nessuna giustificazione metafisica o religiosa. Privi di ogni sfondo trascendente, non siamo per questo travolti e non ne soffriamo: agiamo, pensiamo, combattiamo come quelli che invece ne avevano uno e che per vivere avevano bisogno di un «senso» della vita. Noi, per la nostra azione non ci attendiamo un compenso, di nessuna sorta. La morte degli déi non ha fatto di noi né degli epicurei, né dei materialisti, né degli scettici in senso passivo, nemmeno degli asceti o degli apatici contemplativi. Agire ci piace, e sentiamo che v’è molto da fare intorno a noi. Viviamo in una specie di eroismo quotidiano, privo di fanfare e di colorazioni romantiche o titaniche. Amiamo subordinarci ad un compito, ad uno scopo, fino al disprezzo della nostra persona, ma a ciò non ci occorrono sostegni: è l’etica del trasvolatore di oceani, dell’uomo di sport, dello scienziato: «che io soccomba pur che sia raggiunto l’oggetto al quale mi consacro»; è l’etica, anche e soprattutto, del buon soldato, il quale non chiede il «significato ultimo», la «giustificazione» e nemmeno un compenso prima di fare quel che egli deve fare, ma agisce e mantiene una rigida e silenziosa tenuta sia nell’esterno che nell’interno“.

Anche la parola «progresso» in senso ideale ci si è resa del tutto inintelleggibile – continua Matzke.

Non solo non ci crediamo, ma non sappiamo nemmeno che cosa significhi. Certo, noi constatiamo un «progresso» in domini pratici particolari, come p. es., nelle organizzazioni dei telefoni o degli ospedali. Lavoriamo per un progresso in tal senso almeno così energicamente quanto gli altri, ma non ci imaginiamo che con questo l’umanità faccia dei passi avanti. Non è che si tratti di un «pessimismo per la civiltà»: quasi che credessimo in certi valori o scopi ultimi, di cui si sia scoperta l’impossibilità a dirigere la realtà attuale o anche semplicemente l’inadeguatezza ad essa: è il senso stesso di quei valori che ci manca, quindi non v’è luogo di parlar di «pessimismo» nei nostri riguardi. Così il nostro agire è libero: intorno a sé non ha che la pura atmosfera, fredda e dura. La stessa concezione dell’essenza della «cultura» in noi si è trasformata: «cultura» è per noi la forma di un’attitudine interna, la cui grandezza si misura dalla sua unitarietà e conchiusezza: e ciò che può aver a che fare con quadri, poemi o ricerche speculative? Constatiamo che sorge un nuovo senso della vita e dell’azione nelle nuove generazioni, ma non in grazia ad una nuova «cultura» o filosofia. Esso sorge fatalmente non come un «valore» ma come uno stato di fatto, e forse essa non troverà nemmeno una espressione riflessa o artistica, perché alla nuova generazione l’«espressione» non interessa più: essa non è più una generazione «artistica» ed «espressionistica»“.

Per questa via, ecco di nuovo il tema fondamentale del «ritorno al grande mondo». Il nostro autore ci parla dell’insofferenza per il libro e per l’arte, ci indica il senso della nuova passione per lo sport, venendo incontro, qui, a qualcosa che però è lungi dall’esser contrassegno della sola gioventù a cui egli appartiene. Tuttavia – rileviamolo anche a questo proposito – sbaglierebbe di certo chi stabilisse una semplice identità fra la nuova attitudine nordica e quella che può caratterizzare lo sport all’americana.

Una differenza rispetto alla generazione che ci precedette – dice dunque Matzke – è che i surrogati o le trasposizioni della vita hanno cessato di interessarci più che la vita stessa. Più che ciò che a noi si rivela attraverso i sentimenti di altri, ci interessa ciò che ci si rivela attraverso le nostre stesse sensazioni, al sole e all’aria. Ieri si leggevano racconti di viaggi; oggi si è viaggiatori, e i nostri viaggi hanno più dell’«epico» che del «lirico»; la rapidità distrugge l’episodico, il locale, il pittoresco e il particolare delle terre che attraversiamo, non ci lega più ad esse sentimentalmente, ci desta a sensazioni vaste, unitarie, semplificate, universali, al senso di essere viaggiatori del mondo, unito a quello di uno stato di potenza e di sicurezza rispetto alle cose. Amiamo lo sport non come una moda o una nuova religione, ma perché libera le cose dall’anima, perché ci porta dal regno delle sensazioni a quello delle azioni, nella fredda e limpida aria: ad una lingua di cose e di corpi anziché di anime. Non vogliamo che dell’aria – sia pur essa ghiaccia e tagliente – e gli aspetti duri del mondo, senza attenuazioni. Vogliamo essere svegli, e non dei sognatori dalle belle parole. Anzi, propriamente, non «vogliamo» nemmeno: noi non potremmo essere altrimenti.
Così discorsi come quelli, che l’arte sia la suprema fra le possibilità umane, ci sono divenuti incomprensibili. Siamo divenuti troppo seri, e l’arte non può bastar più a questa serietà. Contestiamo tutto ciò che fu detto circa l’arte quale rivelatrice dell’essenza del mondo: queste, erano belle parole, che però mai furono confortate da una prova. L’arte è un volteggiare intorno alle cose, non un penetrare il nocciolo di esse. «La vita è seria, l’arte è vana»; noi comprendiamo di nuovo queste parole di Schiller“.

“Lichtgebet” (preghiera alla luce) di Hugo Höppener detto Fidus (1894)

Segue da ciò che al luogo della compenetrazione fra arte e vita, si chiede la più netta separazione fra l’una e l’altra: si cerca – come dicemmo – una sensazione delle cose senza l’intermediario dell’anima artistica del proprio prossimo: la sensazione delle cose come grandi, lontane, indipendenti dal tempo e dall’uomo. Si chiede che esse parlino all’uomo, e non più l’uomo parli ad esse attraverso il proprio traboccare. Nel migliore dei casi si dà all’arte – schlegelianamente – un valore di ironia, di pura forma: è una cosa a sé, a lato.
Ecco perché:

oggi preferiamo anzitutto andare all’aria libera, solo dopo, se ce ne resta tempo e voglia, in una biblioteca o in un museo. Si deve chiamar questo un progresso o un regresso? Non lo sappiamo, e in fondo queste parole ci sono estranee. Sappiamo soltanto che è altra cosa di ciò che era prima e che con questo noi non ci sentiamo né più poveri, né più infelici. Il nostro senso dell’esistenza si forma oggi nelle fabbriche e nelle case, non nei musei: esso è più rapido, più chiaro, più unitario. Nelle città, sui fiumi o sulle vette ci troviamo a nostro agio, non fra i libri o nei teatri. Intorno a noi, sopra di noi sta il mondo reale, inesorabile, grande, privo di anima, e le poesie e i quadri sono solo una minima parte di esso. Il mondo è grande ma i poemi son brevi e i quadri angusti. Non possiamo porre l’opera dell’uomo al disopra di quella di Dio e per questo noi siamo «senza una cultura» – kulturlos – e i Francesi possono pur dir di noi Tedeschi: barbari“.

Anche il rapporto dell’uomo con sé stesso, cioè con l’«anima», subisce la trasformazione in senso di neue Sachlichkeit. La passione per l’introspezione, per l’introflessione, per l’analisi dei propri pensieri e dei propri sentimenti portata sino a quei limiti di morbosità di cui, dopo i Russi, uno Joyce e un Proust sono esponenti così caratteristici nel mondo moderno – son cose di cui la nuova generazione non sa nulla. Essa, per così dire, non guarda più l’anima dall’interno, ma la guarda dall’esterno, con spassionatezza, così come si possono guardare le cose del mondo esteriore quando una luce chiara ne fa risultare ben netti e crudi i contorni. Nessun intermediario affettivo, letterario o mistico si interpone più fra la coscienza e i contenuti della coscienza. Da qui, una attitudine di sincerità, la distruzione di ogni narcisismo individualistico, di ogni complicazione, di ogni maschera.

In ultima analisi – dice Matzkeanche la vita dell’anima vale per noi al titolo di una cosa, di un dato esistente, con gli stessi attributi di estraneità, di lontananza e di fatalità. Più che guardar il mondo dall’anima, dal mondo guardiamo l’anima. E allora tutto ci sembra più chiaro, più naturale, più evidente e tutto ciò che è soltanto soggettivo ci appare sempre più irrilevante, più ridevole, anche quando noi viaviamo mutamente quelle stesse passioni, quelle stesse brame, quelle stesse sofferenze e quelle stesse lotte che negli altri fecero scaturire le cosiddette grandi grida dell’umanità tragica. Nei riguardi di ciò che si manifesta dall’interiorità creatrice degli uomini, ci interessa poi unicamente quel che essi sanno esprimere non attraverso sentimenti, ma attraverso cose, con chiarezza, freddezza e oggettività: Sachlichkeit; la cui forma è grande, stabile, precisa, ad ampi tratti e di ferma struttura; che tradisce la volontà costruttiva del suo creatore e non i suoi sentimenti privati; che sprizza dalla grande calma ed immobilità del mondo e non dai piccoli dolori dell’Io: il monolitico, l’elementare, l’aspro, il monumentale“.

***

Di nuovo in queste ultime parole torna il tema, quasi come di una risorta volontà classica. E noi crediamo che appunto questo sia il segreto di ciò che nella neue Sachlichkeit tedesca vi è di positivo, anche nei confronti di altre tendenze, che certamente si agitano a lato di quella di cui attraverso le parole del Matzke abbiamo imparato a conoscere lo spirito.

Il celebre ingresso monumentale del Rettorato dell’Università La Sapienza di Roma, opera di Marcello Piacentini

Di là dal «crepuscolo degli dei», di là dalla fiammata della guerra e dalle miserie del dopoguerra, risorge dunque nelle forme di un’estrema, dura modernità lo spirito di un nuovo paganesimo attivistico (5). Esso non abita dunque più templi mediterranei, solatie isole joniche, chiarità laziali, ma un nuovo mondo in cui vive il demonismo della macchina, ove una nuova strana architettura là dove furono le romantiche, nebbiose selve nibelungiche distrugge definitivamente l’anelito gotico in rettilineità implacabili, in forme costruttive razionali e nitide, fatte più di vetro e di metallo che non di muro, nude e severe come un’ascesi. Esso non riflette più la giovinezza e la gioia, ma la serietà della vita, maturatasi sotto l’elmo d’acciaio come ieri sotto la cappa moacale. Esso non è più epico pindaricamente, i giuochi, agoni e aeree danze, ma lo è nel teatro del gran mondo delle cose, sopra gli oceani, presso al silenzio delle cime gelate o degli orizzonti desertici, su lucide macchine divoratrici del vento o negli interni nordici purificati da ogni decorazione, nudi e chirurgici sino ad uno squallore arcaistico. Ed esso è definitivamente chiuso ad ogni residuo di sottile melanconia e di nostalgica evasione.

«Ciò che non ci spezza, ci rende più forti; ciò che non si consuma, ritrova la sua purità».

Un’epoca si chiude: l’epoca romantica. Il fuoco ha distrutto ogni scorza, ha messo a nudo le essenze. Insieme alla Germania, un’altra razza è giunta in fondo a questo processo: la Russia. Anche là vi è della neue Sachlichkeit. Anche là si vuol liquidare l’anima e l’Io, qualificati come «pregiudizi dell’era borghese». Anche là tutto ciò che è soggettivo, arbitrario, personale, ideologico e sentimentale viene considerato come una escrescenza irrazionale e malefica, che opportuni processi di razionalizzazione e di meccanizzazione curati dallo stato onnipotente penseranno ad estirpare. Anche là si tende ad un mondo impersonale, di cose più che di uomini, primordiale, nudo, privo di cieli. Ma in Russia, scalzate le superstrutture, ciò che è venuto a vivo come nel senso della sua neue Sachlichkeit, è l’antica anima barbara della razza slava, finalmente liberata dal tentativo di civilizzazione europea intrapresa da due secoli dagli Zar: è la razza dei senza volto, è la «bestia senza nome», l’«uomo collettivo» acefalo e poliartico sotto specie di meccanismo economico, in nome del quale tutti coloro che credono nella «civiltà sovietica» hanno sacrificato e per sempre distrutto tutto ciò che li faceva esseri distinti e indipendenti (6).

Nella Germania è invece il senso chiuso dell’Io proprio ad un’antica paganità guerriera – a quella stessa di cui le schiere hitleriane oggi nella nera Croce uncinata, segno del fuoco ardente da sé stesso e del sole che sorge, rievocando il simbolo, che il cristianesimo nel medioevo feudale mai seppe interamente piegare e che affiora infine, sia pure in surrogati intellettuali, nel gruppo delle grandi filosofie idealistiche – è questo stesso senso che risorge, semplificato, metallizzato, portato come una cosa semplice e inalienabile anche là dove regna il demone della civiltà cosmopolita, quale anima e centro della neue Sachlichkeit nordica.

Quale sarà il destino di queste nuove generazioni? Quale l’epoca che esse preannunciano e a cui si sforzano di preparare le vie? Quale il suo significato rispetto all’Europa e alla sua tradizione, su cui incombe un doppio pericolo, ad Oriente la Russia, ad Occidente l’America? Solo il futuro – un futuro forse assai prossimo – potrà dare la risposta a queste domande. Matzke scrive: «Noi sappiamo di non essere che un’onda in una corrente che è senza principio né fine e la cui essenza è il suo stesso rapido fluire. Ma quest’onda – la nostra onda – è quella che ora sta più in alto. Noi procediamo verso una vetta, la quale intorno a sé per ora non ha che valli».

***

Note dell’autore

(3) Matzke rileva la differenza dell’attitudine nuova rispetto al mondo della macchina, sia di fronte a chi ne faceva l’apoteosi e si imaginava che esso avrebbe aperto le vie del «progresso» (mentalità dei balletti Excelsior); sia di fronte a quelli che più recentemente nella macchina hanno veduto una specie di mostro apocalittico, autore della decadenza della civiltà (miti alla Metropolis). Anche nei riguardi della macchina l’attitudine della nuova generazione sarebbe di freddezza e di indifferenza. Essa se ne serve come di una cosa naturale, e non si altera dinanzi alle più miracolose escogitazioni tecniche più di quel che non lo faccia per la forchetta o il coltello che ogni giorno ha sottomano.

(4) Può essere interessante accennare come l’amore per la neue Sachlichkeit porti il Matzke ad apprezzare – dal punto di vista dello stile – più il cattolicesimo che il protestantesimo. Nel cattolicesimo – egli dice – le eccitazioni private dell’anima in colloquio diretto con «Dio» non contano molto. Esser cattolico, significa esser membro di un grandioso esercito mondiale i cui capi supremi ci stanno lontani. Nel protestantesimo tutto è caldo e herzlich; nel cattolicesimo tutto è freddo e rigoroso, si è in un regno dell’ordine, del comandare e del servire, dalla forma stabile e dalla dura costruzione. Qui l’anima non si esprime in forme immediate e sentimentali, ma parla attraverso cose, attraverso segni e simboli, epperò sachlich. Cattolicesimo è distanza; protestantesimo è vicinanza e intimità. – Naturalmente qui resta fuori discussione fino a che punto il cattolicesimo possa riconoscersi in questa sua interpretazione, nella quale è evidente che si apprezza più l’elemento pagano-romano di esso che non l’originario elemento fraternalistico – devozionale del fermento cristiano.

(5) Qui ci siamo astenuti dall’indicare quali più vaste correnti, anche fuori dall’ambito della nuova generazione tedesca che nel libro del Matzke professa la propria fede, nel mondo moderno siano portatrici di questo stesso motivo. A tal riguardo, vedere il nostro saggio su Superamento del Romanticismo nei nn. 1 e 2 del 1931 di Vita Nova.

(6) Per questa comprensione della Russia sovietica, cfr. il nostro saggio Americanismo e Bolscevismo in Nuova Antologia, n. 10 (1° maggio) del 1928.



A proposito di...


'Nuova essenzialità: il manifesto della gioventù post-nichilista (seconda parte)' has no comments

Vuoi essere il primo a commentare questo articolo?

Vuoi condividere i tuoi pensieri?

Il tuo indirizzo email non verrà divulgato.

"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

Tutto quanto pubblicato in questo sito può essere liberamente replicato e divulgato, purché non a scopi commerciali, e purché sia sempre citata la fonte - RigenerAzione Evola