di Julius Evola
Tratto da “La Vita italiana”, novembre 1933
Il discorso recentemente tenuto da Adolf Hitler in occasione della tornata culturale del partito nazional-socialista a Norimberga, riprodotto dalla stampa germanica sotto il titolo: Professione di fede eroica, merita, a nostro parere, attenzione, per gli elementi da esso offerti in ordine alla comprensione di quella famosa dottrina della razza che, come è noto, giocca una parte così importante nell’ideologia della rivoluzione crociuncinata. Si tratta infatti di espressioni ufficiali del capo di questo movimento, quindi tenute ad esprimere nel modo più ufficiale e univoco ciò che di detta dottrina viene assunto dal nazional-socialismo. Noi qui riporteremo i concetti principali precisati dal Cancelliere Hitler, aggiungendo ad essi qualche breve commento.
Il primo punto che, come premessa generale, viene in rilievo, è un curioso miscuglio fra naturalismo e provvidenzialismo. Curioso, che a base di una visione eroica si ponga un vero e proprio fatalismo teologale, il quale risente direttamente della dottrina protestantica della predestinazione assoluta. «La provvidenza» – dice testualmente Hitler — «ha voluto che gli uomini non fossero uguali, ha determinato un pluralismo di razze e per ciascuna di esse ha fissato doti e caratteristiche speciali, che non possono esser mutate senza incorrere in degenerazione e decadenza». Questa predestinazione è doppia: è biologica e psichica ad un tempo. A leggi intime, biologiche-morfologiche, cui ogni singola razza è astratta, corrisponde una sua visione del mondo, che può essere ora attuale, ora latente, ma che in essenza non cambia nel corso dei secoli. Da ciò procede un pluralismo anche culturale e spirituale, che a suo tempo entrò in aperto contrasto con le vedute universalistiche, cattolicamente intonate, del partito di Centro. Per quante razze, altrettante verità, altrettante concezioni del mondo. Hitler contesta dichiaratamente che si possa parlare in assoluto della giustezza, o meno, di una data visione del mondo. Se ne può parlare invece soltanto in relazione ad una determinata razza, agli scopi e alla volontà di esistenza e di potenza di essa, e quella verità – egli dice – che «ad una stirpe è più naturale, perché le è innata ed è adeguata alla manifestazione della sua vita, per un altro popolo diversamente conformato può in vari casi significare non solo un serio pericolo, ma addirittura la fine». Universalismo, internazionalismo, son sinonimi di incertezza, di decadenza dell’istinto, di perdita di contatto con le forze più profonde del proprio popolo. Se come cattolica è lecito definire quella visione, per la quale tutto ciò che è differenza etnica rientra in un piano naturalistico e temporale, di là dal quale esiste una verità unica, una società superpolitica cristiana, in funzione della quale non vi è né l’ariano né il semita, né l’europeo né l’asiatico, e così via – allora non si può certo definire proprio come “ortodossa” la dottrina esposta dallo Hitler, dato, naturalmente, che essa venga pensata sino in fondo e svolta senza compromessi intellettuali.
Peraltro, alcune considerazioni critiche qui s’impongono. Anzitutto saremmo tentati di chiedere, se, ogni verità essendo legata ad una razza, è vera solo per essa, la stessa verità, secondo la quale si crede a questo pluralismo, sia da riconoscersi vera solo per una razza, dettata dalle particolari caratteristiche di questa, ovvero vera universalisticamente e superrazzisticamente per tutte. È l’imbarazzo e la contraddizione alla quale è condannato in genere ogni relativismo: il quale, all’atto di proclamarsi vero, viene ad assumere, mutatis mutandis, proprio i caratteri di un assolutismo o universalismo. Ma lasciamo da parte questa obbiezione, d’indole generale e speculativa. Un aspetto positivo va senz’altro riconosciuto alla posizione di Hitler: quello di una reazióne contro i miti razionalistici, illuministici e democratici della decadenza europea. La dottrina della razza è un valore, in quanto significhi primato della qualità contro la quantità, del differenziato contro l’informe, dell’organico contro il meccanico; in quanto, soprattutto, proponga l’ideale di una unità profonda e vivente fra spirito e vita, fra pensiero e razza, fra cultura e istinto. Tuttavia, un simile ideale resta ancora – rispetto al contenuto – indeterminato; in secondo luogo, è qualcosa che, per valere, ha bisogno di esser liberato sia dallo sfondo fatalistico, sia dall’elemento naturalistico.
Circa il primo punto, porsi il compito di una sintesi creativa fra l’idea innata di una razza e le condizioni materiali che ad essa si impongono, fino ad una «conformità cristallina allo scopo» non equivale già a risolvere il problema fondamentale, che è: quale contenuto, caso per caso, deve venire in atto in tale sintesi? Come riconoscere ciò che è compito di una razza, e quindi “vero”, e non di un’altra? Hitler qui sembra propendere per una soluzione pragmatistica, cioè praticistica e empiristica, allorché dice che, circa la giustezza di una determinata visione, cioè circa il suo diritto a valere per una determinata razza, è diffìcile pronunciarsi, se non in base alle conseguenze e agli effetti che ne procedono fra gli uomini che l’hanno assunta. Ma allora si cade nel problematico, diciamo pure nello “sperimentale”; la famosa predestinazione da parte della “provvidenza” diviene un mito da servire, al più, come “idea-forza”, cioè per rinforzare suggestivamente una data vocazione o persuasione; nulla è detto, oggettivamente, circa un criterio che possa giustificare a priori e legare proprio ad una data razza una data missione o verità. È un po’ curioso che Hitler concepisca lo stesso eroismo come un mero “dato”: come vi è una nascita in specie di gatti ovvero di elefanti, specie che hanno ognuna la loro caratteristica, così pure si nascerebbe in specie di eroi o non eroi, e l’uomo eroico pensa e agisce eroicamente per natura e per caratteristica di razza, anzi per predestinazione, non attraverso una libera azione interiore. E poiché viene anche detto, che ogni azione non conforme alla caratteristica etnico-spirituale innata è solo via di decadenza, così via di decadenza sarebbe, p. es., in ogni razza predestinata ad esser non eroica, ogni sforzo ad assumere una verità eroica e ad elevarsi eroicamente.
Vi è dell’altro. Un punto fondamentale è la distinzione dell’uomo “nordico-ariano” dalle caratteristiche dell’uomo di altre razze. Un tale punto non è risolto da Hitler – almeno nel contesto della esposizione, su cui ora ci basiamo – in quanto egli dà semplicemente per caratteristica dell'”uomo nordico-ariano” quella, di aver sempre prodotto, sia nell’antichità che nei tempi moderni, «una sintesi determinante fra i compiti proposti, lo scopo e la materia data», per mezzo di un libero spirito creativo. Infatti, questa è una distinzione che si riduce alla distinzione fra chi sa realizzare la propria natura organicamente, in un proprio stile di vita, e chi non sa giungere a tanto. Ma non vi è forse stile di vita e stile di vita? Realizzare “classicamente” il proprio modo d’essere è un ideale che può essere realizzato sulla base di caratteristiche tanto elleniche quanto ebraiche, o giapponesi o germaniche. Il concetto resta dunque indeterminato, i tratti caratteristici del famoso elemento “nordico-ariano” restano all’oscuro. Qualcosa di più positivo si ha quando Hitler accenna ad una opposizione dovuta alla inclinazione innata, in certe razze, a trascendere l’elemento naturalistico, il substrato primitivo dell’esistenza, per trasfigurare i tratti generali della propria vita. Ma non è nulla più che un accenno. Tutto ciò che, nelle antiche tradizioni, si rifaceva al carattere “sovrannaturale” e di “nato due volte” – dvìja – proprio all’àrya in opposto all’asurya, all’uomo “oscuro” dominato dall’elemento “demonico” della natura, ne resta appena appena sfiorato.
Del resto, una quistione ulteriore si impone, dal punto di vista critico. Dato che Hitler non pensa di educare dei veggenti capaci di informarsi direttamente circa i piani prestabiliti dalla divina provvidenza in ordine ai vari compiti e destini delle razze; dato che, come si è visto, non si da un criterio per determinare a priori l’elemento spirituale, che una data razza dovrà demiurgicamente realizzare – sussiste il pericolo di finire in un mero naturalismo, quindi in un materialismo. Vogliamo dire, che si può sempre sospettare che, al luogo di una aderenza creativa e eroica della razza all’idea, si abbia una semplice subordinazione dell’idea a ciò che è dato come mera razza. In altre parole, la semplice costituzione di una data razza, ciò che essa si trova ad esser naturalisticamente o anche (in senso empirico) storicamente, e ciò che essa assume per una grezza volontà di esistenza e di potenza, potrebbero divenire gli unici criteri, in funzione dei quali, pragmatisticamente, si va a decidere della verità, della validità e della congenialità, per quella data razza, di elementi propri ad un piano superiore, meta-biologico, spirituale o culturale.
Desideriamo sottolineare l’importanza di questa considerazione, che mette in luce lo scoglio contro cui il razzismo può andar a finire. Specie al giorno d’oggi, col prorompere da ogni parte di forze di carattere inferiore e collettivo, è essenziale considerare questo dilemma: o spirito che dà forma a razza (in via particolare: a nazione) o razza (nazione) che dà forma a spirito. Ancor più brevemente: o determinazione dall’alto, o determinazione dal basso. Chi crede che vi sia qualcosa di sofistico e di cavilioso in una simile contrapposizione, non ha coscienza di uno dei massimi problemi dell’orizzonte politico contemporaneo.
Come in altra occasione già in queste pagine l’abbiamo mostrato, esistono due tipi distinti di razzismo e di nazionalismo: spirituale l’uno, materialistico e pervertitore l’altro. Il fatto, che entrambi costituiscano una antitesi di fronte al livellamento democratico e internazionalistico e alla disgregazione liberalistica, non deve portar menomamente a confonderli. Nell’un caso, abbiamo una emergenza del substrato prepersonale, quindi promiscuo, di un dato ceppo, che come “anima della razza” acquista una aureola mistica, si arroga un diritto sovrano e non riconosce a spirito, intellettualità e cultura, alcun valore, che in quanto essi si trasformino in strumenti al servizio di un ente temporale e politico. In tal caso razza e nazione determinano davvero un pluralismo disgregatore, si costituiscono in una molteplicità di concetti antagonistici i quali, per la loro natura, non possono ammettere alcun superiore e unitario punto di riferimento. È quando il razzismo acquista un tale senso etnicamente e collettivisticamente condizionato, che noi abbiamo detto esser in inevitabile contrasto con ogni visione universalistica, per esempio, come quella stessa del cattolicesimo.
Ma la cosa va ben diversamente quando nazione e razza si presentino davvero, e non rettoricamente, come concetti spirituali e trascendenti: quando ciò che sta al centro non sia più né il sangue, né l’anima collettiva, né una tradizione in senso volgare e empirico, né la bruta volontà d’esistenza o di potenza di un gruppo – bensì, appunto, una idea quasi come una forza determinante dall’alto. Qui non ne è il luogo – e del resto su ciò abbiamo detto in libri nel modo più esteso – ma si può pure accennare, che tale carattere ha sempre presentato ogni tipo superiore di civiltà e di stato nell’antichità tradizionale, e soprattutto fra i popoli ariani. In tal caso, la giustezza del razzismo si limita a questo: a riconoscere, che l’azione formatrice di forze superiori alla natura sulla natura stessa, cioè sull’elemento naturalistico e biologicamente condizionato, deve esser così profonda, da tradursi in una determinata eredità e in una determinata “forma” o “stile” di vita, comune ad un dato gruppo. Ma allora resta parimenti fermo, che tale eredità, forma o stile non si spiega in sé stessa, non ha in sé il proprio principio, non è un mero “dato”, come possono esserlo le caratteristiche di una specie animale: bensì apparizioni e quasi segni e consacrazioni di una conquista e di una più alta forza.
Hitler scrive: «Greci e Romani si trovarono subitamente così vicini ai Germani, perché ebbero le loro radici in un’unica razza fondamentale, onde anche le creazioni immortali dei popoli antichi esercitano una attrazione sui loro discendenti razzisticamente apparentati». A noi sembra invece che proprio questo esempio deve portare a qualcosa di più che non sia il mero razzismo. In particolare, Romani e Germani si intesero – e dettero alla luce il più forte tipo di civiltà che l’Europa abbia mai conosciuto – in una epoca – il Medioevo imperiale – dominata non dal particolarismo razzista, bensì da una idea universale. Il Medioevo ci mostra appunto uno dei più distinti esempi di una unità superpolitica e supernazionale, che agì formativamente dall’alto; di un unico principio che, lungi dall’esser frantumato dagli egoismi etnici e dalle prevaricazioni nazionalistiche, veniva ad applicarsi alle varie razze in forme varie, ma pur sempre tali, per un’intima affinità di spirito, da dar luogo ad un corpus, ad una grandiosa e mirabile ordinatio ad unum, nella quale il particolare non veniva ad esser vanificato, ma spiritualmente integrato.
Per quanto abbiamo studiati non pure gli scritti di Hitler, ma anche quelli dei principali ideologi nazional-socialisti, pure non ci è stato dato di vedere, se in ultima istanza l’anima intima della corrente rivoluzionaria crociuncinata sia orientata verso l’una o l’altra delle due direzioni sopra indicate. Superare il collasso internazionalistico, reintegrarsi in valori di qualità, di razza e di differenza, però in modo da non finire nel pluralismo di unità chiuse e di idee passate al servigio della materia e della politica empirica, in modo, invece, da lasciar possibile la formazione di una realtà superiore, ecumenica, atta a unire virilmente le nazioni nello spirito senza confonderle nei corpi: questo ci sembra il problema fondamentale del futuro europeo.
Il futuro ci dirà in che direzione finirà ad orientarsi la ricostruzione tedesca. Per ora, resta fermo che in quanto il fascismo ha indissolubilmente congiunto all’idea di nazione e di stirpe una idea superiore universale -quella di Roma – esso ha già posto decisamente il simbolo che, solo, saprebbe aver valore positivo in ordine al problema ora indicato.
'Osservazioni critiche sul «razzismo» Nazionalsocialista' has no comments
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