Prassi, azione e Stato in Gentile: dalla critica di Evola alle moderne rivalutazioni

Concludiamo questa serie di redazionali dedicati al rapporto tra Evola e l’Idealismo, cui seguirà l’intervista a Luca Leonello Rimbotti, soffermandoci brevemente sul concetto di prassi e di azione concreta che, nella polemica tra Evola e Giovanni Gentile, assunsero sicuramente un significato particolare, soprattutto per i risvolti propriamente pratici ed operativi che esse potevano avere sul destino di una mera società di individui, prodotto dell’atomismo liberale, che dovesse essere riconvertita in comunità organica e gerarchica di persone; risvolti che, pertanto, andavano ad incidere inevitabilmente sulla configurazione stessa della struttura dello Stato.

Evola, mediante la costruzione dell’idealismo magico (o concreto, reale), cercò, come abbiamo visto, di superare le contraddizioni in cui si era a suo giudizio impantanato l’idealismo assoluto tedesco, proponendo una prassi, un’azione fondata su principi meta-filosofici tratti dalle dottrine sapienziali, e sostanzialmente riassumibile nel precetto-base dell’azione decondizionata, che avrebbe dovuto condurre l’uomo alla liberazione dalle debolezze materiali ed all’affermazione superiore di sé quale autentico Individuo Assoluto (da intendersi, ribadiamolo, in senso sovraordinato, come espressione massima della spinta dell’Individuo a superare i propri limiti, per giungere a dimensioni in realtà disindividualizzate, proprie al piano metafisico, e pertanto senza implicazioni materialistiche e atomistico-liberali).

In tal senso, Evola rigettava invece la filosofia della prassi e l’azione nella concezione gentiliana, per la sua deriva in senso “creazionistico”, di cui si è parlato, che avrebbe comportato effetti solipsistici, surreali e derealizzanti totalmente in antitesi con concezioni superiori dell’individuo e quindi, indirettamente, dello Stato.

Tuttavia, sono molti gli autori e gli interpreti di area che, soprattutto di recente, hanno proposto diverse letture e rivalutazioni della filosofia della prassi di Giovanni Gentile, anche per i suoi riflessi sulla concezione dello Stato, su cui ci si soffermeremo fra breve. Tra di essi, Luca Leonello Rimbotti, Primo Siena, Valerio Benedetti o Marcello Veneziani.

In particolare, si sottolinea da parte di questi autori come Gentile sia stato tra i primi a studiare il marxismo in Italia, da cui recuperò la concezione della realtà come prassi, che di fatto proveniva dal campo dell’idealismo hegeliano, sulla cui base poi Marx, rovesciandone, com’è noto, la prospettiva, aveva edificato il suo materialismo dialettico e quindi quello storico.

L’uomo come essere sociale, concetto fondamentale in Marx, permane in Gentile. E dunque si osserva da parte di questi autori, come anche la realtà, affidata alla comprensione umana, non sarebbe semplice cosa “data”, ma pensata, voluta, attuata. Realismo e idealismo, dunque, in Gentile diventerebbero sintesi. La filosofia della prassi, che racchiuderebbe in nuce l’attualismo gentiliano, viene vista come un movimento rivoluzionario dello spirito che avrebbe segnato la storia del Novecento, trascinando le idee sul terreno della loro realizzazione, liberandole dalla prigione dorata dell’utopismo improduttivo. Superato il marxismo, si nota come Gentile avrebbe creato il suo sistema, conformando l’attualismo come filosofia dell’individuo assoluto (non nel senso evoliano del termine, evidentemente) e della prassi: l’individuo empirico, quello realmente esistente, vivrebbe ed esisterebbe in quanto atto in atto, cioè come soggetto che pensa e costruisce simultaneamente, riflette ed agisce, unificando pensiero e azione in un’unica dimensione, in cui ideale e reale coincidono.

Questa svolta aprirebbe le porte alla concezione dell’uomo totale. Una volta messo in relazione piena con la realtà entro cui si muove, vale a dire la società, questo soggetto produrrebbe lo schema di una potenza interiore definitiva, e quindi rivoluzionaria in senso eminente. Lo spirito come atto puro farebbe coincidere l’atto dell’Io con il tutto, creando l’artefice filosofico della nuova ontologia rivoluzionaria: l’Uomo-Dio, un uomo creatore e dominatore della realtà, in grado di forgiarla e piegarla alla sua volontà di potenza.

Ma quest’uomo totale che emergerebbe dalla costruzione gentiliana, quali connotati avrebbe realmente? Dinnanzi a cosa ci troveremmo, ammesso che fosse possibile dargli un volto? Titanismo prometeico dai tratti immanentistici e diveniristici, o rivoluzione spirituale dell’uomo nuovo? Trionfo della volontà o creazionismo filosofeggiante, slegato dalla realtà concreta?

Quanto al concetto di Stato, Evola si dedicò alla definizione del medesimo in particolare dalla metà degli anni Trenta, dopo la pubblicazione di Rivolta contro il mondo moderno e con l’uscita di svariati articoli in materia sulla rivista Lo Stato di Carlo Costamagna, con il quale diede vita ad una proficua collaborazione.

In linea con la propria visione, Evola riprese la concezione di Stato organico, aristocratico e gerarchico in senso spirituale, tipico delle antiche comunità tradizionali, il cui modello è sostanzialmente sviluppato nella Politeia di Platone. A questo tipo di Stato, basato su fondamenta spirituali ed eroiche, si sarebbe contrapposto lo Stato etico gentiliano, che avrebbe rappresentato il punto d’approdo di un processo iniziato fin dalla Rivoluzione Francese, culminante nell’assolutizzazione e nella divinificazione della sfera “morale” come elemento basilare dello Stato: in tal modo il principio di auctoritas fondato su rapporti gerarchici “spontanei e naturali da inferiore a superiore” su un piano spirituale, e quindi sulla fedeltà nei confronti di un capo o comunque di un’aristocrazia (nel senso greco del termine), che incarnassero impersonalmente e spiritualmente istanze di ordine superiore, degenerava in quella che Croce chiamò morale governativa, la forma più odiosa di “totalitarismo” per Evola, in quanto fondata su ipocrite forzature moralistiche e falsi rapporti di forza “da caserma”. Lo Stato etico gentiliano si poneva quindi secondo Evola come una struttura burocratica, ingerente e petulante, di chiara derivazione giacobina, con fisime, come egli stesso scrisse, da “pedagogo con la frusta in mano che s’immischia dappertutto, persuaso di avere non solo il diritto, ma anche il dovere di “educare” e “perfezionare” gli individui trattandoli come bambini, senza alcun rispetto per l’altrui libertà e personalità”.

Dopo la fase “moralistica” della concezione gentiliana dello Stato, stadio che Evola chiamò “totalitario”, il filosofo di Castelvetrano, sempre secondo Evola, sarebbe approdato ad una ulteriore, definitiva concezione anti-tradizionale dello Stato, quella fondata sull’“umanesimo del lavoro che, nell’ottica di Gentile, avrebbe rappresentato la tappa finale dell’evoluzione (sic) umana dopo quella dell’“umanesimo della cultura”, secondo una visione meramente immanentistica e finanche materialistica, con chiari accenti progressistici, inaccettabile per l’ottica evoliana: dalla divinificazione della morale si passava a quella del lavoro, con sconfinamenti da “rivoluzione proletaria”, come quelli legati all’esaltazione gentiliana dei moti sociali e socialisti del XX secolo o alla teoria del cd. corporativismo integrale, elaborata da gentiliani di stretta osservanza quali Ugo Spirito ed Arnaldo Volpicelli, e da Evola definita come “miscuglio fra statalismo totalitario e sindacalismo radicalista collettivizzante”. Lo stesso Gentile, ricorda Evola, ebbe modo di definire i comunisti come “corporativisti impazienti”.

Anche in tal caso, gli autori e gli esegeti gentiliani succitati propongono un’interpretazione del tutto differente dello Stato etico disegnato dal filosofo di Castelvetrano. Primo Siena, nel suo saggio su Gentile pubblicato nel 2014, scrive: “L’accusa di ‘totalitarismo statolatrico’ mossa così spesso a Gentile trova qui doverose e argomentate confutazioni: attraverso la sintesi fascista corporativa Gentile mirava alla realizzazione di uno stato organico gerarchicamente ordinato” [1]. Siena cita, al riguardo, il contributo di Luca Leonello Rimbotti, secondo il quale lo Stato gentiliano, in quanto derivazione politico-istituzionale dell’attualismo, costituirebbe la somma ed il riassunto di tutti gli aspetti del reale, l’assoluto che ricomprende i relativi, e la sua eticità costituirebbe la garanzia che la realtà non è abbandonata alla necessità individuale, ma sottoposta all’autorità di una legge comunitaria. In tal senso, esso si presenterebbe come uno stato socialista, nel senso organico e non marxista del termine: quel comunismo gerarchico di cui parla Sonia Michelacci in un noto saggio sul sistema economico fascista e nazionalsocialista, e che nel 1941 Ugo Spirito prospettò come progetto per un nuovo fascismo rivoluzionario.

Rimbotti scrive: “Il Tutto che lo Stato racchiude è infatti la nazione, è il popolo, come la struttura di protezione che raccoglie e stringe in unità il molteplice, ed è anche, su un piano pratico, la macchina che organizza la vita associata. Ed essa, soprattutto, veicola la sacralità, la religiosità dello stare insieme come nazione, ciò che accomuna nel comune destino. Lo Stato di Gentile è dunque un elemento propriamente religioso (…). Lo Stato Etico è lo Stato del consenso, dell’identificazione volontaria e consenziente di tutti nel tutto comunitario, caratterizzato dall’“accettazione volontaria dell’autorità riconosciuta” [2].

Lo stesso “umanesimo del lavoro” stigmatizzato da Evola troverebbe, alla luce dell’interpretazione in esame, un altro significato, legato appunto all’edificazione di questo Stato “socialista organico” (in cui riecheggia in qualche modo anche il “socialismo prussiano” dell’éra guglielmina), in cui il predominio sociale sarebbe stato appannaggio della figura del lavoratore e non più del borghese: “L’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale”, scrisse appunto Gentile.

Non possono non tornare alla mente, in tal senso, la figura mitizzata dell’Arbeiter nella dottrina nazionalsocialista (con, probabilmente, alcuni punti di contatto con l’Arbeiter della visione di Ernst Jünger, dove però ricorre una metafisica della tecnica e la configurazione di una nuova modalità di soldato della società industriale con connotati non di certo umanistici ma meta-umanistici, affondanti le proprie radici nelle figure del santo e del guerriero, di un tipo di Uomo della Tradizione che riemerge dalle secche del razionalismo piegando a sé le potenze elementari ridestate dalla tecnica moderna) e, nell’ambito del fascismo italiano, l’elaborazione del corporativismo quale strumento per edificare lo Stato del Lavoro, prospettiva che, seppure tra alti e bassi, affermazioni e negazioni, assunse un ruolo importante perlomeno in alcune correnti interne del fascismo, soprattutto negli anni Trenta ed in particolare sotto la Repubblica Sociale, con il noto progetto della socializzazione delle imprese.

E’ pertanto evidente come, sebbene il modello di riferimento, tanto in Evola quanto negli altri autori che stiamo citando, rimanga sostanzialmente quello tradizionale dello Stato di Platone (che peraltro costituì un riferimento esplicito anche per il Nazionalsocialismo tedesco), tale modello venga concretamente ricostruito ed interpretato secondo criteri molto divergenti, che portano a letture del tutto antitetiche, anche in sede di confronto con altri paradigmi di Stato, quale ad esempio quello di Gentile.

Note

[1] Primo Siena, “Giovanni Gentile – un italiano nelle intemperie”, Solfanelli, Chieti, 2014.

[2] L.L. Rimbotti, “Giovanni Gentile: dal marxismo all’umanesimo del lavoro” in “Italicum”, XXIX, settembre-ottobre 2014.



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