Sui presupposti spirituali e strutturali dell’Unità Europea

Domani, com’ è noto,  saranno celebrati a Roma, in pompa magna, i 60 anni del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE), l’embrione dell’attuale mostro burocratico-finanziario rappresentato dall’Unione Europea (UE), vera e propria “sentinella” dei grandi poteri globalisti nel nostro continente. Il trattato fu infatti firmato in Campidoglio il 25 marzo 1957, insieme ad un altro, quello che istituì la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o EURATOM). In precedenza, il 18 aprile 1951 a Parigi era stato firmato il primo accordo di collaborazione intereuropea, che aveva istituito la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA).

Roma, 25 marzo 1957: in Campidoglio, nella sala degli Orazi e Curiazi del Palazzo dei Conservatori, vengono firmati i trattati istitutivi della CEE e della CEEA

In occasione di questa ricorrenza, solo apparentemente positiva ma in realtà nefasta per le sorti del vecchio Continente, e proprio in questo periodo in cui stiamo dedicando molto spazio agli scritti di Evola in materia di Stato, Nazione ed Impero, dopo aver pubblicato due giorni fa l’approfondimento sull’universalità imperiale rispetto al mero particolarismo nazionalistico, abbandoniamo temporaneamente l’Evola degli anni Trenta per proporvi un articolo del barone pubblicato sul primo numero (gennaio 1951), della rivista mensile “Europa Nazione” diretta da Filippo Anfuso.

In questo scritto, Evola, pochi mesi prima della firma del trattato istitutivo della CECA e pochi anni prima del Trattato istitutivo della CEE, tornava a tracciare le linee di quella che sarebbe dovuta essere la struttura di una vera Unità Europea, proprio in anni in cui, schiacciato dai due blocchi USA-URSS, per il Vecchio Continente l’esigenza di una forma di riunificazione e rinascita dalle ceneri della guerra si riaffacciava come un’esigenza improcastinabile. Dopo aver analizzato le tesi del filosofo statunitense Francis Parker Yockey, autore nel 1948, con lo psudonimo di Ulick Varange, del volume dai riverberi neo-spengleriani Imperium, Evola si soffermava, con alcuni passi di straordinaria ispirazione, sul processo di integrazione e sintesi gerarchica, spirituale ed organica che, partendo dalle realtà nazionali, dovrebbe condurre all’unica vera forma di unificazione sovranazionale europea in senso tradizionale, nel sacro solco dell’imperium. Un’unione superiore, spirituale, che integra ed armonizza verso l’alto le differenze nazionali, senza sopprimerle, fondata sul principio di auctoritas e di universalità, ben al di sopra delle mere, contingenti forme federali su base materialistico-economica. Allo stesso tempo, Evola metteva realisticamente in luce l’impossibilità di realizzare questa forma suprema di unità continentale in un’epoca di avanzata “civilizzazione”, nel senso splengleriano del termine, in cui non sembrano rintracciabili neppure i residui di una vera “cultura” o “tradizione” distintiva europea. Evola poneva dunque un doppio problema finale, da ricondurre ad un doppio imperativo, e si chiedeva “quali uomini fossero ancora in piedi fra tante rovine” per intendere ed assumere tali imperativi: quegli uomini fra le rovine, immagine già ben scolpita nella mente del barone, che avrebbero ispirato la sua celebre opera omonima pubblicata due anni dopo, nel 1953. Ma che non sarebbero stati abbastanza, in numero e qualità, per impedire l’odierno disfacimento.

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Sommario del primo numero di “Europa Nazione” diretto da F. Anfuso (gennaio 1951)

La rivista “Europa Nazione” fu fondata nel 1951 e diretta  da Filippo Anfuso, celebre diplomatico, già volontario nella guerra di Spagna, capo di gabinetto di Galeazzo Ciano agli Esteri nel 1938 e poi ambasciatore a Berlino durante la R.S.I.. Di rientro dall’esilio nella Spagna franchista nel 1950, Anfuso aderì al MSI schierandosi con i nazional-conservatori di Arturo Michelini e condividendo la sofferta scelta del partito di appoggiare l’ingresso dell’Italia nella NATO del 1949. In particolare, Anfuso fu incaricato di spiegare ai quadri intermedi ed alla base del partito la teoria dell’atlantismo “costruttivo”, elaborata dal gruppo nazional-conservatore, che doveva sostituire quella dell’atlantismo “necessario”, in funzione anticomunista, sostenuto da Ezio Maria Gray. Ovviamente la tesi di un ruolo costruttivo ed attivo dell’Italia nel contesto dell’Alleanza atlantica, e non di mera sottomissione da colonia di periferia, si rivelò una banale illusione.

Sostenitore comunque del riarmo della Germania e di un ruolo da protagonsita dell’Italia in un’Europa che avrebbe dovuto superare ferite e divisioni causate dalla guerra, con la rivista “Europa Nazione” Anfuso cercò di  dare spazio ai temi della politica estera ampliando le prospettive del MSI e lasciando spazio (oltre ad esponenti di partito quali Almirante, Gray o De Marsanich) a collaboratori di grande spessore, anche internazionale, e con idee non necessariamente allineate alle proprie: si pensi allo stesso Evola, ma anche ad altre figure quali Maurice Bardéche, Abel Bonnard, Paul Gentizon, Hubert Lagardelle, Claude Harmel, Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Carlo Costamagna, Gioacchino Volpe, Concetto Pettinato, Junio Valerio Borghese, Karl Anton Rohan (che ricordiamo quale fedele amico di Evola nell’esperienza del Diorama Filosofico), Oswald Mosley, Anton Zischka, e molti altri.

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di Julius Evola

(tratto da “Europa Nazione”, n. 1, anno I, gennaio 1951)

Per la forza delle cose, l’esigenza di una unità europea oggi si fa viva nel nostro continente. Finora sono soprattutto dei fattori negativi ad alimentarla: ci si vuole unire per difendersi, e così non tanto per un moto partente da qualcosa di positivo e di preesistente, quanto per non aver quasi altra scelta di fronte alla pressione minacciosa di blocchi e interessi non europei. Questa circostanza fa sì che non si veda troppo chiaro quanto alla forma interna di una vera unità europea. A tutt’oggi, sembra che non si vada troppo oltre il progetto di una coalizione o federazione, che come tale avrà sempre un carattere estrinseco, aggregativo anziché organico, quindi anche contingente. Una unità che fosse davvero organica la si potrebbe però concepire solo sulla base della forza formatrice dall’interno e dall’alto propria ad una idea, ad una comune cultura e tradizione. Volendo affrontare il problema europeo in questi termini, appare ad ognuno quanto la situazione sia disagevole, quanti fattori problematici ci impediscano di adagiarci in un facile ottimismo.

Oswald Spengler

Non manca chi ha portato l’attenzione su questi aspetti del problema europeo. Nel riguardo, una opera significativa è quella di U. Varange che s’intitola «Imperium» (Westropa Press, London, 1948, 2 voll.). Da essa si possono prender le mosse per una disamina ulteriore delle difficoltà ora segnalate.

Il Varange, dunque, non è in termini puramente politici che vorrebbe difendere la tesi dell’unità europea; a ciò egli parte da una filosofia generale della storia e della civiltà rifacentesi ad Oswald Spengler. Si sa quale sia la concezione spengleriana: non esiste uno sviluppo lineare della civiltà al singolare, la storia si frantuma in cicli distinti ma pur paralleli di civiltà, i quali costituiscono ognuno un organismo ed hanno le loro fasi di giovinezza, di sviluppo, di senescenza e di tramonto come tutti gli organismi. In particolare, lo Spengler distingue in ogni ciclo un periodo di «civiltà» (Kultur) da un periodo di «civilizzazione» (Zivilisation). Il primo si trova alle origini, sta sotto il segno della qualità e conosce forma, differenziazione, articolazione nazionale e tradizione vivente; invece la «civilizzazione» è la fase autunnale e crepuscolare nella quale si operano le distruzioni del materialismo e del razionalismo e ci si avvia verso il meccanicismo e la grandezza informe, verso il regno della pura quantità. Secondo lo Spengler, tali fenomeni si verificano fatalmente nel ciclo di ogni civiltà. Sono biologicamente condizionali.

Fin qui lo Spengler. Il Varange lo segue, e lo segue anche nel considerare il mondo europeo alla stregua di uno di questi organismi di civiltà muniti di vita propria, sviluppanti una loro idea, seguenti un loro destino. Inoltre, lo segue nel constatare che la fase ciclica in cui attualmente si trova l’Europa e I’Occidente è ormai quella di «civilizzazione». Ma, a differenza dello Spengler il quale, almeno in un primo tempo, con riferimento a ciò aveva lanciato la nota formula del «tramonto dell’Occidente», egli cerca di capovolgere il negativo nel positivo, di far buon viso a cattiva sorte e parla di forze nuove che obbedirebbero ad un imperativo di rinascita, a valori irreducibili a materialismo e razionalismo. Lo sviluppo ciclico, di la dalle rovine del mondo di ieri e dalla civiltà del XIX secolo, spingerebbe l’Europa verso un’èra nuova, èra della «politica assoluta», della supernazionalità e dell’autorità, quindi anche dell’Imperium. Seguire questo imperativo biologico nell’epoca della civilizzazione, oppure perire, sarebbe l’alternativa per la stessa Europa.

Francis Parker Yockey (1917 -1960), filosofo statunitense autore nel 1948 dell’opera “Imperium” sotto lo pseudonimo di Ulick Varange

Seguendo un tale ordine di idee, allo ieri, al passato apparterrebbero idealmente non solo la concezione scientista e materialista dell’universo, ma altresì liberalismo e democrazia, comunismo e ONU, Stati pluralistici e particolarismo nazionalista. L’imperativo storico sarebbe di realizzare l’Europa come una unità di nazione-cultura-razza-stato, presso ad un risorgente principio di autorità e a nuove, precise, biologiche discriminazioni fra amico e nemico, mondo proprio e mondo alieno, «barbaro».

Varrà accennare, perché utile ai nostri fini, a ciò che il Varange chiama la «patologia delle civiltà». La realizzazione della legge interna e naturale di una civiltà quale organismo può esser ostacolata da processi di distorsione (culture distortion) quando elementi estranei, al suo interno, ne indirizzano le energie verso azioni e fini che sono privi di relazione con le sue esigenze reali e vitali e che fanno invece il giuoco di forze esterne. Ciò trova applicazione diretta nel campo delle guerre, l’alternativa vera non essendo, secondo il Varange, fra guerra e pace, ma fra guerre utili e necessarie ad una civiltà e guerre che questa civiltà alterano e disgregano. Il secondo è il caso quando non si scende in campo contro un nemico reale, minacciante biologicamente l’organismo materiale e spirituale della propria cultura – caso nel quale non è concepibile più che una «guerra totale» – ma quando una guerra del genere scoppia all’interno di una civiltà, come proprio è accaduto per l’Occidente con le due ultime conflagrazioni. In esse, dei capi di nazioni han preferito la rovina dell’Europa e il fatale assoggettamento delle loro patrie a popoli stranieri e «barbari» d’Oriente e d’Occidente piuttosto che cooperare ad un’Europa nuova che tendeva a superare il mondo del XIX secolo e a riorganizzarsi sotto nuovi simboli di autorità e di socialità. L’effetto fatale e ormai ben visibile di ciò non è stata la vittoria di alcune nazioni europee su altre, bensì quella dell’anti-Europa, di Asia ed America, sull’Europa in genere.

Quest’accusa colpisce in modo specifico l’Inghilterra ma dal Varange viene estesa alla stessa America U. S., ritenendo egli che tutta la politica interventista statunitense si sia sviluppata per effetto di una «distorsione di civiltà», indirizzandosi verso scopi privi di un nesso organico con le necessità vitali nazionali. Come pur stiano le cose, i ritmi si accelerano e per l’Occidente si tratta di riconoscere o no l’imperativo biologico corrispondente alla fase attuale del suo ciclo: quello di superare il frazionamento stateistico e di far sorgere l’unità della nazione-stato europea, formando blocco contro l’anti-Europa.

Il compito, in un primo tempo, sarà interno e spirituale. L’Europa deve sbarazzarsi dai traditori, dai parassiti, dai «distortori». Occorre che la cultura europea si disintossichi dai residui delle concezioni materialistiche, economistiche, egualitarie e razionalistiche del XIX secolo. In un secondo tempo, l’unità rinnovata dell’Europa come civiltà o cultura dovrà trovar espressione in una unità politica corrispondente, da perseguirsi anche a prezzo di guerre civili e di lotte contro le potenze che vogliono mantenere l’Europa sotto il loro controllo. Federazioni, unioni doganali e altre misure economiche non possono costituire delle soluzioni; è da un imperativo interno che deve sorgere l’unità, imperativo che va realizzato perfino quando esso apparisse economicamente svantaggioso, il criterio economico non potendo più valere come ultima istanza nell’èra nuova. In un terzo tempo, potrà presentarsi il problema dello spazio necessario per la superpopolazione della nazione europea, per il che il Varange vede la soluzione migliore in uno sbocco versi l’Oriente, dove, sotto maschera comunista, si raccoglie ed organizza la potenza di razze secolarmente e biologicamente ostili alla civiltà occidentale.

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Ai nostri scopi, ciò potrà bastare, quanto al Varange. Vediamo ora che si deve pensare in proposito.

Il simbolo fondamentale invocato dal Valange è quello dell’Imperium e di un nuovo principio di autorità. Tuttavia non pensiamo egli veda ben chiaro circa tutto ciò che un tale simbolo implica, se assunto come dovrebbe essere assunto; egli non scorge la discrepanza esistente fra esso e tutto quanto appartiene alla fase spinta di «civilizzazione» di una civiltà, nel nostro caso di quella europea.

Secondo noi, il Varange è senz’altro da seguire quando accusa l’insufficienza di ogni soluzione federalistica e semplicemente economica del problema europeo. Come già lo dicemmo, una unità vera può essere solo di tipo organico, e per essa lo schema è ben noto, è quello che già si realizzò p. es. nell’ecumene europeo medievale. Esso riprende sia l’unità che la molteplicità e si concreta in un sistema di partecipazioni gerarchiche. Da superare e da lasciare indietro è il nazionalismo, come assolutizzazione scismatica del particolare, per passare (o ritornare), da esso, al concetto naturale della nazionalità.

All’interno di ogni spazio nazionale dovrebbe poi – politicamente – aver luogo un processo d’integrazione che ne coordini le forze in una struttura gerarchica e stabilizzi un ordine fondato su di un principio centrale di autorità e di sovranità. Lo stesso dovrebbe poi ripetersi nello spazio più che nazionale, nello spazio europeo in genere: nel quale avremo le nazioni come unità parziali organiche gravitanti su di un unum quod non est pars (per usare l’espressione dantesca), cioè su di un principio di autorità gerarchicamente superiore a ciascuna di esse. Un simile principio, per essere tale, dovrà necessariamente trascendere l’ambito politico in senso stretto, fondarsi e legittimarsi con una idea, con una tradizione, con un potere anche spirituale. Allora si avrebbe l‘Imperium, l’unità organica e virile europea libera davvero da tutte le ideologie livellatrici, liberalistiche, democratiche, scioviniste, collettivistiche, e tale, con ciò stesso, da presentarsi in un preciso distacco sia dall’«Oriente» che dall’«Occidente», cioè dai due blocchi che, come le branche di un’unica tenaglia, stanno chiudendosi intorno a noi.

Così la premessa per uno sviluppo eventuale del genere non è la dissoluzione delle nazioni in un’unica nazione, in una specie di sostanza sociale europea omogenea, bensì l’integrazione gerarchica di ogni nazione. L’unità vera, non promiscua ma organica, si realizza non attraverso le basi, ma attraverso i vertici. Spezzata la hybris nazionalistica, cui sempre si accompagna un momento demagogico, collettivizzante e scismatico, costituite gerarchicamente le singole nazioni, esisterà una unificazione virtuale suscettibile a continuarsi di là dalle nazioni, ad esse lasciando tuttavia la loro individualità naturale e la loro forma.

E’ cosi che tutto sarebbe in ordine. Il male è però che il quadro naturale per una realizzazione siffatta è quello di un mondo che si trovi nella fase di «cultura», non di «civilizzazione» – per continuare ad usare la terminologia spengleriana. Scrittori, come il Varange, mescolano cose appartenenti a piani distinti, cadendo in un equivoco, in cui, a tuo tempo, incorse lo stesso Mussolini.

Mussolini, senza conoscere probabilmente l’opera principale dello Spengler, di lui lesse gli «Jahre der Entscheidung» (1) e fu colpito dalla prognosi di un nuovo cesarismo o bonapartismo: per questo volle che il libro fosse tradotto anche in italiano. In ciò Egli non si rendeva però conto del luogo che, secondo lo Spengler, tocca a formazioni del genere nello sviluppo ciclico delle civiltà: è quando il mondo della tradizione frana, quando non esiste più Kultur ma solo Zivilisation, quando i valori qualitativi sono caduti e l’elemento informe «massa» prende il sopravvento, è solo allora, nella fase autunnale e crepuscolare di un ciclo, che anche le nazioni scompaiono e si producono i grandi aggregati supernazionali, nel segno di un pseudo-cesarismo, di un potere centralizzato personale, in sé informe, privo di un crisma superiore. Tutto ciò dell’Imperium in senso tradizionale e genuino non è che una imagine distorta ed invertita; non è impero, ma al massimo «imperialismo» e nella veduta spengleriana rappresenta un ultimo guizzo, cui segue la fine – la fine di una civiltà, cui potrà anche seguirne una nuova, diversa, senza un legame di continuità con la precedente.

Ora, quando il Varange parla dell’epoca nuova della «politica assoluta» e dei blocchi che, assorbite le nazioni di una stessa civiltà in un unico organismo, per estremo criterio dovrebbero avere quello della distinzione assoluta, esistenziale di nemico ed amico (veduta ripresa da Carl Schmidt, che in tali termini aveva definito l’essenza delle unità puramente politiche moderne) e del puro imperativo biologico, si resta proprio sul piano della «civilizzazione» e di processi collettivizzanti «totalitari» da giudicarsi più come sub-nazionali che non come davvero supernazionali; del che la realizzazione più prossima e coerente la si trova oggidì sulla linea dello stalinismo. Ora, è chiaro che se una unità dell’Europa dovesse realizzarsi solo a questa stregua, per sua virtù l’Occidente potrebbe forse resistere e riaffermarsi materialmente, biologicamente contro potenze imperialistiche extraeuropee, ma nello stesso punto esso avrebbe abdicato interiormente, sarebbe finito come propriamente Europa, tradizione europea; sarebbe divenuto un fac-simile dei suoi avversari sul piano di lotte in funzione di una bruta volontà di esistenza e di potenza, in attesa che i fattori generali di disintegrazione propri alla civiltà tecnico-meccanica si facciano ulteriormente valere. E’ più o meno la prognosi che fa anche il Burnham nel considerare esiti possibili di quella che egli chiama la managerial revolution in corso (2).

Che altre prospettive restano aperte? Non è facile dirlo. Quanto alle nazioni, ognuna può mantenere la propria individualità e la dignità di un «tutto parziale» organico, oppure subordinarsi ad un ordine superiore, solo nelle due congiunture già accennate: o in quella, estrinseca e non impegnativa, che si definisce in termini di utilità materiale e di necessità esterna, ovvero quando sia da essa riconosciuta direttamente una autorità davvero superiore, non semplicemente politica e non accaparrabile da nessuna particolare nazione in termini di «egemonismo». Dove trovare un punto di riferimento a tanto? Si parla volentieri di tradizione europea, di civiltà europea, di Europa come organismo autonomo, ma purtroppo, a considerare oggi le cose e a misurare alla scala dei valori assoluti, si vede che in tutto ciò si hanno poco più che degli slogans e che ci si accontenta di semplici frasi.

Sul piano più alto, l’anima per un blocco europeo supernazionale dovrebbe essere religiosa: religiosa non in astratto, ma con riferimento ad una autorità spirituale precisa e positiva. Ora, anche a prescindere dai processi spinti e generali di secolarizzazione e di laicizzazione attuatisi in Europa, non esiste oggi nel nostro continente nulla di simile. Il cattolicesimo è solo la fede di alcune nazioni europee – e del resto si è visto come in un periodo incomparabilmente più propizio dell’attuale, in quello post-napoleonico, la Santa Alleanza, con la quale si affacciò appunto l’idea di una solidarietà tradizionale e virile delle nazioni europee, fu tale solo di nome, ad essa mancò un vero crisma religioso, una universale, sopraelevata idea. – Se poi si dovesse parlare solo di un cristianesimo generico, ciò sarebbe troppo poco, sarebbe cosa troppo incorporea ed informe, non esclusivamente europea, non monopolizzabile per la civiltà europea. In più, circa la conciliabilità del puro cristianesimo con una «metafisica dell’Impero», non possono non sorgere dei dubbi: lo insegna il conflitto medievale fra i due poteri, se inteso nei suoi veri termini (3).

Lasciamo allora questo piano e passiamo al piano della cultura. Si può parlare, oggi, di una cultura differenziata europea – meglio: di uno spirito che si mantiene unico nelle sue espressioni varie e sintoniche come cultura delle singole nazioni europee? Di nuovo, sarebbe azzardato rispondere con l’affermativa, e la ragione l’ha mostrata C. Steding in un libro notevole che trattava proprio dell’«Impero e la malattia della cultura europea» (4). Questa ragione risiede in ciò che tale autore chiama la neutralizzazione della cultura attuale: cultura non più  congeniale con una comune idea politica; cultura «privata», transitiva epperò cosmopolita, sbandata, antiarchitettonica, soggettivistica, neutra poi, e affatto priva di volto nei suoi aspetti scientisti e positivistici. Mettere tutto ciò a carico di una «patologia della civiltà», di un’azione esterna e transeunte di «distorsione» ad opera di elementi alieni, come vuole il Varange e non solo per l’Europa, ma perfino per l’America, significa pensare piuttosto semplicisticamente.

In genere, dove si può trovare oggi, in fase di «civilizzazione», una base culturale tanto differenziata per poter opporre seriamente a noi l’«alieno», il «barbaro» e come si poté nel caso di precedenti spazi imperiali? Molto lontano si dovrebbe andare, per venire a tanto, con un lavoro di disintossicazione e di rintegrazione, perché se noi possiamo giudicare giustamente come barbari ed antieuropei aspetti della civiltà sia nord-americana, sia russo-bolscevica, non bisogna perdere di vista tutto ciò che nell’una e nell’altra rappresenta lo sviluppo estremistico di tendenze e di mali che per primo si affacciarono in Europa. Nel che sta proprio la ragione della scarsa immunità di questa di fronte ad essi.

Infine, come oggi si è ridotti, anche quanto a «tradizione» si cade nello equivoco. Già da tempo l’Occidente non sa più che sia «tradizione» nel senso più alto, spirito antitradizionale e spirito occidentale avendo fatto tutt’uno quasi fin già dall’epoca della Rinascenza (5). La «tradizione» nel senso integrale è una categoria appartenente alle epoche che un Vico chiamerebbe «età eroiche»: ove  un’unica forza formatrice, avente radici metafisiche, si manifestava sia nel costume che nel culto, nel diritto, nel mito, nelle creazioni artistiche, insomma in ogni dominio particolare dell’esistenza. Dove si può constatare oggi una sopravvivenza della tradizione in tal senso? E in particolare come tradizione europea, tradizione grande, corale, non paesanistica e folkloristica? È solo nel senso del «totalitarismo» livellatore che, se mai, tendenze all’unita politico-culturale assoluta si sono affacciate. In concreto, attualmente la «tradizione europea» come cultura ha per contenuto solo le interpretazioni private e più o meno divergenti di intellettuali e di letterati alla moda: di ciò, ieri i «Congressi Volta», ed oggidì iniziative varie dello stesso tipo han dato sufficienti e non certo edificanti testimonianze.

Da questo ed altre considerazioni dello stesso genere si giunge ad un’unica, fondamentale conclusione: una unità supernazionale dai tratti positivi ed organici non è concepibile in un periodo di «civilizzazione». In un tale periodo è concepibile, al massimo, il fondersi delle nazioni in un blocco più o meno informe di potenza, nel quale il principio politico è l’estrema istanza e subordina a sé ogni fattore morale e spirituale: o come mondo «tellurico» della «rivoluzione mondiale» (Keyserling), o come mondo della «politica assoluta» nel segno di un imperativo biologico (Varange), o di nuovi complessi totalitari nelle mani dei managers (Burnham), secondo quel che da più parti è stato già presentito. Unità in funzione di «tradizione» è cosa da ciò molto diversa.

Dovremo allora chiudere in negativo il nostro bilancio ed accontentarci di una idea più modesta, federalistica, «sociale» o societaria? Non è detto necessariamente, perché, una volta constatata l’antitesi, basta orientarsi di conseguenza. Se è assurdo perseguire il nostro ideale più alto nei quadri di una «civilizzazione», perché esso ne risulterebbe distorto e quasi invertito, resta da riconoscere nel superamento di ciò che ha appunto carattere di «civilizzazione» il presupposto per ogni iniziativa davvero ricostruttiva. «Civilizzazione» equivale più o meno a «mondo moderno», e, senza farci illusioni, bisogna riconoscere che del «mondo moderno» col suo materialismo, il suo economicismo, il suo razionalismo e gli altri fattori involutivi e dissolutori, proprio l’Occidente – diciamo pure l’Europa – è eminentemente responsabile.

Per primo, dovrebbe dunque aver luogo un rinnovamento che incida sul piano spirituale destando nuove forme di sensibilità e d’interesse, e così anche un nuovo stile interno, un nuovo orientamento fondamentale omogeneo dello spirito. A tale riguardo, occorre rendersi conto che non si tratta, come vuole il Varange, di superare solo la visione della vita del XIX secolo nei suoi vari aspetti, perché questa visione è essa stessa l’effetto di cause più remote. Poi, sull’interpretazione biologistica della civiltà propria allo Spengler vanno fatte precise riserve, soprattutto quanto a non credere, con l’autore che abbiamo considerato, ad una quasi fatalità di riascesa annunciantisi da sintomi vari. Pertanto, non ci si deve nemmeno appoggiare oltre misura alle idee dei movimenti rivoluzionari e innovatori di ieri, per il fatto che in essi erano compresenti tendenzialità diverse, talvolta perfino contrastanti, le quali avrebbero potuto definirsi positivamente solo se le circostanze ne avessero reso possibile il completo sviluppo, sincopato dalla disfatta militare.

Comunque, politicamente la crisi del principio di autorità ci sembra costituire la difficoltà più grave – diciamo, cioè ripetiamo, autorità in senso vero, quella atta a determinare non solo obbedienza, ma anche naturale adesione e diretto riconoscimento: perché solo una tale autorità può condurre, all’interno di una nazione, a superare individualmente e «socialismo», e, in un’area europea, a ridurre l’hybris nazionalistica, i «sacri orgogli» e l’irrigidimento nel principio delle sovranità statali particolari per vie diverse che non quella della necessità o di interessi di congiuntura. Se vi è qualcosa di specificamente proprio alla tradizione ario-occidentale è lo spontaneo unirsi di uomini liberi orgogliosi di servire un capo veramente tale. Per una unità europea vera non sapremmo concepire che qualcosa che ripete in grande una tale situazione a suo modo «eroica» non quella di un «parlamento» o di un fac-simile di società per azioni.

Dal che risulta abbastanza chiaro l’errore di chi ammette una specie di agnosticismo politico per l’idea europea, questa riducendosi allora ad una sorta di comune denominatore informe: occorre un centro di cristallizzazione, e la forma del tutto non può non riflettersi in quella delle parti. Su di uno sfondo che sia non di «civilizzazione», ma di tradizione, siffatta forma può solo essere quella organico-gerarchica. All’unità supernazionale ci si avvicinerà per quanto più nelle singole aree parziali, cioè nazionali, procederà una integrazione in questo senso.

Il fatto che all’esterno fattori molteplici ci fanno ormai sentire che per l’Europa far blocco è questione di vita o di morte, questa necessità deve a sua volta condurci al riconoscimento del doppio, ora accennato, problema interno da risolvere per dare ad un eventuale schieramento europeo una salda base: da un lato, è il problema del superamento graduale ed effettivo di ciò che ha attinenza con una epoca di «civilizzazione»; dall’altro, è il problema di una specie di «metafisica» con cui passa giustificarsi una idea sia nazionale, sia supernazionale ed europea, di pura autorità.

Il doppio problema può ricondursi ad un doppio imperativo. E’ da vedere quali uomini siano oggi ancora in piedi fra tante rovine per intendere ed assumere questo imperativo.

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Note

(1) L’opera è stata tradotta nel 2010 col titolo “Anni della decisione”, a cura di Beniamino Tartarini, Firenze, Editrice Clinamen (N.d.R.).

(2) J. BURNHAM, The managerial revolution, New York, 1941.

(3) Cfr. J. EVOLA, Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell’Impero, Bari, 1937; Rivolta contro il mondo moderno, Milano, 1950.

(4) C. STEDING, Das Reich und die Krankheit der europäischen Kultur, Hamburg, 1938.

(5) Cfr. R. GUÈNON, La crise du monde moderne, Paris, 1949.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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