Seconda parte del contributo esclusivo dell’amico giornalista Sandro Forte, confezionato appositamente per RigenerAzione Evola e per voi lettori, in cui l’autore ha rielaborato il capitolo del suo libro “I Processi alle idee” (pubblicato in prima edizione nel 1987), dedicato al processo ai F.A.R. (di cui nel 2021 ricorrerà il settantesimo anniversario), ed all’assurdo coinvolgimento ideologico in esso di Julius Evola, aggiornandolo ed arricchendolo con alcuni passaggi tratti dal suo nuovissimo “Ordine Nuovo parla“. In quest’ultima opera pubblicata dall’editore Mursia, nelle librerie da pochi giorni e già ordinabile presso la “Libreria Raido”, Forte ricostruisce attraverso fonti dirette la vera storia di Ordine Nuovo, cercando di fare finalmente chiarezza su questo movimento e spazzando via i pregiudizi ideologici, le menzogne e le falsificazioni che si sono stratificate nei decenni.
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“I PROCESSI ALLE IDEE: SETTANT’ANNI FA QUELLO AI FAR E A EVOLA PER LA LEGGE SCELBA” (SECONDA PARTE)
di Sandro Forte
segue dalla prima parte
Il processo si aprì il 10 ottobre 1951 con titoloni sui giornali e grande affluenza di pubblico dinanzi alla prima Corte d’Assise di Roma, presieduta dal dottor Sciaudone. Durante una delle udienze – ricorda il libro “Ordine Nuovo parla” – il commissario Immè si lasciò sfuggire che “è stato un dirigente nazionale del Msi a denunciare alla polizia la corrente di ‘Imperium’ come espressione più o meno legale dei Far”, ma si rifiutò di farne il nome. Non se la cavò meglio Federico Umberto D’Amato, estensore del rapporto contro i neofascisti, il quale si avventurò in un’analisi del pensiero di Evola sulla base di un ciclo di conferenze che il filosofo aveva tenuto in Germania. Lo stesso pubblico ministero Sangiorgi comprese che il dibattimento si stava avviando verso un terreno minato, ossia la criminalizzazione del dissenso, e così sostenne nella sua requisitoria del 5 novembre che il reato contestato (la violazione della legge Scelba) poteva sussistere solo nell’ipotesi di un tentativo di ricostituire il partito fascista con mezzi illeciti e violenti, non in quello dell’affermazione di idee più o meno fasciste con i mezzi legali della democrazia. In linea con questa tesi Sangiorgi chiese la condanna di Evola ad otto mesi carcere ma per il solo reato di apologia di fascismo, mentre sollecitò condanne pesanti per gli altri imputati: 7 anni per Clemente Graziani, Fausto Gianfranceschi e Franco Dragoni, pene inferiori per altri 17, l’assoluzione per i rimanenti.

Il nuovo volume pubblicato dal giornalista Sandro Forte
Le accuse contro Evola riguardavano sostanzialmente quanto scritto sulla rivista “Imperium”, dunque un classico “reato d’opinione”. Evola accettò l’inattesa disavventura con estrema indifferenza e olimpico distacco. Anzi, a leggere la sua “Autodifesa”, si ebbe la sensazione di una sorta di sua “aria divertita”, al cospetto di accusatori tanto faziosi e in malafede quanto culturalmente sprovveduti. Nutrito e di grande prestigio il collegio difensivo, in cui spiccava la presenza del professor Francesco Carnelutti, un principe del Foro romano (cfr. “I processi alle idee”). Evola comparve in aula portato in barella nell’udienza del 12 ottobre. Spiegò innanzitutto le ragioni della sua vicinanza ad “Imperium”: da una parte l’insistenza della rivista “sulla necessità di una rivoluzione interna, spirituale, dell’individuo, come presupposto della lotta politica”; dall’altra la collocazione dei giovani redattori all’interno del Msi su “posizioni di destra, legate a valori spirituali e gerarchici, contro la tendenzialità socialistoide largamente rappresentata in quel partito”. Evola comunque sottolineò la sua distanza da ogni attivismo violento e fece notare di aver sostenuto sempre le stesse tesi in tutti i suoi scritti. Quanto al passato regime, rivendicò di averlo sostenuto in quanto portatore di principi gerarchici e aristocratici di ben più antica origine, derivanti da “una tradizione superiore e anteriore al fascismo”, ma anche di aver criticato con asprezza il totalitarismo, lo Stato etico gentiliano e la socializzazione tentata sotto la Rsi. Dopo aver letto alcune citazioni dei suoi libri, in cui dimostrò di essere stato sempre contrario ad ogni forma attivistica del Msi, il filosofo affermò tra l’altro che, stando ai termini dell’accusa, avrebbe avuto l’onore di vedere seduti al banco degli imputati autorevoli personaggi come Aristotele, Platone, il Dante di “De Monarchia”, fino a Metternich e Bismarck. Di particolare rilievo la definizione di razzismo: “Il razzismo che ho difeso – sostenne Evola nella sua “Autodifesa” – lungi dall’essere un estremismo, rientra nei tentativi che avevo intrapreso, anche in altri campi, per rettificare delle idee che nel fascismo, e altresì nel nazionalsocialismo, andavano sviluppandosi in una direzione deviata. Così io opposi al razzismo materialista e volgarmente antisemita un razzismo spirituale introducendo il concetto di ‘razza dello spirito’ e sviluppando su tale base una dottrina originale”. Quanto all’accusa di fascismo, “io ho difeso e difendo ‘idee fasciste’ non in quanto sono ‘fasciste’, ma nella misura in cui riprendono una tradizione superiore e anteriore al fascismo, in quanto appartengono al retaggio della concezione gerarchica, aristocratica e tradizionale dello Stato, concezione avente carattere universale e mantenutasi in Europa fino alla Rivoluzione francese. In realtà le posizioni che ho difeso e che difendo, da uomo indipendente – perché non sono mai stato iscritto a nessun partito, né al Pnf, né al Prf, né al Msi – non sono da dirsi ‘fasciste’, bensì tradizionali e controrivoluzionarie. Tutto questo risulta nel modo più chiaro dalla mia opera fondamentale, rimessa alla Corte, ‘Rivolta contro il mondo moderno’”.

Francesco Carnelutti, noto avvocato e giurista che, pur di estrazione liberale, accettò di difendere Evola nel processo-farsa intentato ai danni del Barone.
Nella sua arringa difensiva, il 6 novembre, Carnelutti lesse alcune pagine di Evola in cui appariva evidente l’esaltazione dell’individuo, cioè quanto di meno fascista si potesse immaginare: “Ciò che Evola esalta è la virilità, ma non quella fisica, bensì la virilità spirituale”. Il penalista non risparmiò accuse alla polizia per le modalità dell’arresto di Evola, senza neppure l’ombra della flagranza di un ipotetico reato, e per avergli contestato di aver predicato ai giovani “lo spirito legionario”. Ma di cosa si trattava? Carnelutti citò le parole di Evola: “Nulla ha imparato dalle lezioni del recente passato chi si illude oggi circa le possibilità di una lotta puramente politica e circa il potere dell’una o dell’altra formula o sistema cui non faccia da precisa controparte una nuova qualità umana. Ecco un principio che oggi quanto mai dovrebbe aver evidenza assoluta: se uno Stato possedesse un sistema politico o sociale che in teoria valesse come il più perfetto, ma la sostanza umana fosse tarata, ebbene quello Stato scenderebbe prima o poi al livello delle società più basse, mentre un popolo, una razza capace di produrre uomini veri, uomini dal giusto sentire e dal sicuro istinto raggiungerebbe un alto livello di civiltà e si terrebbe in piedi di fronte alle prove più calamitose anche se il suo sistema politico fosse manchevole o imperfetto. Si prenda dunque posizione contro quel falso realismo politico, che pensa solo in termini di programmi, di problemi organizzatori partitici, di ricette sociali ed economiche. Tutto ciò appartiene al contingente, non all’essenziale. La misura di ciò che può essere ancora salvato dipende invece dall’esistenza o meno di uomini che ci siano dinanzi non per predicare formule ma per essere esempi”. Carnelutti così concluse la sua arringa: “Per aver detto queste cose alla gioventù italiana Evola dalla polizia è stato definito come un pazzoide, trattato come un delinquente, arrestato, perquisito, denunciato e tenuto per sei mesi in galera!”.
La sentenza venne pronunciata il 20 novembre 1951 dopo una lunga riunione in camera di consiglio (dieci ore: un record per quei tempi): la Corte d’Assise assolse ventitré imputati (fra cui Evola, Francesco Petronio, Egidio Sterpa, Roberto Melchionda ed altri) con formula piena per non aver commesso il fatto; Pino Rauti, Enzo Erra, Francesco Giulio Baghino, Mario Gionfrida ed altri per insufficienza di prove, e ne condannò tredici, ritenendoli aderenti (non promotori) ai Far e pertanto colpevoli di aver tentato di ricostituire il partito fascista. Graziani, Gianfranceschi a Dragoni (accusati anche di detenzione e lancio di ordigni esplosivi) furono condannati a un anno e undici mesi di reclusione ciascuno, pene inferiori per gli altri.
Scarcerato dopo il processo e tornato nella sua abitazione di corso Vittorio, Evola continuò a scrivere e la sua casa divenne meta dei tanti giovani “spiritualisti” o Figli del Sole, come verranno d’ora in poi chiamati dagli altri giovani di destra. Nel 1953 Evola pubblicò “Gli uomini e le rovine”, “l’ultimo tentativo di promuovere la formazione di un raggruppamento della vera Destra”. Il saggio, che aveva prefazione significativa di Junio Valerio Borghese, diverrà la bibbia di Ordine Nuovo, che proprio quell’anno stava nascendo. La salute andava peggiorando: un primo scompenso cardiaco si manifestò nel 1968, un secondo nel 1970. Il filosofo iniziò ad avere difficoltà respiratorie ed epatiche. Poco prima della morte dettò lo statuto originario di quella che sarebbe diventata la Fondazione Julius Evola per la difesa dei valori di una cultura conforme alla Tradizione. Evola morì l’11 giugno del 1974 nella sua casa romana. Pur costretto sulla sedia a rotelle, volle morire in piedi: alcuni amici lo tennero eretto durante gli ultimi istanti di vita di fronte alla finestra della sua stanza che guarda il colle del Gianicolo. Nella camera ardente, allestita presso l’abitazione, i giovani di Ordine Nuovo si presentarono tutti con un garofano rosso all’occhiello, proprio per distinguersi dagli altri neofascisti. L’esecuzione testamentaria fu affidata a Paolo Andriani, il quale riuscì, dopo molte peripezie, a far cremare il corpo – come da esplicita richiesta del defunto – presso il cimitero di Spoleto. Un’urna contenente le ceneri venne consegnata alla guida emerita del Cai Eugenio David, compagno di scalate di Evola in giovinezza, e calata nel crepaccio del Lyskamm Orientale sul Monte Rosa dal direttore del Centro Studi Evoliani di Genova, Renato Del Ponte. Una seconda urna si trova invece nella tomba di famiglia al cimitero del Verano (cfr: “Ordine Nuovo parla”).
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