di Julius Evola
tratto da “Il Conciliatore”, XIX, 4, aprile 1970 (poi in “Fenomenologia della sovversione, l’Antitradizione in scritti politici del 1933-70“, a cura di R. Del Ponte, Edizioni Sear, Borzano, 1993)
Uno dei segni dello sfaldamento della cultura attuale è l’attenzione che si concede al cosiddetto movimento contestatario, in genere, e nella sua forma particolare di «movimento giovanile». Non che tale movimento non abbia la sua importanza, al contrario: ma esso l’ha soltanto fattualmente, come un indice dei tempi, ed è unicamente in questi termini che esso dovrebbe venire considerato.
Una reazione violenta contro gli aspetti negativi del mondo attuale è il «visus» delle correnti in questione; però è ancor più caratteristico che in esse si tratta di manifestazioni istintive disordinate e anarcoidi, che in nessun modo si legittimano con l’indicazione di ciò in nome di cui si nega e si contesta. Quand’anche non sia evidente la soggiacenza ad influenze marxiste o comuniste, il fondo «esistenziale» di questa gioventù contestataria è assai sospetto. Un noto corifeo di essa, Cohn-Bendit, ebbe a dire che ciò per cui si combatte sarebbe un «uomo nuovo»; però ci si è dimenticati di dire quale esso sia, e se per caso per questo «uomo nuovo» dovesse servire da modello l’immensa maggioranza dei contestatori attuali nella loro individualità, nel loro comportamento e nelle loro scelte elettive, vi sarebbe solo da dire: grazie, ne facciamo a meno.
Data la carenza di una vera controparte positiva e la predominanza di un fondo irrazionale, non è malevolo dire che il movimento contestatore, più che di una analisi culturale meriterebbe uno studio a carattere esistenziale-psicanalitico. È ciò che ci sembrava si fosse proposto un volumetto recentemente uscito (ed. RAI) dal titolo Psicodinamica della contestazione, in quanto l’autore, M. Moreno, è uno studioso appunto nell’anzidetto campo delle ricerche psicologiche moderne. Ma leggendolo appare quanto simili ricerche siano, in fondo, sprovviste dei princìpi necessari per giungere a un qualche risultato serio e plausibile.
Quando in questo studio del Moreno come caratteristiche del contestatorismo contemporaneo si indica anzitutto l’antiautoritarismo, conseguentemente la difesa dell’istintività contro ogni forma di «repressione» (specie nel campo sessuale), poi l’orientamento anarchico, non si va oltre gli aspetti più ovvi e appariscenti, non si tocca ancora il dominio degli impulsi profondi e inconsci di cui si occupa la psicanalisi. Si entra in questo dominio soltanto in quanto, dopo aver definito «patriarcale» (con riferimento al corrispondente esercizio di una autorità) il tipo del sistema che si contesta, si fa entrare in giuoco il famoso complesso edipico. Per la psicanalisi freudiana vale notoriamente come un dogma che nei termini di un torbido remoto retaggio ancestrale, rivivificato da certe presunte esperienze infantili, ognuno di noi sarebbe affetto da tale complesso; il quale comporta una rivolta contro il padre fino alla volontà di sopprimerlo. La prorompenza collettiva di un tale complesso latente sarebbe una delle radici sotterranee della contestazione attuale.
Il che, persuade poco. Anzitutto bisognerebbe dimostrare che il «sistema» attuale è improntato dall’ideale del «padre» e della sua autorità. Ora, di ciò poteva, al massimo, essere il caso, in parte, per l’Europa fino alla prima guerra mondiale.Ma nel mondo attuale imperano democrazia, socialismo, egualitarismo, socialitarismo, ecc.: tutte forme che hanno il segno opposto, perché è giusto quel che qualcuno ha affermato, ossia che tutte queste forme politico-sociali hanno un carattere «feminile» e «materno››. Segno maschile e «paterno» lo ha invece l’ideale di quello Stato monarchico, aristocratico e gerarchico di cui oggi è difficile trovare ancora qualche traccia. Ma per una confutazione e, insieme, per una chiarificazione della tesi edipica, anzitutto ci si può rifare proprio alla teoria psicanalitica perché essa riconosce l’«ambivalenza» del complesso edipico, ossia: chi soggiace ad esso non odia soltanto il padre, ma anche lo ammira e l’invidia; vuole eliminarlo soltanto per prenderne il posto e goderne i privilegi.
Ebbene, il sottofondo della «contestazione» è rilevato dal fatto che in essa questo aspetto manca. Il «padre» non è per nulla ammirato e «invidiato». Non se ne vuole prendere il posto. Ogni forma di autorità fa vedere rosso la nuova generazione. Viene così in evidenza l’altra, accennata caratteristica, l’aspetto puramente istericamente anarchico, a cui qui in fondo tutto il resto fa da pretesto.
Il che attesta, dal punto di vista umano generale, un fenomeno regressivo. Bisognerebbe avere una buona volta idee chiare intorno alla tanto deprecata «repressione». Platone ebbe a dire che coloro che non dispongono di un principio sovrano in sé, è bene che lo abbiano almeno fuori di sé. Così ogni ordinamento normale comporta certe limitazioni le quali sono intese meno a legare che non a sorreggere chi non è capace di darsi da sé una legge, una forma, una disciplina.
Naturalmente, un sistema può entrare in crisi e sclerotizzarsi; allora quelle limitazioni possono rivestire l’aspetto ottuso semplicemente «repressivo», nel tentativo di contenere ancora in una certa misura il disordine e la dissoluzione. Ma per passare alla «contestazione», in tal caso bisognerebbe legittimarsi, mostrare cioè che non si tratta di una pura insofferenza per qualsiasi disciplina interiore, bensì dell’impulso verso una vita più autentica. Ma oggi si è lungi dal poter constatare qualcosa di simile.
Da constatare è invece l’identificarsi degli individui alla parte istintiva, irrazionale e informe dell’essere umano (al suo «sottosuolo»), parte che in ogni tipo umano superiore non è «repressa» ottusamente, ma tenuta a una certa distanza e in freno. Le connessioni del contestatorismo con la cosiddetta rivoluzione sessuale negli aspetti più spuri e promiscui di essa, la combutta con «capelloni», drogati e simili, sono significative, come è significativo lo spettacolo offerto dai molti settori nei quali al «sistema» repressivo sta subentrando sempre più quello «permissivo».
Che uso si fa di questo nuovo spazio, di questa nuova libertà? I sintomi, qui, si moltiplicano, a mostrare che tutta la «rivolta» è condizionata dal basso; è l’opposto di quella rivolta, in fondo aristocratica, che ancora poteva caratterizzare alcuni individualisti della precedente generazione, a partire da Nietzsche, dal miglior Nietzsche. E proprio alcune frasi di Nietzsche (autore che non si trova mai citato dai contestatori di oggi, infatuati al massimo di Marcuse e compagni, perché sentono di istinto la diversa natura, il carattere aristocratico, della sua ben più vasta rivolta) qui vale citare. Dice Zarathustra: «Ti dici libero? Voglio conoscere i pensieri che in te predominano. Non mi importa sapere se tu sei sfuggíto ad un giogo: sei tu uno di quelli che avevano diritto di sottrarsi al giogo? Molti sono coloro che gettarono via il loro ultimo valore nel punto in cui cessarono di servire. Libero da che cosa? Che importa questo, a Zarathustra? Il tuo occhio deve annunciare, sereno: libero per fare che cosa?»
E Zarathustra avverte che essere soli senza legge alcuna sopra di sé, con la propria informe libertà, potrà significare una condanna e una catastrofe.
Così, a voler fissare il luogo della forza motrice e della «psicodinamica» del movimento contestatario, esso appare situato proprio in quella zona oscura, in fondo sub-personale e sub-intellettuale, elementare, dell’essere umano sulla quale la psicanalisi ha concentrato l’attenzione; si tratta di emergenze regressive ed esplosive di questi strati, parallele alle incrinature molteplici di un mondo in crisi. Riconoscere gli aspetti contestabili e deprecabili di questo mondo, a tale riguardo non cambia nulla. Quando un moto rivoluzionario manca di valori autenticamente restauratori e non è portato da un tipo umano esponente di una superiore legittimità, l’unica cosa da attendersi è il passaggio ad uno stadio ancor più critico e distruttivo che non quello da cui si sono prese le mosse.
Le presenti note avendo preso lo spunto dal volumetto del Moreno, per finire noteremo che questo docente di psichiatria, dopo aver indicato l’interpretazione edipica puramente freudiana del sottofondo inconscio della contestazione, in parte la critica e la respinge e ritiene che si debba piuttosto far ricorso ad una teoria di C. G. Jung. Come si sa, lo Jung ha una concezione un po’ diversa da quella del Freud. Egli ha ripreso da Platone il concetto di «archetipo» e dal piano metafisico lo ha trasposto in quello del cosiddetto «inconscio collettivo».
Nell’inconscio collettivo vivrebbero sempre in forma latente, nel profondo degli individui, certe strutture tipiche dinamiche, appunto gli «archetipi», suscettibili di riemergere in certe condizioni critiche individuali o collettive, trasportando le persone. Di questi archetipi, ve ne sarebbero diversi, legati anche a certe «figure» simboliche. Uno di essi sarebbe il puer aeternus, incarnante l’aspetto precosciente e nativo dell’anima collettiva che, come il fanciullo, è «l’avvenire in potenza», quindi anche principio di rinnovamento, ricupero in naturalezza virale di tutto ciò che un individuo o una cultura ha respinto o represso.
Ebbene, alla luce della psicanalisi, secondo il Moreno, il movimento contestatario attesterebbe l’affioramento travolgente di questo archetipo, del puer aeternus, nella nuova generazione, la quale non si riconosce più nei simboli scaduti e imposti del «sistema». Così, tutto sommato, la sua conclusione è un giudizio positivo.

Carl Gustav Jung (1875 – 1961)
Per seguire il Moreno in questa costruzione stiracchiata dovremmo cominciare col prendere sul serio la «mitologia» dello Jung, che invece noi respingiamo non meno di quella del Freud, per ragioni fondate che altrove abbiamo avuto occasione di esporre. Questa fisima del puer aeternus, in fondo, ci sembra stare poi su una linea non troppo diversa da quella della feticizzazione della gioventù, del «giovanilismo», altro fenomeno regressivo contemporaneo: il giovane, voce dell’avvenire portatore di valori nuovi e autentici, al quale si dovrebbe lasciar libera ogni via e dal quale si dovrebbe imparare, invece di educarlo e di formarlo.
Una feticizzazione perfino del bambino, peraltro, aveva già preso le mosse, presso ad anticipazioni antiautoritarie, con la pedagogia della Montessori e di altri pedagogisti, ed è stata sviluppata con la scoperta del bambino quale «creatore», «artista», ecc. Con lo Jung, il puer è passato al rango di un archetipo e, come si è visto dalla interpretazione del Moreno, in un archetipo rivoluzionario positivo.
L’immagine in fondo simpatica che il Freud aveva tracciato dell’infante, presentandolo invece come un «perverso polimorfo», è stata dunque capovolta. Per conto nostro, noi possiamo accettare il puer aeternus in atto nel subconscio dei contestatori (secondo la visuale del Moreno), ma soltanto prendendo il bambino come bambino, demitizzato, quindi per un riferimento ad un primitivismo o infantilismo assai fastidioso. E questo puer aeternus o no, pertanto sarebbe bene mandarlo a letto, per virulento e prepotente che sia; qualora non si vivesse in un mondo rinunciatario.
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