Realismo, architettura nuova e fascismo

Proponiamo oggi un articolo di Evola ben poco noto e che potremmo definire un inedito, in senso relativo, come specificato in altri casi, in quanto probabilmente trattasi di un articolo non più ripubblicato dopo la prima uscita su “Regime Fascista” dell’amico Roberto Farinacci nel marzo 1933. Il tema, comunque insolito per Evola, è quello dell’architettura, e, in particolare, quello della polemica che in quegli anni prendeva corpo in Italia tra i propugnatori delle nuove avanguardie dello stile architettonico cosiddetto “razionalista” o “funzionale”, che si erano raggruppati nel cd. MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale), in cui era confluito lo storico “Gruppo 7” (che riuniva gli architetti Figini, Frette, Larco, Pollini, Rava, Terragni e Castagnoli, quest’ultimo poi sostituito da Adalberto Libera, che diverrà l’animatore entusiasta del movimento) ed un fronte “conservatore”, caratterizzato sia dagli architetti cd. accademici che da singole personalità o gruppi strenuamentre ostili alle creazioni plastiche, squadrate, massicce, “metafisiche” dei razionalisti e, più in generale, alle varie avanguardie novecentesche.

Evola, senza volersi schierare aprioristicamente da una parte o dall’altra, analizza il problema partendo ovviamente dai principi, dalla dottrina. Il barone distingue fra epoche nella storia “organiche, costruttive, nelle quali torna il «primordiale» come una forma direttamente formatrice dall’interno“, ed epoche “razionalistiche, ‘civilizzate’  in senso negativo, estetistico-borghesi, disperse in esteriorità e in valori puramente umani“. In architettura, ad esse corrispondono, rispettivamente, da una parte “stili architettonici elementari”, “stili di potenza” (il dorico, il romano, ecc.),  le cui forme tipiche si (im)ponevano direttamente, quasi come “prolungamenti delle forze delle cose nell’uomo quale costruttore primordiale“; dall’altra parte, si ha “un’architettura di decadenza“, priva di organicità, persa nella ripetizione inanimata e sterile delle forme primitive e nell’emergere di soggettivismi e di “preoccupazioni decorativistiche“. Lo stesso concetto di “bello”, si spostava da un piano di pura, essenziale oggettività, al soggettivismo confuso e inorganico. In fondo, si trattava di riproporre i contenuti della contrapposizione fra il periodo classico dell’arte greca, caratterizzato dall’essenzialità dello stile dorico, ed il periodo ellenistico, caratterizzato dall’estetismo “patetico” e ridondante dello stile corinzio.

Evola reputava inevitavile, in tal senso, plaudere alla nuova architettura funzionale, “in quanto essa vuole reagire ad un’epoca architettonica di tipo ‘decadente’, decorativistico-borghese“, aspirando “ad un ritorno al principio di organicità e dello ‘stile elementare‘ ” e “chiedendo che il problema estetico coincida in architettura con quello realistico, cioè tecnico-costruttivo“. Allo stesso tempo, il barone non poteva esimersi dal criticare gli eccessi, gli estremismi e le prime forme di “manierismo” che inevitabilmente anche il movimento razionalista stava sviluppando, e che avrebbero condotto, soprattutto dalla fine degli anni Trenta in poi, ad una involuzione notevole del movimento, in cui il camaleontismo stilistico e teorico di una pur grande (ed ingombrante) figura come Marcello Piacentini emerse in tutta la sua problematicità, rendendo permanenti degli equivoci e dei compromessi architettonici che avrebbero condotto alla “scadente pratica edilizia di uno pseudo-moderno ovvero di un neoclassicismo ‘col tiralinee’, in cui gli apporti dell’esperienza moderna si arrestavano ad una semplificazione di ‘pelle’, di facciata“, come scrisse Carlo Fabrizio Carli (1), annichilendo tanto l’originalità e la forza del primo razionalismo, tanto le qualità di molti architetti tradizionalisti, “legate all’uso degli stili storici come parametri della composizione” (2).

E’ interessante notare, anche in tale contesto, il richiamo di Evola al “primordiale” e all'”elementare”: qui, ce ne parla a proposito delle “epoche organiche” della storia e dei conseguenti stili architettonici “di potenza”, ma il barone aveva e avrebbe scritto ancora a proposito della possibilità di ridestare forze spirituali e primordiali sopite, latenti nell’uomo contemporaneo, e di ricreare un tipo di uomo nuovo, in senso tradizionale, rendendo permanenti, stabili e strutturali gli effetti delle esperienze potenzialmente trasfiguranti per l’uomo, in particolare quelle che lo mettono a contatto diretto con il primordiale, l’elementare. Tali esperienze potevano riguardare il contatto con le forze della natura (la montagna, il volo, la navigazione), ma anche, con richiamo al miglior Juenger, l’esperienza della guerra e delle trincea, se correttamente intesa, da riportare nella vita ordinaria in tempo di pace (la celebre “mobilitazione permanente” jungheriana) e l’esperienza del dominio della tecnica e della meccanizzazione del mondo del lavoro moderno e contemporaneo da parte dell’Operaio nuovo tipo umano chiamato a dominare le forze distruttrici “primordiali” scatenate in questo nuovo contesto, svincolando la tecnica dal servizio della società borghese e ad affermandola come una grandezza autonoma, unità di idealità e di pratica, di fede e di stile, senza implicazione classiste.

Il contatto con l’elementare ed il primordiale all’esterno (macrocosmo) poteva ridestare l’elementare, il primordiale, inteso come essenziale, ritorno all’origine, semplificazione assoluta, nell’interiorità umana (microcosmo). Così, anche l’idea del bello, un’estetica “asciugata” di ogni velleità soggettivistica o di ogni inutile orpello o barocchismo, un’arte oggettivizzata, un’architettura funzionalmente dura e doricamente essenziale, dovevano essere riflessi di un tale tipo di “contatto” e di riscoperta del “primordiale”.

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di Julius Evola

tratto da “Il Regime Fascista”, 12 marzo 1933

In alcuni corsivi recentemente usciti su Regime Fascista, nei quali abbiamo creduto riconoscere lo stile dello stesso animatore di questo foglio, è stato fatto cenno a quel problema della nuova architettura, che in questi giorni ha determinato, per ragioni assai varie e spesso non troppo limpide, una vera inflazione di polemiche, di attacchi, contrattacchi e ritorsioni d’ogni genere. Nell’ultimo di tali corsivi, mentre si citavano le dichiarazioni di Sua Ecc. Di Crollalanza (3) stigmatizzanti «certi tentativi di importazione nella terra classica dell’arte di alcune brutture nordiche e asiatiche», non si nascondeva una decisa avversione, contro alcune forme moderne di architettura, le quali vorrebbero perfino rivendicare una «ortodossia» fascista nella loro pretesa di essere rivoluzionarie e affermatrici, di nuovi principii.

Il celebre Palazzo della Civiltà del Lavoro, ribattezzato “Colosseo quadrato”, simbolo dell’E42/EUR (free image from wikipedia commons sotto Creative Commons Attribution 2.0 Generic license, author: dalbera, Paris) (cliccare per ingrandire)

A tale proposito, ci sarà forse permesso di fare alcune considerazioni, con le quali noi non intendiamo per nulla entrare nel tumulto dell’attuale polemica in pro e in contro la cosidetta architettura «funzionale», ma soltanto venire a delle precisazioni in sede di principio, dunque ponendoci in un piano superiore a quello in cui tale polemica si svolge e senza riferirci a questo o quel particolare progetto o tipo di nuova architettura italiana, o straniera.

Noi crediamo di aver testimoniato in fin troppe occasioni una attitudine decisamente «antimoderna» perché, nel sostenere che nell’architettura funzionale vi sono istanze meritevoli di riconoscimento e, a dir vero, proprio dal punto di vista fascista, perché, nel sostenere ciò, si corre pericolo di essere confusi con i peregrini, spesso, interessati paladini «futuristici» di tale architettura.

Non spetta sicuramente a noi dire a chi massimamente ha rappresentato e rappresenta l’aspetto più rivoluzionario e realistico del Fascismo che l’elemento antiastrattistico, antirettorico, fatto di virilità e di romana potenza è ciò che nello stesso Fascismo vi è di centrale e di davvero essenziale. In genere, può porsi una antitesi fra epoche razionalistiche, «civilizzate» in senso negativo, estetistico-borghesi, disperse in esteriorità e in valori puramente umani, prese da vane effervescenze romantiche — ed epoche dure, organiche, costruttive, nelle quali torna il «primordiale» come una forma direttamente formatrice dall’interno. Per noi, una tale opposizione sta a caratterizzare lo spirito vero del Fascismo: il Fascismo è spiritualmente rivoluzione, in quanto liquida un’epoca borghese, romantico-individualistica, crepuscolare e pletorica attraverso l’affermazione di un principio «organico» e di un nuovo chiaro classicismo dell’azione e del dominio.

Ora, per quanto possa sembrare strano, è da premesse così generali che si deve partire per mettere a fuoco la stessa vexata quaestio della nuova architettura. Come considerazione storica è noto che tali tendenze affermano l’opposizione fra periodi di stile architettonico e periodi di decadenza, dì stratificazione o imitazione architettonica. Da una parte vi sarebbero stili architettonici elementari le cui forme tipiche furono non tanto invenzioni della fantasia estetica degli architetti quanto invece i risultati in condizioni precise imposte dai materiali e dai mezzi tecnici disponibili nei varii tempi e nei varii paesi. Questi stili — il dorico, in certi aspetti l’egizio, ed il romano e, in genere, ciò che è arcaica traccia comune al ciclo delle prime civiltà ariane — sono stili di potenza. Più che «volere» sé stessi e che essere «pensati» quale «arte», essi si pongono direttamente quasi come prolungamenti delle forze delle cose nell’uomo quale costruttore primordiale. Di contro a tali stili, sta invece l’architettura di decadenza: è quella in cui il getto creativo è esaurito non si ha più nulla di veramente organico, alla ripetizione inanimata delle forme primitive si sovrappongono preoccupazioni decorativistiche che con ornati, fregi, stucchi, varianti e così via introducono, con la scusa dell’ «estetica» e del «gusto», un elemento inutile e arbitraristico ad alterare e a sfaldare il carattere di purità, di semplicità e di potenza propria agli stili primitivi.

Veduta dall’alto del centro originario in edificazione di Littoria, oggi Latina (cliccare per ingrandire)

Qui ci preme sottolineare in modo molto preciso che noi prendiamo in considerazione solo i principii, la dottrina. Ma, a questa stregua, come si potrebbe essere contro la nuova architettura funzionale, in quanto essa vuole reagire ad un’epoca architettonica di tipo «decadente», decorativistico-borghese, priva di originalità, semibarocca da una parte, ingombra dall’inorganico e dallo stucchevole del «floreale», del «liberty» dall’altra? In quanto essa aspira ad un ritorno al principio di organicità e dello «stile elementare» chiedendo che il problema estetico coincida in architettura con quello realistico, cioè tecnico-costruttivo, e valorizzando quindi il tipo virile e duro del costruttore pure di fronte a quello estetizzante dell’ «architetto» preoccupato di sollecitare il «buon gusto» cittadino?

Naturalmente, per poter apprezzare ciò che di valido vi è in tentativi del genere (i quali si possono dire moderni solo nei confronti del più prossimo ieri, nel loro spirito riportandosi essi invece, come si è detto, al «premoderno», all’elementare e al primordiale) occorre aver già operata in sé una trasformazione di sensibilità: occorre aver lasciati indietro i residui di ogni compiacimento estetizzante, di ogni voluttà romantica per il vago, il «grazioso» e il senza forma — occorre avere sentito l’istinto per qualcosa di più forte di ciò che è soltanto «arte».

Se dinanzi a certi tipi di architettura organica, sia moderna che arcaica, molti restano sconcertati, quasi col senso di non saper più dove far sostare e riposare l’occhio in cerca del «bello» — ciò accade perché nell’ordine di tali costruzioni si ha un capovolgimento della stessa nozione usuale, romantico-borghese, del «bello». Infatti se il bello prima era chiesto alla fantasia, al gusto e alla personalità «estetica» del singolo quale artista — ora esso diviene un dominio dipendente nel modo più stretto dalla scienza e dalla potenza. Prima esso era qualcosa di soggettivo, di istintivo, di arbitraristìco o di stereotipo — ora corrisponde ad una necessità del tipo di quella cui obbedisce la forma esatta di una macchina moderna, esso scende in seno alla più oggettiva delle realtà coincidendo con forme di questa realtà che sono pure in quanto non asservite a nessuna «esigenza» di pathos o di estetica preconcetta. Il bello qui si identifica allo stile che può sorgere spontaneamente dalle forme volute dalla tecnica e dal calcolo a che la materia architettonica realizzi perfettamente, matematicamente, senza nulla in più o in meno, ciò che l’uomo si è proposto. Onde scompare la persona, rimane un metodo e uno stile di pura oggettività.

Il celebre ingresso monumentale “squadrato” del Rettorato dell’Università La Sapienza di Roma, opera di Marcello Piacentini

Naturalmente di buone intenzioni è pavimentato anche il lastrico dell’inferno, sì che noi non penseremo certo di contestare il carattere, di aborto a molte cose messe su in nome di tali principii. Vi è di più e di peggio: non di rado è accaduto alla architettura «razionale» odierna di cadere in una vera e propria «maniera» e di tradire a pieno i suoi principii, nel senso che per ottenere ad ogni costo forme esotiche in voga, lineari, nude, stilizzate alla moderna, si sono escogitale complicazioni costruttive d’ogni genere con sperpero di mezzi e dunque con preconcetti antiorganici di un’estetica … a rovescio. Tuttavia, se noi mettiamo da parte queste deviazioni e non ci fissiamo su nessun esempio in particolare, come si potrebbe chiamare antifascista il principio di un’architettura antiromantica, fatta di pura oggettività, animata da un’aspirazione classica al dorico, nel senso di forma pura ed esatta, suggello invisibile e consacrazione della scienza dell’uomo in quanto giunta ad impossessarsi delle varie forze di massa e di resistenza e ad incatenarle in equilibrii semplici di potenza costruttiva al disopra di ogni «graziosità» e di ogni adulazione del sentimento?

Si dirà: un’architettura che prenda le mosse da tali massime sarà priva di carattere, sarà senza volto e senza tradizione, quindi sarà antinazionale epperò anche antifascista. E’ l’obbiezione più comune — ma qui bisogna intendersi bene. Là dove gli elementi «scienza» e «tecnica» assumono una parte decisiva e determinante, è naturale che non si possa restare sul piano proprio a certi valori umani o etnici. Tuttavia nessuno penserà di chiamar antinazionale e antifascista il calcolo differenziale, la meccanica o la statica dei materiali per il fatto che se esse valgono, non possono valer per noi in modo diverso che per, altri popoli. E poi, bisogna ancora una volta distinguere fra supernazionalismo e antinazionalismo, bisogna intendere che se lo internazionalismo nega una tradizione, una universalità può ricomprenderla ed integrarla con l’avviarla ad un piano e ad un compito di imperialità. Imperialismo non è nazionalismo, ma universalità. Tutto ciò che è realtà pura, dominio, potenza, per sua natura è universale.

Veduta del Foro Mussolini (oggi Foro Italico) dallo Stadio dei Marmi (free image from wikipedia commons, donated from the Dutch National Archives, author Harry Pot Anefo, Creative Commons CC0 1.0 Universal Public Domain Dedication) (cliccare per ingrandire)

Il Fascismo non è solo «italianità» ma —  quale volontà romana e rievocazione del simbolo romano — è anche universalità. Uno stile supernazionale, universale, in linea di massima non saprebbe dunque disconvenire al Fascismo, però sotto questa riserva esiste un determinismo oggettivo per tutto ciò che è espressione condizionata dalla scienza e dalla tecnica. Però allo stesso modo che le leggi oggettive, valide per tutti, dell’armonia e del contrappunto non determinano, ma presuppongono il contenuto originale che attraverso di esse si esprime, così si può pensare ad uno stile universale ma in pari tempo qualificato dal «tono» e dall’impulso creativo, di un determinato gruppo di dominatori creatori di civiltà.

A nostro parere, è su ciò — non al di qua ma al di là dell’idea generica di un tipo organico antiborghese di architettura — che sì dovrebbe battere ed insistere dal punto di vista fascista, accusando impulsi insufficienti, deficienza di forza assoluta rivoluzionariamente formatrice, cattive imitazioni, nuovo manierismo. E se Farinacci, di fronte a certi aborti artistici (come del resto, crediamo anche di fronte a tanta mediocrità stereotipe del «buon gusto» borghese dell’800) sente ridestare in sé l’istinto di un Pietro Micca — egli proprio con ciò indica quel che manca a tanti profeti della nuova architettura a che i loro principii possano presentarsi a noi sotto luce ben diversa (4).

Un’ultima considerazione. Non è privo di significato che lo Stato che ha assunto ufficialmente i principii di una architettura puramente oggettiva, primordiale, anonima, razionalizzata, sia quello che, con, il Fascismo, si disputa un compito universale per il futuro europeo: lo Stato sovietico. Ora, rivoluzione antiborghese e realistica quanto il bolscevismo, anche in tale sede crediamo che al Fascismo spetti di opporre un simbolo universale ad un simbolo universale, di creare uno stile superpersonale, oggettivo, «elementare», ma sotto un segno opposto a quello in cui tende ad esprimersi e a dominare il «barbarico» della «civiltà proletaria» sovietica.

Note redazionali

(1) Cfr. Architettura e fascismo, Giovanni Volpe Editore, 1980;

(2) Ibidem;

(3) Araldo Di Crollalanza (1892-1986) fu un giornalista e uomo politico attivo durante il ventennio fascista e nel dopoguerra. Fascista della prima ora fin dal 1919, guidò gli squadrisi pugliesi durante la Marcia su Roma, fu console generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e podestà della sua città nativa, Bari, dal 1926 al 1928. Fu quindi prima sottosegretario (1928) e poi Ministro dei Lavori Pubblici dal 1930 al 1935. Dopo l’esperienza ministeriale, presiedette l’Opera Nazionale Combattenti dal 1935 al 1943, e nel 1939 assunse anche la presidenza della Commissione Lavori pubblici della Camera dei fasci e delle corporazioni. Il suo nome è rimasto legato, insieme a quello di Valentino Orsolino Cencelli, ai lavori per la bonifica dell’Agro Pontino, ma anche all’organizzazione dei soccorsi e della ricostruzione dopo il terremoto del Vulture nel 1930. Durante la RSI fu commissario straordinario per il Senato e la Camera, e nel dopoguerra continuò l’esperienza politica tra le fila del Movimento Sociale Italiano. Per vent’anni, dal 1956 al 1976, fu consigliere comunale a Bari, ed a lui è intitolato una parte del lungomare del capoluogo pugliese: infatti, sia come podestà che, successivamente, come sottosegretario e ministro dei Lavori Pubblici, diede un impulso fondamentale per i lavori di riqualificazione del lungomare barese, conferendogli il celebre aspetto monumentale.

(4) Un celebre episodio del duro scontro tra sostenitori dell’architettura razionalista e fronte accademico-conservatore, in cui lo stesso Farinacci, con molti articoli ed esternazioni, si distinse per le sue posizioni fortemente critiche verso il “novecentismo” ed i suoi “aborti”, si ebbe il 26 maggio 1934, in occasione del dibattito parlamentare che seguì alle vittorie dei Gruppi Michelucci e Piccinato nei concorsi per la stazione ferroviaria di Firenze e per l’edificazione di Sabaudia e la sistemazione urbanistica dell’intera area. Il dibattito si concluse con una dura e inappellabile condanna dei due progetti e con una sorta di “avvertimento” contro i progetti più oltranzisti per l’edificazione della Casa Littoria in Via dell’Impero (che non fu mai costruita), che rese necessario l’intervento dello stesso Mussolini in favore dei due progetti e, più in generale, delle avanguardie in ogni campo artistico, funzionali alla realizzazione di “un’arte rispondente alla sensibilità e alle necessità del nostro secolo fascista“, come recitava un comunicato dell’Agenzia Stefani commentando le parole del Duce. Dal verbale della seduta, pubblicato sulla storica rivista Casabella (n. 78 del giugno 1934) nell’ambito dell’editoriale “Mussolini salva l’architettura italiana” a firma del famoso architetto Giuseppe Pagano,  leggiamo i commenti sprezzanti di Farinacci: “E’ finita per il Novecentonon è roba italiana il Novecento. E’ bottega!


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