Con questa nuova intitolazione riproponiamo ai lettori un saggio molto importante tratto dalla storica rivista “Il Reazionario”, che uscì originariamente con il titolo di “Yoga e tantrismo”.
(Tratto da “Il Reazionario” n. 59)
Come sovente capitato nel corso dei nostri studi di questi ultimi anni, spunto di riflessione ed insieme soluzione specifica su argomenti potenzialmente a priori ostici, ci viene dalla lettura degli scritti di Julius Evola. L’argomento in dibattito è il razzismo, la lettura e il significato del quale vengono soventi posti in maniere che banalizzano il problema, portandolo su piani appartenenti al triste agone della politichetta da trivio.
Lo scritto che, invece, definiamo illuminante sul tema, è contenuto in Oriente e Occidente (1984), compendio di saggi vari edito postumo e strutturalmente costituito da traduzioni inedite in Italia di articoli a firma, appunto, J. Evola, precedentemente apparsi sulla rivista East and West a cavallo degli anni ‘50. Tra gli articoli, e al nostro scopo, è notevole “La Dottrina dello Svadharma e l’esistenzialismo”, testo originale in lingua inglese, pubblicato nell’Ottobre 1953, che pone in relazione alcune conclusioni esistenzialiste di scuola europea (da Kierkegaard a Jaspers) con la dottrina Indù del Dharma.
La base di partenza dell’esistenzialismo, le cui linee generali, per motivi ovvi, non possono essere qui trattate né espresse, è rappresentata dal problema insito al concetto di esistenza. Secondo Kierkegaard esistenza è il paradossale e contraddittorio punto di incontro ove convergono infinito e finito, eterno e temporale. Da qui deriva una sostanziale dimensione problematica dell’esistere stesso che si trova a rappresentare un punto di equilibrio instabile continuamente in bilico tra l’indefinito e il finito, tra il caduco e l’immortale. Ne deriva che l’uomo oggetto nel suo tempo, così definito e sostanziato, non può che rappresentare una tra le molteplici soluzioni possibili in cui avrebbe potuto estrinsecarsi la sua esistenza. Tali infinite possibilità, rappresentanti appunto la componente infinito-molteplice della esistenza – [che è] invece, evidentemente, a termine – sono tuttavia sussistenti e tendono, nel corso dell’esistenza dell’Io determinato, ad emergere e a trovare espressione (Heidegger); ciò porterebbe l’uomo alla necessità di un continuo ed eterno cercare, unito ad un continuo oscillare tra l’infinito delle molteplici possibilità ed il finito della esistenza determinata in un solo tempo e in un solo spazio (concetto che Evola paragona al Samsara indù).
Secondo Jaspers e Barth, il problema è in realtà da ribaltarsi: tutto ciò che è escluso in questa nostra attuale vita, in quanto una sola tra le particolari esistenze possibili si realizza (la vita di ciascuno, appunto), non può che procedere da una scelta. Questa scelta, operata prima di questo nostro spazio e tempo e dalla coscienza rimossa all’atto della nascita, è in realtà qualcosa di voluto: ne consegue che la missione realizzativa che spetta all’Uomo non è incentrata sul tentativo (ovviamente vano in partenza) di realizzare tutto ciò che non si è, ma piuttosto sulla realizzazione completa di ciò che si è; la prospettiva migliore per l’uomo è, pertanto, affidata al rispetto dell’etica della Fedeltà a questa scelta primordiale, scelta profondamente e costantemente minata dagli ondivaghi influssi che scaturiscono, appunto, da tutte le interferenze date dalle molteplici possibilità non realizzate (Heidegger). La soluzione filosofica proposta da Jaspers e Barth apre pertanto l’orizzonte su quell’etica di Fedeltà e Disciplina la cui origine pre-temporale e perciò in qualche modo divina, si estrinseca in noi e vuole la realizzazione suprema dell’Io proprio attraverso l’ascesi di ciò che si è e non di altro.

Karl Jaspers
Evola pone in stretta relazione queste riflessioni con le teorie indù di Dharma e Svadharma (1): la legge della natura propria determinata, rappresenta secondo la Tradizione, la Via unica di realizzazione. Si nasce così, per una scelta che discende da logiche prenatali, e tradire tali leggi, cercando vie di realizzazione diverse da quelle proprie, rappresenta colpa sia morale che ontologica: morale in quanto si tradisce sé stessi, contraddicendo la propria natura; ontologica in quanto un’azione siffatta rappresenta empietà nei confronti dell’Ordine Cosmico il quale subisce perversione e forzatura. La teoria della scelta di Jaspers e Barth, così come le leggi cosmiche di Dharma e Svadharma troverebbero (la prima) e trovano (le seconde), soluzione nelle dottrine della Preesistenza e degli Stati molteplici dell’essere; ma tali dottrine sono terra ignota sia per gli esistenzialisti che, in genere, per i pensatori Occidentali. Da qui, un’ombra inevitabile che cade sul luogo della scelta di Jaspers e Barth e sul perché dell’essere dell’uomo così ed ora. Ciò tuttavia non toglie interesse alla speculazione degli uni né tantomeno ai sillogismi evoliani in merito; ci apre, anzi, la possibilità di eseguire una notevole integrazione, utilizzando un’ulteriore definizione concettuale che ci proviene dall’Oriente Tradizionale.
Quella del Dharma è una Legge che, per analogia, può essere traslata su due piani “contigui”: la dottrina delle caste e il razzismo dello spirito. Una casta, secondo le dottrine indù, è stabilita dalla sussistenza di un gruppo quasi-omogeneo di individui legati da preesistenze e destini simili. Secondo gli indù, si nasce appartenenti ad una casta in base al risultato di quanto operato nelle precedenti esistenze e si realizza sé stessi seguendo la via ascetica tipica della propria natura. Inoltre, se razzismo è lo sforzo di classificazione degli individui o dei gruppi di individui sulla base delle differenze insite alla propria natura, possedere differenti Leggi o Vie realizzative dello Spirito (ovvia conseguenza del nascere qui ora o in America del Sud settecento anni fa), sancisce, evidentemente, un principio differenziatore e classificatorio fra uomini, ceppi, etnie e popoli. Entrambi i concetti sono legati a filo doppio alla nozione di Karma. Qui però ricorriamo alle definizioni date da Massimo Scaligero (Manuale pratico della meditazione).
Cosa deve, dunque, intendersi per Karma? Il termine sanscrito indica quella Legge trascendente in forza della quale tutto ciò che si manifesta nella presente vita è spiegabile con cause poste in precedenti esistenze del sé. Tutto ciò che nella vicenda quotidiana si verifica e si presenta come fatto fisico, ossia come evento capace di svolgersi sulla scena del manifestato, attesta origine karmica: non vi è il caso, non vi è l’improvviso, non vi è l’incomprensibile. Secondo la dottrina del Karma, l’evento che si verifica è già preparato, talora da secoli: esso perviene a noi come frutto di processi del passato in cui convergono elementi più o meno recenti.
Riguardo alla forma del verificarsi dell’evento, sono decisive le forze spirituali presenti, ossia le forze di libertà e di indipendenza dal Karma che l’individuo ha saputo sviluppare. Questo è un elemento fondamentale: la forma della manifestazione può essere mutata in senso migliorativo o peggiorativo a seconda del raggiungimento dell’autonomia dell’Io; ma comunque, come legge matematica, la Legge del Karma sarà ad estrinsecarsi. La realtà è che ogni evento tende a parlarci, come un simbolo, ci segnala qualcosa. In questo il mondo della necessità (Karma) fa appello al mondo della Libertà (Io) esigendo un atto interiore libero che, tramite [la] contemplazione meditativa dell’evento, porti a lettura di esso, ad interpretazione di quel linguaggio simbolico, in una parola alla Conoscenza. Karma dunque è un libro, il cui linguaggio, una volta decriptato, rivela allo sperimentatore il segreto della forma della propria esistenza personale, della propria via di realizzazione, del proprio metodo di liberazione dal Karma stesso, inteso ora come ineluttabile destino. Essere liberi dal Karma è, pertanto, divenire possessori dell’insegnamento profondo che le circostanze e gli eventi della vita, quotidianamente propongono.
Da questo insegnamento che, come anticipato, manca in occidente, ma che di fatto completa alcune tra le vedute filosofiche più complete, come ad esempio l’esistenzialismo, possiamo trarre almeno tre tipi di insegnamenti. Primo: la scelta di Jaspers e Barth è in realtà karma; ossia, ciascuno è frutto di ciò che è stato a monte di questa specifica esistenza che oggi viviamo. Secondo, non è una casualità quello che noi oggi realizziamo in termini di individualità fisica, di pensieri, di sentimenti, di volontà. Terzo: la chiave della Libertà, ossia della nostra specifica ascesi realizzativa, è qui ed ora. Non può essere cercata altrove, non può essere cercata negando sé stessi e la propria natura, ossia la propria Razza spirituale. Le leggi di Karma e Dharma in questo si auto-sorreggono e si auto-compenetrano profondamente, costituendo sintesi e tesi delle dottrine esistenzialiste.

Massimo Scaligero
Nel capitolo dedicato allo studio intorno al Tantrismo (Oriente e Occidente, 1984, “Che cosa rappresenta il Tantrismo per la moderna civiltà occidentale” pag.15 e segg.) Evola va oltre questo punto di vista arrivando a definire un confine tra i valori oggettivi, ossia estranei all’Uomo in quanto eterni ed immutabili nel tempo, e i possibili obiettivi superiori realizzabili dall’uomo di questo nostro tempo (Kali Yuga) a partire dalle sue posizioni spirituali attuali; i valori appartenenti alla sfera divina superiore, si legge nel testo, come l’antica tradizione metafisica indù li aveva concepiti, permangono, per definizione, assolutamente attuali. Le cime del possibile, in termini appunto di ascesi dell’Io, rimangono invariati. Il problema ontologico che l’uomo si trova oggi a dover fronteggiare è invece e piuttosto insito nella necessità di trovare il metodo, stante il punto di partenza radicalmente più distante rispetto ad aurei passati dalla meta unica. Il vero problema della nostra età, dice Evola, risiede nella identificazione del giusto metodo.
Tale metodo, viene aggiunto, è insito nel principio stesso che ha determinato la “caduta” ossia l’allontanamento dal primordiale stato relativo di perfezione (Satya-Yuga o età dell’oro). Ogni civiltà trova, pertanto, la radice della sua possibile via ascetico-realizzativa proprio in ciò che è diventata; e la via di risoluzione sta nella rettificazione di quelle stesse forze che hanno nei tempi determinato il crollo, la decadenza.
Ogni metodo, giustamente comparato all’atto del “cavalcare sul dorso di una tigre”, appartiene pertanto esclusivamente ad un popolo e, addirittura ad un ceppo etnico o ad una comunità che per “concomitanza karmica” si trova “qui ed ora” e non in altro luogo o in altro tempo. Tale circostanza è nota da tempi ormai lontani. Porto qui ad unico esempio una dotta osservazione apparsa nel 1929 su Ultra, rivista di studi e ricerca spirituale, ove nell’articolo “Gli Yantra ed i Mandala in maghia er nello Yoga” a firma V. Vezzani si riporta uno stralcio del Kalivilasa-Tantra in cui esplicitamente si ricorda: “Nessun atto di culto deve esser fatto con uno Yantra durante il Kali-Yuga. L’atto cultuale (Puja) che implica il tracciamento di uno yantra non porterà certamente alcun frutto”. Entità divino-demoniache, aggiunge il Vezzani, toglieranno al devoto che si arrischia a farne uso la sua forza raggiante (tejas).
Ad ogni tempo la sua via, dunque, e ad ogni individuo il suo metodo inserito nell’alveo karmico della sua stessa etnia o razza.
Le differenziazioni da razza – concludo riportando ancora quanto esposto da Massimo Scaligero in Yoga Meditazione Magia, proprio trattando l’argomento Yoga Tantrico – più che un significato esteriore utile all’antropologia o alla politica, esprimono strutture interiori, figlie degli eventi Karmici (le Scelte degli Esistenzialisti), che un cercatore dello spirito non può ignorare. I riti del passato, di origine occidentale o non, possono essere compiuti dall’Occidentale moderno, ma inevitabilmente esercitano un’azione regressiva in coloro che per tradizione o Karma, costituzionalmente sono portatori del principio cosciente, esprimente nell’arida forma del razionalismo (Mondo Moderno) la continuità dello Spirito: costoro dovrebbero astenersi dal ricostituire le tradizioni passate mediante strutture moderne del pensiero.
Note
(1) Ricordiamo che nella Tradizione induista col termine svadharma si intende il Dharma individuale, che riguarda la natura propria e specifica di un dato essere. Come insegna anche la stessa Bhagavad-gita, non ci si deve sottrarre al proprio dharma, al dovere che si è chiamati a compiere, e l’atteggiamento interiore con cui lo si compie deve derivare dalla consapevolezza del proprio Sé e della necessità del compimento della “legge insita nella propria natura”: tale è lo svadharma (N.d.R.).
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