In questo articolo pubblicato su “Il Conciliatore” nell’estate del 1970, Julius Evola recensiva la prima edizione italiana, tradotta e curata in quei mesi dall’amico e discepolo Adriano Romualdi, per le Edizioni di Ar, del saggio Frommigkeit nordischer Artung, letteralmente “La religiosità di tipo nordico”, scritto nel 1934 dall’antropologo e studioso della razza tedesco Hans Friedrich Karl Günther (1891-1968), e riproposto con l’intitolazione “Religiosità indoeuropea”, da Evola ritenuta più opportuna a livello concettuale.
Il Günther, già autore di diverse opere importanti incentrate sullo studio delle razze negli anni Venti del secolo scorso (tra cui ricordiamo Rassenkunde Europas, tradotta in italiano come “Tipologia razziale dell’Europa”, con prima edizione italiana nel 2003, Edizioni Ghénos), e titolare della cattedra di Antropologia Sociale dell’Università di Jena, con l’avvento del regime nazionalsocialista passò all’Università di Berlino, ottenendo anche alcune onoreficenze ufficiali prima di entrare in conflitto, negli anni successivi, con i vertici del Partito e, in particolare, con Heinrich Himmler.
Nel dopoguerra le opere del Günther rientrarono tra quelle decine di migliaia che furono censurate e messe all’indice all’esito dei lavori delle Commissioni di controllo e di censura della letteratura nazionalsocialista, istituite sia dagli Alleati che dai Sovietici (si trattò, complessivamente, di circa 36.000 tra libri e periodici), e solo decenni dopo, faticosamente, furono recuperate e riedite.
Evola analizza l’opera in questione (citando en passant anche il celebre “Mythus” di Rosenberg) evidenziando (come già fatto altre volte trattando della Weltanschauung tedesca, nazionalsocialista in particolare, in materia di razza e di recupero della spiritualità indoeuropea), accanto ad alcune buone intuizioni, gli svariati punti critici: dalle derive di natura immanentistico-panteistica, all’eccessivo riduzionismo “nordico” tipico degli antropologi tedeschi; dalle contaminazioni romantico-crepuscolari in stile wagneriano, all’eccessiva soggiacenza alle tesi razzistiche, soprattutto nella loro accezione meramente biologica, e così via.
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di Julius Evola
Tratto da “Il Conciliatore”, XIX, 8, agosto 1970
Nel precedente periodo un’esigenza, giusta in via di principio, affermata dal movimento che venne al potere nell’Europa centrale, fu che una lotta politica non può essere completa se per controparte non ha una nuova visione del mondo. Il termine, divenuto piuttosto stereotipo, Weltanschauung, stava a significare l’atteggiamento generale dell’uomo non solo di fronte al mondo e alla vita, ma anche di fronte ai valori etici e spirituali, tanto da investire in un certo modo gli stessi problemi religiosi. E per questa lotta su un piano superiore si pensò che la formula migliore fosse quella del ritorno alle origini, cioè la ripresa delle idee e del modo di sentire che furono conosciuti prima che manifestassero tutto il loro potere quei fattori che hanno dato forma alla civiltà ultima conducendola verso lo spengleriano «tramonto (spirituale) dell’Occidente».
Spesso l’accennato orientamento ebbe però un aspetto «razzista». Si parlò dell’«arianità», del retaggio nordico-germanico e simili. Il pericolo di una limitazione degli orizzonti dovuta sia al razzismo, sia ad un’utilizzazione unilaterale e tendenziosa delle idee in funzione semplicemente tedesca, risultò abbastanza evidente. Ciò appare in modo perspicuo in un libro che nel Terzo Reich ebbe una grande diffusione, Il mito del XX secolo, di Alfred Rosenberg, il quale in fondo era solo una compilazione basata su materiali di terza mano abbastanza eterogenei. Minori riserve impongono invece le ricerche di uno specialista, il professor Hans F.K. Günther, autore di numerose opere sulle razze e le civiltà antiche, comprese quelle della Grecia e di Roma. Degno di nota fu, del Günther, un saggio nel quale egli cercò di definire la visione fondamentale del mondo e la religiosità delle genti indoeuropee tenendosi su un piano staccato dalle contingenze politiche. Questo saggio è stato ristampato (in sesta edizione) anche dopo la guerra ed ora è uscito in una traduzione italiana (per le «Edizioni di Ar») curata da Adriano Romualdi e da Carlo Minutoli. Il titolo originale era Frommigkeit nordischer Artung, cioè «la religiosità di tipo nordico»; quello italiano è invece Religiosità indoeuropea, modificazione, questa, che ci sembra opportuna e tale da ovviare a riserve varie che, per l’uso del termine «nordico», vi sarebbero da fare alle tesi dell’autore. «Indoeuropeo» è un concetto molto più vasto, esso riprende i vari ceppi e le varie civiltà della razza bianca, comprese le propaggini asiatiche (gli Indoeuropei dell’Iran, dell’India, ecc.) esse stesse considerate dal Günther, anche se resta l’ipoteca riguardante la tesi, che il nucleo originario formatore di tutte queste civiltà fosse di origine «nordica». Pur concedendo che questo stesso termine qui va inteso in modo particolare, con riferimento a migrazioni di popoli primordiali, tanto da non applicarsi alle sole popolazioni nordico-scandinave o tedesco-settentrionali di tempi più recenti, pure non possono non nascere, a tale riguardo, alcuni equivoci.
Essi potrebbero essere favoriti, in parte, dall’ampio «Saggio sul problema indoeuropeo» di Adriano Romualdi che fa da introduzione a quello del Günther e che come estensione è più del doppio di esso. Si tratta di una monografia vera e propria seriamente condotta, con un’ampia e varia documentazione che riassume tutto ciò che da ricerche filologiche, antropologiche, etniche, storiche e culturali è risultato intorno al problema delle origini indoeuropee, la tesi nordica con un notevole accento razziale essendo mantenuta.
Invece l’attenersi all’estensione propria al concetto di «indoeuropeo» appare opportuna, e non senza relazione, fra l’altro, con ciò che ha spinto alla attuale traduzione italiana del saggio del Günther. Si tratta, a tale riguardo, di una ripresa dell’esigenza della «lotta per la visione del mondo», in un quadro ora non più tedesco-nazionalsocialista, ma europeo. Scrive infatti Romualdi:
«noi tutti, e in particolare noi della nuova generazione, sentiamo di essere ad un crocevia della storia. Le vecchie prospettive nazionali, nelle quali fummo ancora educati, ci crollano addosso da tutte le parti. Un’autosufficienza della patria italiana o francese o tedesca, e con esse la particolare angolazione storica o italiana, o francese o tedesca, non esiste e non può esistere più. Nazionalisti senza nazione, tradizionalisti senza tradizione, cerchiamo di riconoscerci in una patria e in una tradizione più vaste».

Hans Friedrich Karl Guenther
A tale stregua si ripropone l’idea indoeuropea sia come mito delle origini comuni, sia come idea capace di fare da anima ad un’unità europea o occidentale che non si riduca ad un informe conglomerato. Ma proprio a questo riguardo la connotazione «nordica», malgrado ogni precisazione, appare oggi pregiudizievole. Poiché i più non possono non essere portati a qualche riferimento concreto, fra l’altro appare perfino che proprio i popoli europei nordici (compresi ormai purtroppo perfino i Tedeschi) sono attualmente gli ultimi a sentire esigenze del genere e ad incarnare come che sia la visione del mondo e gli atteggiamenti di cui si tratta.
Ma ormai bisogna dire qualcosa sul saggio del Günther. In genere, vi è da rilevare che sarebbe stato opportuno attenersi soprattutto ad una considerazione a carattere morfologico riducendo al massimo i fatti razziali, cioè definire solo una certa forma dei valori e del modo di sentire e di comportarsi, presentandolo poi soprattutto come un «ideale». Infatti si potrebbe fare al Günther una fondata obiezione d’ordine metodologico, rilevando quanto spesso egli si muova in un circolo vizioso. Infatti egli riconosce che le fonti per le sue ricerche non possono essere costituite dal materiale dei popoli nordici in senso proprio, perfino le antiche concezioni germaniche sarebbero alterate da apporti estranei, celtici e «druidici», perfino la mitologia nordica per eccellenza, quella degli Edda, sarebbe poco utilizzabile come vero documento dello spirito «nordico»; il Günther considera come fonti migliori quel che si può desumere dall’antico mondo ellenico, romano, iranico e in parte anche indù, nell’insieme del quale egli però opera una discriminazione: isola certi elementi e altri elementi, compresenti ma non riconducibili ad un’idea in fondo preconcetta o apriorica del «nordico» (o dell’«ario» o dell’«indoeuropeo»), egli li mette d’autorità a carico di influenze estranee, di alterazioni della razza per incrocio, ecc.: procedimento che equivale a quel che in logica si dice una petizione di principio. Tale obiezione perderebbe parte della sua forza nel caso, appunto, di un’impostazione essenzialmente «morfologica». Poi i riferimenti del Günther riguardano essenzialmente delle élites, e qui vale come un postulato che è nelle élites che si sarebbero conservati i valori della razza originaria portatrice di una superiore visione del mondo. Così il Günther (pag.116) scrive:
«verosimilmente molto di ciò che ci viene descritto come facente parte della religione indoeuropea, altro non è che espressione di caste inferiori che avevano imparato ad esprimersi in lingua indoeuropea»,
al che attesta appunto l’accennato procedimento discriminante a priori. Non vi è dubbio, poi, che molto sia stato idealizzato e generalizzato dall’Autore, sottacendo quel che non andava incontro alle tesi.
Quanto a caratteristiche, secondo il Günther sarebbe non-indoeuropea la concezione di un Dio creatore trascendente al quale ci si accosta servilmente e con paura, epperò anche la concezione dell’uomo come mera «creatura».
«Poiché non è il servo di un sovrano Iddio, l’Indoeuropeo non prega a terra o in ginocchio, ma in piedi, con gli occhi al cielo e le braccia protese in avanti» (pag. 122).
Egli ha un sentimento di connessione e di familiarità col divino, con gli «dèi». Il mondo per lui non è «creato», ma eterno, «senza principio e senza fine». Non conosce un dualismo fra «questo mondo» e l’«altro mondo», almeno quel dualismo per via del quale il primo viene svalutato di fronte al secondo e solo sul secondo si concentra lo spirito. In parte come conseguenza, non viene sentito nemmeno un contrasto «fra corpo perituro e anima immortale, fra la carne e lo spirito». Mancherebbe l’idea sia della «redenzione», sia del peccato, redenzione ad opera di un «Salvatore» e non come «autoredenzione dell’anima che si viene purificando e che s’immerge nel profondo del proprio essere» (tale sarebbe l’orientamento del misticismo indoeuropeo), come quel superamento delle passioni nel quale consistette la via del primo buddhismo ed anche dello stoicismo. Quanto al «peccato», nel sentire indoeuropeo ad esso si sostituirebbe il concetto di «colpa», con la responsabilità che un «animo nobile» è capace di assumere.
Dall’indoeuropeo il mondo sarebbe stato concepito come ordine e come kosmos, come un tutto improntato da una ratio superiore. Ma questa caratteristica ci sembra non accordarsi troppo con l’altra, indicata parimenti dal Günther, di una concezione «agonistica»: il mondo come arena di una perpetua lotta, in corrispondenza con «la vocazione ereditaria e congenita al combattimento» dell’Ariano o Indoeuropeo. Infatti questa seconda concezione presuppone evidentemente un dualismo, non il vigere sovrano di un ordine nazionale universale ma anche la presenza di qualcosa di antitetico ad esso, al kosmos, contro cui combattere. Maggiori riserve impone poi l’idea, secondo noi sbagliata, che gli Indoeuropei
«avrebbero sempre inclinato a vedere nella forza del Fato alcunché di superiore agli stessi dèi, soprattutto gli Indù, gli Elleni e i Germani» (pag. 129).
Non vediamo come si possa fondare una simile idea, la quale, se mai, ha prevalso in aree non ritenute propriamente indoeuropee (come nella tarda civiltà etrusca e in quella pelasgica e non-ellenica e un Bahcofen ha potuto mostrare appunto l’origine pelasgica, non-ellenica, il Günther direbbe «non-nordica», di ciò che nell’antica Grecia risentì di quell’oscura idea fatalistica). Il Günther tiene invece fermo ad essa perché gli serve per indicare, come ulteriore caratteristica dell’uomo indoeuropeo, l’accettazione del destino o l’incrollabilità di fronte al destino:
«orgogliosa fierezza con cui si accetta il Fato incombente come il proprio destino, che egli affronta in piedi serbandosi così fedele a se stesso» (pag. 131)
Un tale modo di vedere ha trovato modo di riaffacciarsi anche ieri sotto le specie del cosiddetto «eroismo tragico», il quale però a noi sembra saper molto di romantico, di wagneriano e di crepuscolare, restando abbastanza lontano dalla linea di quella olimpicità vittoriosa molteplicemente attestata nell’antichità indoeuropea e classica.
Peraltro il Günther opera una grave decurtazione del retaggio della spiritualità indoeuropea col negare o disconoscere quella che possiamo chiamare la «dimensione della trascendenza» nell’ordine umano non meno che in quello divino (dove regnerebbe il Fato, non una suprema libertà), tenendo aprioristicamente in non conto testimonianze molteplici e univoche in senso opposto. Per fortuna il Günther non ha insistito su una sua precedente tesi, secondo la quale gli Indoeuropei «nordici» solo quando migrando in Asia trovarono terre insopportabili per clima e ambiente furono portati a capovolgere il loro originario impulso di «affermazione della vita» in un impulso, in fondo estraneo alla loro razza (artfremd), a liberarsi dalla vita, intesa ora come «dolore». Di fatto un ideale fondamentale indoeuropeo è stato quello della «Grande Liberazione», del conseguimento dell’Incondizionato (per esempio nel buddhismo delle origini), della uscita dal «ciclo della generazione» (nell’Ellade).
Si è che a tale riguardo nel Günther hanno avuto il sopravvento certe preoccupazioni «razziste» le quali malgrado tutto hanno dato un’impronta naturalistica alle sue interpretazioni. Così, ad esempio, per lui vale come inesistente il fatto che proprio nella tradizione indo-aria la «via degli dèi» (deva-yâna) che conduce verso l’Incondizionato venne contrapposta alla «via dei padri» (pitri-yâna) che è quella di coloro il cui destino è di continuarsi nella vita del loro ceppo quaggiù.
Qui si fanno sentire le conseguenze della presunta inscindibilità di corpo e anima, la quale va a pregiudicare ogni superiore concezione dell’immortalità. In fondo il Günther finisce col restringere gli orizzonti spirituali ad una «immortalità immanente» (effimera), a quella del continuarsi nella stirpe e nella razza, di cui il singolo fa sempre parte, che «nell’ordine delle generazioni produce perennemente la vita» (pagina 147). Sia pure con tentativi di mitigazione, il Günther va poi a vedere nel panteismo, il quale comporta una denegazione di ogni vera trascendenza, un tratto fondamentale della religiosità «ariana» (s’incontra in lui l’espressione «ispirato panteismo naturalistico»), cosa che equivale a degradarla arbitrariamente, un sospetto «culto della vita» facendo da controparte. È bene tener presente che non si deve confondere col panteismo una concezione sacralizzante del mondo, che fu propria alle origini ma che è da dirsi tradizionale in senso generale, non postulabile come prerogativa soltanto «aria» o indoeuropea.
È nel campo dell’etica che in parte le caratterizzazioni del Günther hanno un carattere più convincente. Egli parla degli ideali della fermezza e della grandezza dell’animo, di un naturale dominio di sé, di un altrettanto naturale senso di distanza e di non-promiscuità, della diffidenza per ogni abbandono dell’anima e quindi anche per un incomposto, anelante misticismo. In più, il sentimento connaturato dell’onore, la disposizione alla fedeltà e alla lealtà, una misurata, consapevole dignità e l’humanitas nell’accezione classica, l’amore per la verità e la ripugnanza per la menzogna. La libertà è un ideale, però nella prospettiva indicata dal detto di Goethe:
«tutto ciò che libera il nostro spirito senza elevarci ad una maggiore padronanza di noi stessi, ci corrompe».
L’etica che si articola in codesti valori, per il Günther sarebbe «naturale» nell’Indoeuropeo, non legata a precetti esteriori (così come la religiosità indoeuropea sarebbe «naturale», non dovuta a «rivelazioni»).
In ciò si può essere d’accordo, ma in parte con riferimento ad una concezione non-razzista della «razza». L’essere «di razza» in un senso superiore trova appunto naturale agire e comportarsi in un dato modo, senza riferimenti esteriori. Ma qui non è il caso di parlare di qualcosa di precipuo della «razza» indoeuropea. Tali qualità etiche naturali dell’«uomo di razza», per fare un esempio, sono attestate anche in altre genti (basterà il riferimento alla nobiltà tradizionale giapponese) e l’accenno a «tradizionale» non è estrinseco, a tale riguardo dovendosi considerare anche quel che diviene congenito in base ad una rigorosa tradizione. Quanto a «nobiltà», rileviamolo di passata, è abbastanza curioso il fatto che il Günther parli di frequente dello spirito e della nobile etica di una «aristocrazia contadina» (se mai, sarebbe il caso di parlare di un’aristocrazia feudale). Qui ci sembra di cogliere l’eco di uno slogan «razziale» dell’hitlerismo, «sangue e terra», usando il quale in nome dell’«irradicamento» e di una certa politica veniva liquidato il precedente mito delle razze arie originarie come quelle di cacciatori e conquistatori migranti avidi di grandi distanze e di lontani orizzonti.
Si è già accennato che per isolare gli elementi «nordici» il Günther ha dovuto mettere sistematicamente a carico di postulate contaminazioni razziali dovute ad incroci e ad influenze esogene snaturatrici tutto ciò che nelle civiltà indoeuropee, pur essendo compresente di fatto, non corrisponde agli stessi valori e comportamenti. Di nuovo, ciò tradisce la soggiacenza al razzismo biologico il quale tiene poco conto del fatto che le mescolanze non sono l’unico fattore di alterazione perché sono possibili processi di involuzione, di sfaldamento e di collasso presso al mantenimento di una sufficiente integrità del sangue originario. Già al principio abbiamo notato che proprio gli attuali popoli maggiormente «nordici», mantenutisi tali più degli altri, sono particolarmente insensibili agli ideali «nordici» quali il Günther li definisce. Nel campo storico basterà ricordare un solo esempio. Il Günther considera giustamente come estraneo alla linea «aria» lo spirito della Riforma protestante per via del suo esasperare i concetti del peccato e della natura irrimediabilmente corrotta dell’uomo, dell’affidarsi alla sola fede, della necessità della grazia gratuitamente accordata da Dio, del servaggio umano (de servo arbitrio – Lutero). Ebbene, la Riforma prese piede soprattutto proprio fra i popoli tedeschi e nordici, mentre i popoli più a sud o ad occidente, che si ritengono alterati in maggior misura da incroci, restarono ad essa refrattari.
Verso la fine del suo saggio (pag.172) il Günther scrive:
«col XX secolo gli Indoeuropei incominciano ad eclissarsi nel mondo della spiritualità e della storia. Oggi tutto quel che nella musica, nell’arte, nella letteratura (si dovrebbe aggiungere: nel costume e nelle forme politiche predominanti) dell’ ‘Occidente libero’ viene lodato come particolarmente ‘progressivo’ non rispecchia più una spiritualità indoeuropea».
Ciò ci sembra giusto, però a patto di definire, come dicemmo, ciò che è indoeuropeo in termini essenzialmente morfologici e generali, senza stretti riferimenti etnico-razziali. Quanto poi alla capacità del complesso dei valori «indoeuropei» (anche a superare storture, unilateralezze o evidenti idealizzazioni sul genere di quelle in precedenza accennate) a far da anima ad una nuova solidarietà e unità supernazionale occidentale, dati i tempi che corrono, a differenza di Romualdi noi siamo abbastanza scettici: non crediamo che si possa ravvisare un qualche suolo adatto di risonanza e di cristallizzazione.
Del resto, un analogo sentimento sembra tradirsi nello stesso Günther, se nella prefazione dell’ultima edizione del suo interessante saggio (pgg.105-106), riferendosi «ai nostri tempi, nell’èra del tramonto dell’Occidente» (Spengler) dice:
«anche se ciò che resta nel mondo europeo occidentale dovesse perire per la carenza di veri Indoeuropei di razza, cioè di veri Occidentali, rimarrà comunque in esso un sentimento radicato nella tradizionale spiritualità indoeuropea, quel sentimento che fu già degli ultimi Romani, Romanorum ultimi, in un impero non più ‘romano’, il sentimento dell’incrollabilità dinanzi al destino … per cui già un Orazio esortava: Quocirca vivite fortes, – fortiaque adversis opponite pectora rebus!» (1)
Un’istanza del genere, peraltro raccoglibile solo da pochi, e forse da modulare maggiormente nel senso di una distaccata impassibilità, ci sembra più realistica di quella di ogni ottimismo a fondo «nostalgico» (nel senso negativo dato a questo termine in relazione ad un certo aspetto di certi orientamenti politici italiani), con la corrispondente rievocazione delle origini «nordiche».
Nota redazionale
(1) Orazio, “Satire”: “Perciò vivete da forti, e opponete alle avversità i vostri forti petti” (Satira II, 135).
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