Romualdi commenta Cavalcare la tigre (prima parte)

Sempre per il sessantesimo anniversario di “Cavalcare la tigre”, passiamo la parola ad un commentatore d’eccezione come Adriano Romualdi, che, nel suo saggio “Julius Evola: l’uomo e l’opera”, che uscì in prima edizione per l’Editore Volpe nel 1968, per i settant’anni del barone, ne analizzò tutte le opere, non mancando ovviamente di dedicare pagine importanti proprio a quella che rimane probabilmente l’opera più discussa, dibattuta, studiata, interpretata e (mal)interpretata di Evola.

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di Adriano Romualdi

Tratto da “Julius Evola: l’uomo e l’opera” (1968)

«Chi cavalca la tigre non può scendere»
(proverbio orientale)

Il ristagno della situazione interna italiana alla fine degli anni ‘50 spinge Evola verso soluzioni personali del problema della vita. Il suo interesse si sposta verso quei sentieri individuali lungo i quali si può attraversare incolumi la foresta pietrificata del mondo moderno. Cavalcare la tigre non sta in contraddizione con Gli uomini e le rovine o altri libri precedenti. La concezione di Evola è sempre la stessa: solo la prospettiva cambia. Questa prospettiva non è più sociale, ma individuale, non ottimistica, ma pessimistica.

Cavalcare la tigre è il breviario di chi deve vivere in un mondo che non è suo, senza farsi travolgere, forte della sua invulnerabilità. In questo senso, esso ci ricorda i manuali di un Seneca, di un Epitetto, di un Marco Aurelio, sorti in uno stesso clima di decadenza e improntati da uno stesso spirito di stoica incrollabilità.

Lo sfondo di Cavalcare la tigre è lo sfacelo del mondo moderno, desolante nelle forme conclusive della sua crisi, ma non privo di possibilità in quanto «negazione di una negazione». Non occorre esser seguaci di questa o quella particolar visione della storia per convenire che l’era contemporanea presenta i caratteri di una epoca in dissoluzione.

Irruzione di masse, città informi che si dilatano, instabilità sociale, demonìa dell’oro e del sesso, miti effimeri e febbrili, gusto del gigantesco e certo sentimento del provvisorio: questi i segni distintivi d’un tempo in cui l’uomo, più che vivere, è vissuto da processi collettivi ed istintivi che egli non controlla che in minima parte. Il mondo moderno è una tigre scatenata ma, «chi cavalca la tigre non può scendere», ammonisce un proverbio orientale. Tanto vale restare in groppa e aspettare che la tigre, esausta, crolli a terra, poiché le forze elementari ridestate alla fine dei tempi «per essere prive di connessione con qualsiasi principio superiore, hanno, in fondo, la catena misurata».

Intanto, posto che taluni contenuti sociali e sentimentali saranno inesorabilmente bruciati nella fase d’autoconsumazione del mondo moderno, sarà bene prender per tempo le proprie distanze distaccandosi da quel che è caduco e attestandosi su ciò che invece, per sua natura, non può esser distrutto. Poiché, in tempo di crolli, chi meno s’appoggia meno cade.
Che il cristianesimo sopravviva come organizzazione e come morale sociale, è un fatto. È un fatto altrettanto certo che il divino, il senso religioso della vita non dice più nulla a una società lanciata alla conquista di beni materiali. «Dio è morto» annunziò Nietzsche già novant’anni fa. Se alla fine del secolo questo sentimento della sconsacrazione del mondo era il dramma di pochi chiaroveggenti (Nietzsche, Dostoevskij, Rimbaud), dopo la prima guerra mondiale, e ancor più dopo la seconda, il senso dell’assurdità della vita ha guadagnato vaste masse. Fenomeni come quelli dei teddy-boys, dei beatniks, degli halbstarker, degli esistenzialisti, degli angry-men sono, per Evola, chiaramente indicativi di un senso di vuoto che si diffonde per la società.
I marxisti pretendono di colmare questo vuoto con quello che Evola chiama «il mito economico-sociale». Ma, anche al di là della bassa stupidità di questo mito, resta il fatto incontestabile che proprio là dove le masse han raggiunto il maggiore benessere ci si trova di fronte al dilagare del nulla.

Nel «mondo dove Dio è morto», dove una regola dell’agire consacrata dalla tradizione o dall’abitudine è perduta, l’uomo trova la sua miseria, il suo pericolo e la sua grandezza nel trarre una legge da sé stesso.
Questo situazione trovò un’eco drammatica in Nietzsche che, in tempi in cui un ateismo superficiale festeggiava la rescissione dei vincoli religiosi, protestò che non bastava esser liberi da qualcosa, ma occorreva esserlo per qualcosa. Con ciò si poneva l’esigenza di ritrovare un centro dell’essere di là dai concetti di Dio, di Bene, e di Male propri delle religioni di origine semitica. Ma Nietzsche trovò il suo limite in una mentalità sostanzialmente naturalistica. Egli, come Evola pone in luce nel corso di una critica penetrante, finisce col darci un bene e un male naturalistici, che sono rispettivamente un più di vita (i forti) e un meno di vita (i deboli), presupponendo la vita come alcunchè di continuamente ascendente, mentre l’osservazione quotidiana troppo spesso ce la mostra bramosa soltanto di conservarsi alla meno peggio. In realtà, non si può cercare nella vita, che non ha senso alcuno all’infuori della conservazione di sé medesima, un criterio di moralità, di libertà, di valore.

Friedrich Nietzsche (1844-1900)

Ma solo il teista crederà che questo valore sia ritrovabile soltanto nel dogma, nella fede. Esiste una radice di libertà metafisica che è innata, esiste nell’uomo qualcosa d’increato, di incondizionato, d’indistruttibile. È questa dimensione dell’essere che occorre evocare imponendosi una disciplina che ha la sua giustificazione in sé stessa e il cui fine è la rimozione di quel che è spontaneo, accidentale e il risveglio di quel che è libero, necessario. Bisogna imparare ad agire per l’azione in sé stessa, senza guardare a vantaggi. Bisogna fare di quest’azione un piccolo cosmo, perfetto in sé stesso, libero da speranza e da timore. Bisogna imparare a vivere nella dimensione atemporale della vita, come se ogni giorno fosse l’ultimo. Bisogna esser pronti «ad essere eventualmente distrutti senza per questo essere vulnerati» per cogliere da questa disposizione sacrificale il senso di una super-vita.

Chi abbia raggiunto questo livello – e non è da tutti – potrà anche gettarsi nei gorghi più vorticosi della modernità «cavalcando la tigre»:

«sicuro di sé per aver come centro essenziale della persona l’essere, e non la vita, può andare incontro a tutto, può abbandonarsi a tutto e a tutto aprirsi senza perdersi: accettare dunque ogni esperienza, ora non più per provarsi e conoscersi ma per sviluppare tutte le proprie possibilità, in vista delle trasformazioni di sé che possono prodursi, dei contenuti nuovi che possono per tal via offrirsi e rivelarsi.
(…) la capacità di aprirsi senza perdersi, proprio in un periodo di dissoluzione, è di particolare importanza. È la via per sovrastare ogni eventuale trasformazione, comprese le più pericolose: il limite ultimo potendo essere indicato in quel passo delle Upanishad dove si parla di colui contro cui la morte non può nulla, perché essa è divenuta parte del suo essere.
Vi è dunque il coesistere di un distacco con l’esperienza pienamente vissuta, il ricorrente connubio fra il calmo ‘essere’ e la sostanza della vita. Il risultato di questo connubio è, essenzialmente, un genere tutto speciale, lucido, potremmo dire quasi intellettualizzato e magnetico di ebrezza, completamente opposto a quello che deriva dall’apertura estatica al mondo delle forze elementari, dell’istinto e della ‘natura’. In questa specialissima ebrezza sottilizzata e storbidata devesi vedere l’alimento vitale necessario ad una esistenza allo stato libero in un mondo caotico abbandonato a sé stesso».

Chi sia riuscito ad attivare in sé questa diversa corrente del vivere comprenderà la trascendenza non come un dogma, ma come un’esperienza.

Segue nella seconda parte



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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