Torniamo sul tema della burocrazia, affrontato prima della pausa estiva con un articolo del 1953 di Evola pubblicato su La Stampa. Come detto, il barone si occupò del tema con vari scritti durante la guerra, per stimolare l’abbattimento di un altro ostacolo duro a morire nella forma mentis e nelle strutture amministrative e statali tipicamente italiane, e che in vent’anni di esperienza fascista era stato, tutto sommato, appena scalfito. Con l’articolo proposto oggi, pubblicato su “La Vita Italiana” nel febbraio 1941, Evola sviluppava un precedente articolo, “Burocrazia e classe dirigente”, uscito nell’aprile 1940 su “Lo Stato”.
In particolare, Evola si soffermava sul rischio che ampi settori dell’amministrazione dello Stato potessero rendersi indipendenti, assicurarsi un’autorità politica a sè stante, iniziare ad esercitare influenze fondate su una gamma di comportamenti e orientamenti dell’animo ben definitivi in chiave grettamente borghese, utilitaristica, nepotistica, clientelare, finendo per sostituire alla gerarchia delle competenze, del merito e delle capacità al servizio dello Stato, il gerarchismo greve dell’incompetenza, dell’arroganza, del tornaconto personale, del cumulismo di uffici ed emolumenti: “quando ciò accada, si ha effettivamente un fenomeno teratologico e una inversione gerarchica, che, accentuandosi, non può non aver per conseguenza una involuzione e materializzazione dell’idea di Stato“, scriveva Evola. Quando queste atrutture amministrative si “emancipano tacitamente dalla vera classe politica”, si crea quasi “un surrogato dello Stato o, per lo meno, un doppio di esso, avente la funzione di intercapedine, di compartimento stagno fra la nazione e la vera classe politica dirigente”.
Invece, osservava il barone, la macchina amministrativa e burocratica, caratterizzata in sé da un certo meccanicismo, da “un automatismo di funzioni subordinate di tipo strumentale e particolarmente impersonale – come, nel corpo umano, lo sono le funzioni della vita vegetativa e di ricambio”, dovrebbe essere totalmente “neutra“, proprio nel senso di rimanere, fedelmente, uno strumento impersonale al servizio dello Stato, mantenendo ogni suo funzionario lo stile di un vero e proprio “membro di una milizia”, in grado di sentire “l’onore della funzione pubblica alla quale è stato chiamato epperò dimostrare un corrispondente senso di responsabilità”.
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di Julius Evola
tratto da “Vita Italiana”, febbraio 1941
È cosa singolare che, fra le varie forme e manifestazioni dello spirito borghese individuale dalla nota polemica rivoltasi contro di esso, assai scarso rilievo ne abbia avuto una, che è fra le più tipiche ed è di tanto più insidiosa, perché prospera proprio nei gangli più essenziali della compagine statale: intendiamo dire la burocrazia.

Max Weber (free image form wikipedia commons, under Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license. Author: Hacerahsen).
La burocrazia è tipicamente il «borghesismo politico» e dello spirito borghese in genere essa assomma i peggiori difetti. Purtuttavia devesi lealmente riconoscere che, malgrado i diciannove anni di fascismo, si è ancora ben lungi dal poter constatare, in Italia, una «sburocratizzazione» effettiva, di fatto e non di nome. Lungi dall’aver abbandonato le più importanti posizioni già da essa detenute, la burocrazia se ne ha anzi assicurate di nuove e di non poco momento; e ciò – singolare paradosso – perfino sfruttando abilmente alcune istituzioni rivoluzionarie.
In un ordinamento politico normale, la burocrazia, secondo la nota espressione di Max Weber, dovrebbe essere un mezzo neutro. È utile per precisare il senso di questo termine. L’amministrazione dello Stato implica fatalmente un certo meccanismo, un automatismo di funzioni subordinate di tipo strumentale e particolarmente impersonale – come, nel corpo umano, lo sono le funzioni della vita vegetativa e di ricambio. Questo è il «luogo» proprio alla burocrazia, questo è il piano ove la sua esistenza è legittima e in funzione del quale si possono definire le sue prerogative normali. Usando l’attributo «neutro» per la burocrazia, non intendiamo peraltro dire, che l’agnosticismo politico e l’irresponsabilità debbono esserne i principii informatori. Non si tratta di questo. Ogni funzionario dello Stato dovrebbe anzi sentirsi come membro di una milizia: dovrebbe sentire l’onore della funzione pubblica alla quale è stato chiamato epperò dimostrare un corrispondente senso di responsabilità. Ma, come secondo la analogia ora usata parlando di milizia, anche nell’esercito queste qualità, richieste in elementi subordinati, non hanno nulla a che fare con le funzioni di un vero e proprio comando e, in genere, col diritto di dirigere e di disporre inerente ai veri Capi. Del pari, la burocrazia, anche «fascistizzata» – vale a dire compenetrata da un particolare senso di responsabilità politica – deve esser «neutra», nel senso che essa non deve cercare in nessun modo di rendersi indipendente, di assicurarsi una autorità propriamente politica, di esercitare influenze sia di persone, sia di ceto, sia di combriccola. Quando ciò accada, si ha effettivamente un fenomeno teratologico e una inversione gerarchica, che, accentuandosi, non può non aver per conseguenza una involuzione e materializzazione dell’idea di Stato.
Infatti, nel punto in cui egli cessa di esser «neutro» nel senso di strumento consapevole, fedele e intelligente del meccanismo amministrativo statale, il burocrate va quasi senza eccezione a dimostrare le «virtù» più tipiche della borghesia: il vantaggio personale diviene il suo interesse predominante, in funzione del quale egli cerca di trarre tutto il profitto possibile dalla carica che copre e dalla autorità di cui è investito. Invece di seguire uno stile quasi ascetico e impersonale nelle sue funzioni, di esse si gonfia e pavoneggia, persuadendosi sempre di più di esser «qualcuno» – nei termini di un ras a scartamento ridotto – e agendo di conseguenza. Peraltro, il suo avere questo o quel posto ministeriale elevato gli permette facilmente di stabilire relazioni atte a creare una certa zona di interessi comuni con elementi consimili, mentre la connessione con elementi ancora più alti gli dà modo di propiziare influenze e protezioni – tutto questo, senza doversi esporre e dover assumere precise responsabilità, poiché, nominalmente, il burocrate non ha da rispondere che nell’ambito ristretto e tecnico di un ramo dell’ordinaria amministrazione, ambito che però è lungi dal riprendere questa sua effettiva e assai più vasta attività.

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Per tal via vanno a costituirsi forme di un vero e proprio feudalismo burocratico, i principi del quale, per essere revocabili, non cessano di godere un corrispondente prestigio. Nel loro insieme, queste forme si emancipano tacitamente dalla vera classe politica, quasi costituiscono un surrogato dello Stato o, per lo meno, un doppio di esso, avente la funzione di intercapedine, di compartimento stagno fra la nazione e la vera classe politica dirigente. Si costituisce, in realtà, una rete, per via della quale diviene ben difficile potere entrare in un contatto diretto con elementi politici in carica di governo e illuminarli positivamente nei riguardi di questo o quel problema: è invece d’uopo, nella grandissima maggioranza dei casi, passare attraverso un certo gruppo burocratico-politico e la sua zona di interessi, ben tutelati dal fatto, che proprio a tali burocrati ci si rivolgerà fatalmente per informazioni, ragguagli e pareri nel ramo interessato, in conformità alla prerogative ufficiali di cui essi sono investiti.
Ma v’è anche dell’altro. Questa burocrazia «non-neutra» finisce quasi sempre con l’esercitare influenze anche di là dall’ambito, nel quale si trova direttamente per il proprio ufficio. Ciò si è verificato, per esempio, in modo tipico dopo la costituzione dei cosiddetti enti parastatali o simili, nei quali è difficile che gli elementi della burocrazia in quistione non si siano assicurati questa o quella carica, col risultato di quel cumulismo di uffici e di relativi emolumenti, contro il quale le gerarchie fasciste si sono ripetutamente e decisamente dichiarate, ma che – a prescindere da qualche caso isolato e troppo esposto, quindi facilmente colpibile – malgrado tutto sussiste e persiste, perché troppo forti sono gli interessi che si oppongono ad una azione radicale e generale di bonifica. Ma per tal via il compartimento stagno fra lo Stato e le varie forze nazionali risulta rafforzato e la burocrazia – come si è detto – ha modo di estendere la sua influenza anche su sfere, le quali, in via normale, non interferirebbero con quelle tecniche di competenza dei vari Ministeri.

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Un’altra conseguenza – e di non poco momento – del cumulismo burocratico è una perturbazione dei normali rapporti gerarchici della stessa burocrazia, con effetti non proprio edificanti nei riguardi degli elementi meno privilegiati o meno abili della stessa. Infatti, dal punto di vista effettivo, chi si è accaparrato vari incarichi a latere è evidente che abbia un prestigio ed una influenza diversa da quella che gli verrebbe semplicemente e normalmente dalla sua carica principale: così – e non solo nel riguardo degli emolumenti – va a crearsi di fatto un ordine e un rango, non coincidenti con quelli puramente e impersonalmente definiti dai quadri. In una certa misura, va a riprodursi la situazione che avemmo occasione di constatare personalmente in una nazione straniera, ove in più di un ministero i funzionari più altolocati e i dirigenti visibili non erano che comparse dipendenti dai loro dipendenti, per il fatto che questi rivestivano, in una comune loggia, una dignità più elevata della loro.
Questo accenno potrà però far sì che qualche «puro» protesti, dicendo che ciò che noi stiamo descrivendo, se può esser proprio ad un sistema democratico col suo noto sistema di combriccole parapolitiche e massoniche, non può però riferirsi allo Stato fascista. Ma qui non si parla dello Stato fascista, in sé stesso superiore ad ogni critica e ad ogni sospetto, ma si parla invece di una classe e di uno spirito duri a morire, maestri di trasformismo e di conformismo, aventi la virtù, quasi, della fenice, e ciò perché trovano sempre nuovo alimento nel borghese, nell’egoista, nel profittista e nel narcisista sonnecchianti nella grandissima maggioranza degli uomini, anche quando essi abbiano ricevuta la tessera. La Rivoluzione delle camicie nere ha vinto nella classe puramente politica, che sta al centro del nuovo Stato e dimostra effettivamente una mentalità nuova, coraggio, impersonalità, forza di decisione. Tutt’intorno a tale nucleo centrale, a separarlo dalle forze vive della nazione nelle quali parimenti agisce e si sviluppa il lievito del nuovo spirito fascista, sta la sostanza opaca e diatermica della burocrazia, nel senso di un vero residuo e di un elemento che, invece di servire da collegamento, sta solo ad ostruire e separare. Né sono rari i casi, quando si passano certi limiti, nei quali gli elementi propriamente politici si trovano in vie senza uscita, proprio nel punto in cui meno se lo aspettano, per non sapere delle «costellazioni» formantesi nel dominio «neutro» e «amministrativo». Noi teniamo le presenti considerazioni su di un piano affatto generale: ma ognuno può facilmente applicarle per spiegare anche episodi recenti, precisi e non certo edificanti.
Si è accennato, che questo stato sussistente e non desiderabile di cose ha trovato modo di confermarsi e perfino di potenziarsi per mezzo di nuove istituzioni rivoluzionarie. Molto è stato discusso in merito alla fisionomia che debbano presentare i poteri nella nuova dottrina fascista dello Stato. Ci si è chiesto, se dobbiamo ancora indugiare nell’antica veduta della divisione astratta dei poteri e, nel caso negativo, con quale nuova teoria si debba andar di là da essa.

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Trattare ex professo questo problema cade fuor dall’ambito del presente scritto. Si può solo accennare che, date le premesse autoritarie e totalitarie del nuovo Stato fascista, l’antica veduta relativa ad un equilibrio dei poteri mantenuti in una relativa autonomia deve evidentemente dar luogo all’idea di una precisa coordinazione gerarchica di essi, con preponderanza di quello, che si suol chiamare «esecutivo», ma che, nel fascismo, va a potenziarsi con uno speciale significato politico-spirituale. A tale riguardo, anche recentemente, in un articolo sulla Stampa (9 gennaio), Alberto De Stefani, parlando dell’aderenza legislativa ai principii della rivoluzione, ha messo ben in luce «la necessità di vincere un dualismo giuridico-politico che paralizza il sistema precedente, senza concedere al nuovo libertà di movimento». «I principi – ha aggiunto, appunto perché grandi nella loro orbita vitale ed energetica, sono pochi di numero; non pare dunque difficile tradurli in norme nuove, avvalorandoli con le necessarie sanzioni contro chi vi disobbedisca». Senonchè anche in questo campo – nel campo del diritto costituzionale e della dottrina generale dello Stato – la persistenza di elementi refrattari ad ogni rinnovamento rivoluzionario si palesa nel fatto di una perdurante incertezza ideologica e di una incapacità di statuire positivamente – cioè come diritto positivo – tutta la nuova realtà politica destata a vita dal fascismo.
Così molto si è discusso – per addurre un esempio e per venire di nuovo al nostro argomento principale – circa il decreto-legge: il quale, da misura eccezionale, che a suo tempo scandalizzò i giuristi delle scuole ottocentesche più varie, oggi è divenuto un normale strumento d’azione, di pertinenza, per così dire, alla ordinaria amministrazione. Ebbene, è evidente che in linea di principio il decreto-legge dovrebbe testimoniare e manifestare la accennata preeminenza e superiore dignità del potere esecutivo su quello legislativo e amministrativo nel nuovo Stato. Ma nella realtà delle cose, se esaminate con fascistica onestà, stanno invece in modo alquanto diverso. In fin troppi casi il decreto-legge appare come un null’altro che come lo strumento usato dalla accusata burocrazia non-neutra e resasi autonoma, nelle sue manovre volte a scalare – per non dire addirittura a usurpare – la funzione propria alla classe politica dirigente.
È cioè l’elemento amministrativo che, passando solo pro-forma attraverso la sanzione del corpo legislativo, impugna il potere esecutivo e, a dir vero, secondo la autorità e l’ambito incomparabilmente più vasto che a tale potere è proprio nel nuovo Stato totalitario e rivoluzionario. E qui si può rilevare che nello scritto già citato il De Stefani giustamente accusato i casi, nei quali si manifesta «l’istintiva tendenza della burocrazia a subordinare a sé stessa l’ordine corporativo senza parteciparvi e rimanendo anzi fuori dalla sua disciplina». È di nuovo l’«idea di una burocrazia estranea alla rivoluzione del sistema e il cui statuto giuridico è sostanzialmente ancora quello del liberalismo, malgrado i vastissimi compiti e le gigantesche responsabilità», idea che andrebbe riveduta – secondo lo stesso De Stefani – per venire alla creazione di un adeguato diritto, contro «i gratuiti difensori di interessi precostituiti, i quali mal sopportano vincoli specifici ed operanti dopo averli accettati nella loro formulazione generica, evanescente ed innocua».

19 gennaio 1939, il tradimento dei Savoia è ancora lontano: Vittorio Emanuele III inaugura la Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Da sinistra: il principe ereditario Umberto, Vittorio Emanuele III, Amedeo duca d’Aosta, Vittorio Emanuele conte di Torino
È così che le cose, in molti casi, stanno di fatto, col risultato di rafforzare quel che abbiamo chiamato il feudalismo della burocrazia non-neutra. Esaminare le vie attraverso le quali questo stato di fatto persiste, non è nostro compito, sia perché l’argomento è delicato e va trattato solo da chi ne è autorizzato, sia perché queste vie variano caso per caso a seconda delle situazioni, delle persone e delle opportunità. In ogni modo, anche a limitarsi al puro campo dei principi e supponendo dunque che il sistema dei decreti-legge rifletta sempre e soltanto lo spirito che, solo, può giustificarlo in regime fascista, è evidente che le trasformazioni più recenti dell’istituto parlamentare sono destinate a sollevare nuovi problemi e a ravvivare delle esigenze di coerenza e di organicità costituzionale, le quali in precedenza potevano anche non esser direttamente avvertite. Infatti, è chiaro che con le riforme ora accennate la rivoluzione fascista intende superare interamente la concezione puramente legislativa della funzione del Parlamento e far di esso un organo determinante, dato che esso è ormai divenuto il luogo ove l’elemento politico direttivo s’incontra con l’ordine delle competenze tecniche e delle gerarchie amministrative. Così stando le cose, se si procederà con coerenza su questa direzione arditamente rivoluzionaria, tanto da dare alla nuova idea costituzionale fascista una effettiva coerenza e organicità, è difficile pensare che il Consiglio Nazionale, sostituitosi all’antico istituto parlamentare, possa fare a meno di rivendicare per sé stesso – e, a dir vero, nei termini di un suo potere affatto normale e generale – esattamente ciò che è proprio al decreto-legge, ciò che sarà anzi necessario, per impedire una specie di duplicazione e, in fondo, una situazione perfino anarchica, determinata dall’uso multiplo dello stesso potere, mentre questo dovrebbe rimaner concentrato in un organo centrale e esser usato solo da esso per la soluzione dei vari problemi.
Qualora ci si rendesse conto di questa esigenza e si procedesse di conseguenza, non vi è dubbio che si sarebbe già fatto un notevole passo avanti nel senso della limitazione del potere della burocrazia e dello smantellamento della intercapedine che essa, in tanti casi, costituisce. Riprendendo il motivo, col quale si sono iniziate le presenti, sommarie considerazioni, ripetiamo che uno dei principali settori da battere nella campagna antiborghese è proprio costituito dalla burocrazia, perché essa minaccia, nel suo isolamento e nella sua non-neutralità, il nucleo più vitale della intera compagine del nuovo Stato: costituendo, in pari tempo, una specie di materia isolante o diatermica, che arresta e menoma la facoltà di visione e lo slancio creatore e animatore proprio agli esponenti della vera classe politica dirigente.
Per questa classe la burocrazia, di cui qui si è detto, rappresenta un costante pericolo, perché essa mette in opera ogni mezzo per cattivarsela, ai fini di partecipare della sua autorità e di servirsi del suo prestigio, tanto da riprodurre, mutatis mutandis, lo stile proprio a noti ambienti del periodo prefascista e parlamentaristico, abilissimi nell’assicurarsi tutte le situazioni atte a propiziare dei vantaggi e ad allontanare simultaneamente le responsabilità. Perciò quando il fascismo avrà vinta, con risolutezza romana, questa battaglia sul fronte interno dell’antiborghesismo, esso avrà anche compiuto un passo gigantesco sulla direzione del completo adeguamento di ogni forza e di ogni settore della nazione agli ideali etici della Rivoluzione mussoliniana.
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